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Run The Jewels: la perfetta equazione hip hop

La storia del fortunato sodalizio sull'asse New York - Atlanta di El-P e Killer Mike in occasione delle due date italiane a settembre di Run The Jewels.

Scritto da Costanzo Colombo Reiser il 30 luglio 2015
Aggiornato il 29 settembre 2015

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Da due anni a questa parte sto facendo proselitismo per i Run The Jewels con chiunque mi capiti a tiro, spiegando perché sono dei fighi, perché la loro musica piscia in testa a larga parte del rap contemporaneo e, ultimo ma non per importanza, perché i loro dischi possono essere apprezzati anche da chi ascolta altro (purché questo «altro» sia qualcosa di dignitoso che non intacchi la propria autostima, il che esclude a priori i fan di – un nome a caso – Ghemon). Senza falsa modestia, reputo di aver convertito un po’ di gente, anche se magari proviene da milieu sonori completamente diversi.

Perciò mi ero riproposto di fare lo stesso in questo articolo, sfruttando i 10k di battute a mia disposizione per illustrare i motivi che rendono il duo una delle migliori rivelazioni degli scorsi 5 anni; soprattutto, mi sarebbe piaciuto saper spiegare qual è il segreto della loro efficacia trasversale, quel “fattore wow” che li rende superiori a tanti loro colleghi che, senza infamia e senza lode, rimarranno sempre materiale per aficionados e basta. Purtroppo, più ci penso e più mi risulta difficile isolare i singoli motivi: come gli EPMD, gli OutKast o Pete Rock & CL Smooth, il duo composto da Killer Mike ed El-P funziona grazie all’alchimia tra i suoi componenti – graziarcazzo – eppure è impossibile risalire alla formula esatta che ne regola i rapporti. Entrambi erano artisti eccellenti già da prima, ma il loro sodalizio ha dato risultati superiori alla semplice somma delle parti. Già, ma come? Perché pezzi come questo mi fomentano così tanto?

Saranno il synth ciccione, la ritmica ossessiva, gli intrecci delle metriche, lo scambio dei due al microfono; fatto sta che a ogni ascolto mi sale la voglia di prendere a testate bebé di foca gridando FUCK YEAH!!! Tuttavia, come mi si chiede perché, mi viene da rispondere con «Ma che ne so, ascoltali». Che va benissimo con gli amici, un po’ meno in un articolo. E allora proviamo a partire da zero e a isolare i singoli elementi che compongono l’equazione dei RTJ.

1. EL-P

Primi anni Zero, panoramica dall’alto su New York, zoom sul quartiere di Brooklyn; in un lungo piano sequenza si passa dalla vista a volo d’uccello a una prospettiva in prima persona che ci porta all’interno di in edificio in zona Fort Greene. Siamo negli studi della Definitive Jux, e dalla sala di registrazione è appena uscito Mr. Lif, o Aesop Rock, oppure El-P stesso, che dell’etichetta è il fondatore. Il periodo post 11 settembre rappresenta il punto di rottura definitivo tra rap mainstream e underground; mentre il primo s’impone come il genere di maggior successo del mondo a botte di dischi d’oro e platino, il secondo vede una manciata di artisti irrigidirsi su canoni classici oppure, in alternativa, spingere il genere verso nuove direzioni creative. È quest’ultimo l’aspetto che qui ci interessa, con tre etichette/collettivi che emergono in quegli anni: sulla costa californiana si fanno notare la Anticon (Sole, Sage Francis, Why?) e la Stones Throw (Madlib, J.Dilla, Oh No), mentre su quella atlantica s’impone la Def Jux.

