È il 5 settembre del 1969 e gli Stooges sono sul palco del Pavillon per il loro primo concerto a New York. Attaccano con un pezzo, Iggy Pop punta la folla e si lancia sull’asfalto – plausibilmente è anche il primo stage diving della storia. Poi inizia a tagliarsi con una chitarra spezzata. «Non era teatrale, era arte drammatica. Iggy non stava recitando, era tutto vero. A fine live vidi il pubblico lanciare bottiglie e rose al suo cospetto. Quel giorno la mia vita è cambiata». Alan Vega è solo uno dei tanti – maestri dei maestri o comuni mortali – a cui gli Stooges hanno stravolto per sempre l’esistenza (succedeva ancora 13 anni fa, in un live memorabile a Torino). Dalla periferia del Michigan attraverso l’illuminazione del blues di Chicago, l’Iguana insieme a «quei punk fatti e finiti dei fratelli Asheton» e Dave Alexander spazzarono via gli anni 60 del peace and love, ribaltando i connotati del rock. Furia, droghe pesanti, ambizioni artistiche (il sax di Steve Mckay a rappresentarne una parte) e l’originalità di un suono e una visone senza cui – ricordiamolo ancora – non ci sarebbero stati punk, grunge, indie alternative e forse neanche la new wave. Dopo di loro nulla sarebbe stato più lo stesso e c’è da scommettere che in Gimme Danger, la “love letter” di Jarmush agli Stooges, troveremo molta di quella energia dal vivo alimentata nella viziosa casa comune dove viveva la band. E poi immortalata nel sempiterno Fun House.

CHIARA COLLI