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Alessandro Dandini de Sylva

Il 9 ottobre aprirà al pubblico la quattordicesima edizione di FOTOGRAFIA – Festival Internazionale di Roma, rassegna sempre dal futuro incerto nonostante sia la principale del settore in città. Ne abbiamo parlato con Alessandro Dandini de Sylva, fotografo e curatore del Festival dal 2011.

Scritto da Nicola Gerundino il 5 ottobre 2015
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Probabilmente in questi ultimi 5 anni la fotografia si è attestata come il media più utilizzato nella quotidianità globale: la quantità di immagini visionata nell’arco di 24 ore da una singola persona è altissima, mentre solo una generazione fa ci si imbatteva al massimo in quello che pubblicavano quotidiani e riviste. La quattordicesima edizione di FOTOGRAFIA – Festival Internazionale di Roma si fa trovare attenta scegliendo il “Presente” come tema, Roma, invece, si fa trovare impreparata, lasciando navigare a vista questa che è la principale rassegna capitolina dedicata alla fotografia e non sviluppando ancora una rete tra istituzioni e privati che supporti adeguatamente il settore. Abbiamo approfittato dell’imminente inaugurazione dell’edizione 2015 Festival per fare due chiacchiere sull’argomento con Alessandro Dandini de Sylva che ne è curatore dal 2011.

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L’edizione 2014 di FOTOGRAFIA

 

Zero: Come ti chiami e quando sei nato?
Alessandro Dandini de Sylva: Alessandro Dandini de Sylva, sono nato il 14 ottobre del 1981.

Quando nasce la tua passione per la fotografia?

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Gli edifici della 27ma a New York

Prima di iniziare la mia brevissima carriera nel mondo degli affari ero riuscito a passare tre mesi a New York lavorando come assistente per un fotografo che aveva lo studio nello stesso edificio dell’Aperture Foundation. Ormai erano passati due anni e avevo quasi smesso di pensarci, quando il fotografo mi scrive e mi chiede di tornare a lavorare per lui. Non ci ho messo molto a mollare tutto e in poco ero di nuovo a New York a scattare polaroid.

Sfogliavi (o sfogli ancora) qualche album di foto di famiglia? Solitamente erano uno dei primi contatti che si aveva con l’immagine stampata, prima che arrivassero i pc in casa.
Da piccolo rubavo le fotografie migliori dagli album dei miei genitori e le raccoglievo nei miei. Di tanto in tanto, sfogliandoli, ancora si scoprono dei vuoti.

Ti ricordi la prima macchina fotografica che hai avuto?
La prima macchina fotografica con cui mi sono divertito molto è stata una vecchia Polaroid Camera di mio fratello, aveva un filtro che triplicava l’immagine sullo stesso negativo, era un gioco ma qualcosa è rimasto.

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Autoritratto di Alessandro con la Polaroid dal filtro triplo.

 

Ora che macchina utilizzi?
Uso ancora una vecchia Polaroid Camera, ma nel tempo il gioco si è fatto più serio e ora scatto soprattutto con una Plaubel Makina 6×7 e uno Shen Hao 4×5.

A cosa stai lavorando in questi giorni?
Ho appena presentato il mio primo libro d’artista, Paesaggi, una raccolta di ventuno manipolazioni di polaroid scattate tra il 2008 e il 2014. Il libro è il risultato di una lunga collaborazione con Filippo Nostri, uno dei più interessanti designer di libri fotografici oggi in Italia. Trasponendo il progetto in libro, abbiamo deciso di negare l’origine fotografica delle immagini e focalizzare l’attenzione sull’ambiguità del lavoro e sulla possibilità di rappresentare il paesaggio astraendo dal vero. Ci siamo spinti così oltre da trasformare un libro fotografico in un quaderno di acquerelli e, da un punto cosi lontano, è stato interessante voltarsi indietro e ripensare alla fotografia e a cosa significa vedere.

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Uno dei paesaggi di Alessandro.

 

Oltre che artista sei anche curatore, nello specifico, curatore per il Festival di Fotografia di Roma: quando e come è nata questa collaborazione?
Ho iniziato a collaborare con FOTOGRAFIA – Festival Internazionale di Roma nel 2011. L’8 ottobre 2015 inaugureremo al Macro di via Nizza la XIV edizione, la quinta che curo insieme al direttore artistico, Marco Delogu.

Curi qualche sezione in particolare?
Tra le varie mostre in programma al MACRO, curo Metabolism di Rachel de Joode, giovane artista olandese che fonde i mezzi della fotografia e della scultura. Il suo lavoro sonda il ruolo e l’estetica dello spazio espositivo in relazione alla vastissima circolazione della documentazione dell’arte contemporanea su Internet. La sua mostra prosegue il percorso di ricerca sulla fotografia sperimentale che ho avviato con le mostre di Fleur van Dodewaard nel 2013 e Asger Carlsen nel 2014.

"Sculpted Human Skin In Rock", opera di Rachel de Joode del 2014.
“Sculpted Human Skin In Rock”, opera di Rachel de Joode del 2014.