Fondata nel ‘99 da El-P – classe ‘75, all’anagrafe Jaime Meline – dopo il tracollo della Rawkus (la Motown del rap underground newyorchese) essa ne eredita il credo e porta a un’evoluzione stilistica estrema: i dischi prodotti sotto la sua egida si caratterizzano per il sound freddo e futuristico, che unisce contaminazioni provenienti dall’elettronica all’estetica della prima età d’oro dell’hip hop (1986-1989). In un’intervista del 2002, El-P cita tra le sue maggiori fonti d’ispirazione i Public Enemy, la cui influenza è infatti lampante nei beat prodotti per sé stesso o per affiliati come i Cannibal Ox, Cage e Mr. Lif. Album come The Cold Vein, Hell’s Winter e I Phantom sono oggi ritenuti delle perle del periodo; caratterizzati da un sound unico e innovativo, omaggiano comunque il rap classico. Quello di El & soci non è quindi un “famolo strano” fine a se stesso, quanto una costante reinvenzione del tradizionale boombap sui 4/4.

Riascoltata oggi, la musica prodotta in quel periodo continua a stupire per la sua freschezza e la sua visionarietà; ambedue aspetti che all’epoca generarono addirittura discontento tra alcuni – tra cui il sottoscritto, lo ammetto – che reputavano indigeribile una tale densità di suoni e stimoli, preferendo rifugiarsi in stili più tradizionali.
Purtroppo, però, sul finire dello scorso decennio la produzione di El-P vede un progressivo calo quantitativo e qualitativo; le uscite si fanno più sporadiche, alcuni artisti della sua scuderia si ritirano oppure si dedicano ad altri generi, così da spingerlo a chiudere di fatto la sua etichetta e a pubblicare i propri lavori presso terzi. Lavori che suonano «tradizionalmente avanti»: restano cioé originali e superiori alla media, ma comunque prevedibili. Forse non un male assoluto, ma pur sempre un peccato.

2. KILLER MIKE

Quanto all’altro componente dei Run The Jewels, la sua storia è più semplice. Michael Render, nativo di Atlanta e coetaneo di El-P, cresce ascoltando non solo rapper di New York (Big Daddy Kane, Rakim, i Run DMC) o Los Angeles (gli NWA, Ice T, i Compton’s Most Wanted), ma anche artisti del cosiddetto “dirty south” come i Geto Boys, gli UGK e 8Ball & MJG. La sua carriera, però, comincia grazie a un duo della sua città, gli OutKast, che lo invitano ad apparire prima in un pezzo tratto da Stankonia, e poi in una delle tante hit presenti nel doppio Speakerboxxx/The Love Below, meglio noto come l’album di maggior successo nella storia dell’hip hop, con oltre undici milioni di copie all’attivo.

Viste le premesse, la strada di Mike sembra essere in discesa, ma l’album solista d’esordio, Monster, non raggiunge nemmeno le 500,000 copie vendute. Il che, col senno di poi, forse è un bene: è un’opera acerba, il cui (relativo) fallimento spinge Mike a intraprendere un percorso da battitore libero dove affinare il suo stile e arricchire lo spettro dei contenuti senza interferenze da terzi. La trilogia dei I Pledge Allegiance To The Grind (2006-2011) vede il Nostro soffermarsi su tematiche sempre più mature e politicamente impegnate, pur senza risultare noioso; ogni suo nuovo disco dimostra che l’edutainment è una strada percorribile e che critica sociale (That’s Life) e pezzi street (Good-Bye) possono convivere e complementarsi a vicenda, senza per questo sacrificare la propria credibilità. D’altronde, se anche il suo attivismo politico fosse una parruccata – e non lo è – credo che 180cm di altezza per 112kg farebbero desistere molti dal dirglielo in faccia.

