Non sono le parole a fare di un evento un’esperienza significativa, ma l’esperienza stessa e – in questo caso – la musica. E di parole sul roBOt se ne sono dette troppe, anche a sproposito. Quello che segue è perciò solo il nostro resoconto dei momenti migliori, quelli che siamo contenti di aver vissuto o ballato, a prescindere dalle polemiche, i confronti, i “se” e i “ma”. E al roBOt auguriamo lunga vita, perché Bologna ne ha bisogno e c’è un pubblico che lo dimostra, un pubblico nuovo probabilmente, che non ha bisogno di grandi cose, ma sa ascoltare (o stare in fila, se necessario) e divertirsi fuori dalle chiacchiere.
Il reboot, è stato anche un bel debug e, insomma, ha funzionato.
Ecco cosa ricorderemo:
Il set di Hieroglyphic Being, in assoluto tra i gesti più radicali intercettati negli ultimi anni. Jam preregistrate mixate sul momento assecondando il mood, reinterpretandolo da par suo: tempo fuor di sesto ma sul serio, suoni mai visti come diceva Lory D. Il clash analogico-digitale diventa reale, concreto, profondamente perturbante, autenticamente problematico.
Il set conclusivo della serata di giovedì di Memoryman. Abbiamo perso il conto delle volte in cui l’abbiamo visto dietro ai piatti, eppure ogni volta è sempre come se fosse la prima. Un ricostituente per cuore e anima: mai troppo, mai abbastanza.
Verotika live, il momento più psichedelico di roBOt09. Roba che manco nei sogni bagnati di Tim Leary.
Space Dimension Controller, meno allucinatorio di quanto ci aspettassimo, in compenso assassino sopra il beat.
Inner Lakes, techno alla vecchia che pesta più di un fabbro particolarmente incarognito.
Il live di Aurora Halal, la rivelazione di roBOt09. Pura estasi, da mandare in orbita anche un sordo.
Stingray 313, il set più compatto di tutti i suoi a cui abbiamo assistito: non un istante di tregua, tensione sempre altissima, manco una goccia di sudore. Con tutta evidenza deve essere bionico.