 

Puoi raccontarci brevemente il tema di questa edizione, “Il presente”?
Il tema di questa edizione si presta a infinite considerazioni e nella selezione dei vari autori abbiamo cercato di mostrare tutte le sue possibili sfaccettature. Abbiamo ragionato sul presente della fotografia italiana unendo in una grande collettiva il meglio delle nuove generazioni. Abbiamo scelto artisti i cui progetti ci parlassero del rapporto tra il tempo presente e il mezzo fotografico. E altri che riflettessero su cosa significa fare fotografia oggi.

Soprattutto grazie agli smartphone, oramai il presente fotografico è veramente sovrapponibile al “qui e ora”: come stanno cambiando la fotografia e il rapporto con la fotografia le nuove tecnologie?
Ti rispondo con una citazione di László Moholy-Nagy: «Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia, sarà l’analfabeta del futuro».

Immagino avrai avuto modo di visionare gran parte dei lavori che saranno esposti: c’è un immagine o un fotografo che ti ha colpito?
Mi ha colpito il lavoro di Drew Nikonowicz. In This World and Others Like It indaga il ruolo dell’esploratore nel XXI secolo, combinando modelli al computer con procedimenti fotografici analogici. Le sue immagini in bianco e nero sono assolutamente visionarie.

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Un’immagine dalla serie “This World and Others Like It”

 

Il Festival negli anni ha vissuto momenti tribolati, in cui si è paventata anche la chiusura: come li hai vissuti, sia da addetto interno alla rassegna che – usiamo questa espressione – da “cittadino fotografo”?
Manca una visione di lungo respiro e navighiamo a vista. Ma ho imparato da Marco Delogu a costruire le cose giorno per giorno. Lo facciamo per tutti quelli che come noi non si rassegnano all’idea di dover lasciare Roma per vedere della buona fotografia.

Com’è il sistema-Roma rispetto alla fotografia? C’è una rete (auto)sufficiente di gallerie, musei e fondazioni? Te lo chiediamo sapendo che diverse volte hai esposto qui in città dei tuoi lavori.
La città di Roma non investe sulla fotografia nonostante ci sia un pubblico romano pronto a viaggiare in Europa e nel mondo per assistere a mostre, festival e fiere.

La fotografia italiana sta vivendo un momento d’oro e, senza il supporto di istituzioni o gallerie, giovani autori ottengono anno dopo anno importanti riconoscimenti internazionali.

Purtroppo a Roma non ci sono dipartimenti di fotografia nei musei e le gallerie e le librerie dedicate al mezzo fotografico si contano sulle dita di una mano. Ma credo nelle potenzialità delle realtà indipendenti, dei piccoli festival e dei giovani curatori e editori: le cose stanno per cambiare.

I festival di fotografia che per te sono un riferimento?
I punti di riferimento non sono festival ma istituzioni come il Jeu de Paume a Parigi, il FOAM ad Amsterdam, la Photographer’s Gallery a Londra e la Aperture Foundation a New York. O fiere come Paris Photo, Unseen e Offprint.

C’è una querelle che imperversa da tempo che riguarda la rielaborazione digitale delle immagini. Posto che si tratta di una questione più legata ai reportage giornalistici, ci piaceva avere una tua opinione in merito, visto che molti dei tuoi lavori sono legati addirittura a una rielaborazione chimica degli scatti. Ecco, fino a quanto ci si può intromettere tra luce e pellicola?
Tra luce e pellicola ci si è sempre intromessi e fortunatamente artisti come László Moholy-Nagy o Man Ray non si sono posti limiti. L’inutile questione della manipolazione digitale è superata. Photoshop è parte del processo fotografico come la lente e l’otturatore e artisti come Kate Steciw, Rachel de Joode e Lucas Blalock ne fanno buon uso e continuano a non porsi limiti.

Un lavoro di Lucas Blalock.
Un lavoro di Lucas Blalock.

 

Un fotografo che in assoluto per te rappresenta l’idea di presente?
Paul Graham. In The Present riesce a imitare l’esperienza visiva, spezza il momento decisivo e riflette lo scorrere del tempo.

Il tuo fotografo preferito di sempre?
Jeff Wall.

La mostra più bella che ultimamente ti è capitato di vedere?
Descension di Anish Kapoor alla Galleria Continua a San Gimignano.

Dovendo scegliere un soggetto per descrivere Roma, quale sceglieresti attualmente?
I pini.

Il dettaglio di Roma che ti è capitato più spesso di fotografare?
La vista dell’Aniene dalla vetrata del mio studio a Pietralata.

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L’Aniene visto da Alessandro.

 

Un bar o un ristorante dove ti piace andare a Roma?
Il ristorante del Lanificio al piano sotto il mio studio. La vista dell’Aniene lì è ancora più selvaggia.

C’è una libreria di Roma dove vai spesso per trovare volumi fotografici?
Andavo da s.t. a Borgo Pio, ma ormai ha chiuso. L’unica alternativa ora è One Room a piazza dei Satiri.

Altri luoghi di Roma che ti piace frequentare?
Torno spesso al Museo Centrale Montemartini e mi piace andare ai concerti dell’Accademia di Santa Cecilia. E per una passeggiata, la sponda dell’Aniene che vedo dal mio studio e il Villaggio Olimpico, dove ho da poco preso casa.

Da fotografo, puoi certificare l’unicità della luce di Roma, da tutti decantata?
I tramonti che vedevo da casa dei miei genitori sono rimasti in molte mie fotografie.