Ciò detto, se voleste farvi un’idea della maturazione dell’artista, nonché della sua unicità, il miglior album di Mike resta R.A.P. Music (2012). In sole dodici tracce il Nostro sventra il microfono e lo fa su beat di El-P, nientemeno. La collaborazione, a dir poco inaspettata, nasce quando Jason DeMarco, direttore creativo di Adult Swim e grande fan dell’hip hop, chiede ai due – coi quali aveva già lavorato in passato – di registrare «qualche traccia» per il canale di cui è responsabile. Il risultato va oltre ogni aspettativa: dopo nemmeno dieci minuti, Meline e Render si stanno uccidendo di bombe (sempre un buon segno) scambiandosi idee per le prime canzoni, molte delle quali appariranno su R.A.P. Music. Reagan, Big Beast, Don’t Die: già solo in queste tre tracce si sente quanto Mike risulti perfetto per lo stile di El e viceversa. Ma è nella collaborazione Butane (Champion’s Anthem) che s’intuisce il vero potenziale insito nel duo, facendo così sperare in un sodalizio più duraturo.

RUN THE JEWELS

Ora: di solito, nel rap simili sogni restano tali. La lista dei pacchi tirati dai rapper – i più grossi cazzari dal secondo dopoguerra a oggi – è lunga e va dall’album di Dr. Dre e Ice Cube fino a quello di Nas e Premier, passando a pacchettini mignon come l’annunciata collaborazione tra Cormega e Ayatollah. Stavolta però il grande patrono degli infottati decide di darsi una mossa: il 9 aprile 2013 viene ufficializzata la formazione dei Run The Jewels, e dopo nemmeno un mese e mezzo è possibile scaricare gratuitamente il loro omonimo esordio. BOOOM. Come previsto, si tratta di un’unione che produce qualcosa di unico: da un lato, la differenza stilistica al microfono tra i due consente un’alternanza di flow e immaginario che arricchisce l’ascolto più che mai; dall’altro i beat scelti vengono spogliati di alcune bizzarrie avanguardistiche – perfette per El, meno per altri – e sono ridotti a un assalto acustico fatto di sintetizzatori, campioni filtratissimi e rullanti sporchi. Già al primo ascolto si capisce come il risultato sia quanto di più fresco esista a Est di Kendrick Lamar, e quello che lo rende ancora più degno di nota è che a produrlo siano stati due (quasi) quarantenni. Non è un dettaglio irrilevante.

Uno dei crucci (che affliggono tanto gli artisti quanto gli ascoltatori) di questo genere musicale sta infatti nell’età: da un lato, per pudore, dopo i 35 anni non si può continuare a rappare di argomenti buoni per i 20 (con tutto il rispetto: il lingo da prescopata di LL Cool J oggigiorno inquieta); per converso, dedicarsi a temi seriosi spesso comporta una discesa negli abissi della noia, come dimostrano le carriere dei vari presibbene di professione in vena di dar lezioni di vita (ciao Talib, ciao Common, salutatemi anche KRS One). Sono in pochi a sfuggire a queste trappole, perciò sono doppiamente felice di poter affermare che i Run the Jewels rientrino a pieno titolo nella categoria dei salvati.

La conferma dell’efficacia del team giunge nell’autunno 2014 con il secondo album, intitolato semplicemente Run The Jewels 2. Molti critici lo paragonano addirittura al classico di Ice Cube AmeriKKKa’s Most Wanted di Ice Cube (calma riga’), ma, esagerazioni a parte, quello che conta è che risulta essere una forma perfezionata del primo. Fare una recensione adesso non avrebbe senso: basti dire che si tratta di un’opera rifinita in ogni dettaglio e perfetta nella sua crudezza.

Adesso resta solo da vedere come se la cavano live, ma da quel che si vede sul Tubo direi che non c’è da temere sòle inaspettate. Posso solo dare due consigli: il primo è di andarci (il 2 settembre al Circolo Magnolia di Milano e il 3 a Zona Roveri di Bologna); il secondo, invece, di non salire sul palco senza invito.

Costanzo Colombo Reiser è nato a Milano nel 1981. Di professione grafico, è anche consulente editoriale per Prismo. Ha scritto per Mucchio, L’Ultimo Uomo, Rivista Studio e L’Uomo Vogue.