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Andrea Minetto e Silvia Tarassi

Chi sono e cosa fanno due che, in città, puntano a promuovere la Cultura e i suoi spazi

Scritto da La Redazione il 17 agosto 2015
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Andrea Minetto (36 anni) e Silvia Tarassi (31). Fanno “politica” come dicono loro. Meglio, sono persone che fanno cose a Milano. Anzi cercano di facilitarle. Nell’Assessorato alla Cultura affiancano Filippo Del Corno per mappare la città e agevolare le realtà che producono cultura.
Incontrarli era doveroso. Ecco cosa ci hanno detto di quello che sta succedendo a Milano.

Zero: Che cosa facevi prima di lavorare in Assessorato?

Andrea: la mia biografia non è così interessante e lineare, ma è ricca di tante esperienze che mi hanno permesso di conoscere mondi completamente diversi tra loro e sviluppare tantissime sensibilità, davvero utili in quello che faccio ora. Mi ritengo fortunato perché prima di arrivare a fare consulenza e progettazione per progetti importanti, ho lavorato molto nel cosiddetto backstage. Organizzazione, luci, schede tecniche, tournée, borderò cartacei infernali e manifesti attaccati di notte per le strade di Milano sono stati il mio pane per tanti anni. Ho cominciato prestissimo con locali e gruppi storici di Milano (Rolling Stone, Container, Rainbow con Punkreas, Shandon e tantissimi altri gruppi della scena underground) e poi pian piano con artisti famosi di tutto il mondo (Richard Galliano, Patti Smith, Caetano Veloso, London Sinfonietta, Antony and the Johnsons, Ensemble Modern, Philip Glass, Paolo Fresu) passando dalla piccola associazione culturale alla grande agenzia e da ogni tipo di festival in giro per l’Italia. Ho lavorato alle prime cinque edizioni di MITO, una vera palestra di energia per tanti professionisti di oggi e negli ultimi anni ho curato come coordinatore con un gruppo eccezionale le prime edizioni di Piano City e altri Festival Diffusi, che tanto hanno avuto presa in città, iniziando proprio con questi a capire il potenziale immenso e spesso nascosto del tessuto culturale di Milano.

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Silvia: ho lavorato in università, ho fatto una tesi e un dottorato di ricerca sulla scena della musica dal vivo a Milano. Mi è sempre interessato capire le diverse realtà musicali della città. Il tema che ho sempre sostenuto è facilitare tutti gli aspetti relativi a organizzare eventi culturali e musicali in città.

Come sono le professionalità culturali a Milano?

A: Si sono molto evolute ed è giusto riconoscerlo. Insegno dal 2009 all’Accademia della Scala, ma sono stato anche alla mitica Paolo Grassi e conosco diverse esperienze di master in ambito di organizzazione culturale che sfornano ottimi professionisti. A Milano ci sono tante professionalità importanti, che ora vanno valorizzate e messe alla prova. C’è ancora una cappa troppo spesso generazionale, di approccio ideologico e poco professionale, all’organizzazione culturale che non fa bene al nuovo assetto del mercato, lo indebolisce e non lo fa riconoscere.

S: lavorare in Assessorato alla Cultura ti permette di vedere i vari livelli di professionalità e di amatorialità di un settore; e quindi ti trovi con organizzatori che investono un budget altissimo sulla produzione e bassissimo sulla comunicazione con poi problemi di pubblico, o che hanno difficoltà nell’interagire con un soggetto istituzionale. Il nostro lavoro è spesso anche quello di accompagnare questi soggetti.

Che cosa significa per voi lavorare in Assessorato?

A: per me è un periodo bellissimo. Ho mollato tutto per questa parentesi e finalmente è bello provare a “restituire” alla città quello che mi ha dato. Ho il privilegio di lavorare in un flusso continuo di idee, arte, musica, teatro, ma in un modo contemporaneamente ideale e pragmatico, molto vicino alla mia idea di politica attiva e consapevole. Vivo la città da un osservatorio speciale, a volte molto limitato dalla burocrazia e dalla pigrizia nei confronti del cambiamento, ma finalmente ho la possibilità di contribuire al miglioramento e concretizzare una visione di servizio che può realmente avere un ente pubblico.

S: per me significa lavorare con un atteggiamento nuovo, meno ideologico fuori dagli slogan “più musica, più cultura per tutti” ma rispettare il lavoro di chi fa musica e cultura per riconoscere le professionalità sul campo e le economie reali. Costruire anziché distruggere. Diffondere energia creativa.

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Che cosa significa mappare la città?

A: non facciamo alcunché di rivoluzionario, ma cerchiamo semplicemente di approfondire, collegare e stimolare persone e idee. Un intervento consapevole ed efficace dell’Amministrazione passa necessariamente da una conoscenza approfondita del territorio e appena arrivati qui ci siamo resi conto che ormai da dieci anni non si tendeva a monitorare con attenzione i soggetti e le varie forme di creatività cittadina, soprattutto quella giovanile.
Per questo cerchiamo di conoscere, di accompagnare e di dare benefici che siano reciproci in un perimetro di progetto condiviso. Non soldi al soggetto in sé, come spesso si è fatto a prescindere dal senso e dall’efficacia della proposta. Si tratta di un lavoro silenzioso e lungo, perché i soggetti vanno incontrati e capiti, vanno concessi bisogni reciproci così da creare sinergie tra chi ha contenuti, chi ha spazi e chi vuole investire.
Ci sono luoghi da utilizzare e idee che meritano maggiori possibilità anche in un contesto dove l’iniezione di cash pubblico è ormai praticamente impossibile. È uno sforzo che va fatto, altrimenti non si costruisce nulla di nuovo rispetto ai gradi “padri” che oggi abbiamo.
Ti faccio un esempio semplice: il modello Elfo e Franco Parenti, le compagnie che riescono ad avere una propria casa dopo anni di lotta, non è facilmente replicabile. La sostenibilità della cultura è cambiata radicalmente e occorrono modelli nuovi di intervento, basati su infrastrutture condivise, trasversali e improntate sempre di più a fortissime agevolazioni in termini burocratici e di servizi.

S: Mappare è oggi a Milano un’operazione molto più difficile di una semplice ricostruzione dei luoghi dove si fa cultura e musica. Ti ritrovi una realtà molto più complessa da analizzare, non fatta solo da luoghi ma da circuiti di relazione con operatori che non lavorano su un singolo spazio, ma in maniera diffusa su tutta la città, organizzando una rassegna in un locale, un festival in un parco etc.
Nella mia tesi di dottorato avevo fatto un esperimento: avevo chiesto a ogni persona intervistata di disegnare la rete di relazioni dei soggetti intorno a cui gravitava il suo lavoro nella musica dal vivo a Milano. Il risultato era la ricostruzione di una mappa di relazione molto complessa in cui si intersecavano le relazioni di ciascuno a volte in luoghi a volte in progetti comuni.

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Che cosa intendete per infrastrutture?

A: servizi trasversali a tutti e non facilitazioni ad hoc. Agevolazioni burocratiche speciali e costanti al comparto culturale come l’annullamento della COSAP entro certi limiti, reti informative più capillari ed efficienti, spazi pubblicitari riservati, momenti di networking costanti, luoghi condivisi dove si abbattono le spese fisse. Non è più il tempo della distribuzione di soldi a pioggia. Oggi si devono trovare strumenti sempre più accurati per facilitare la creatività e soprattutto attrarre nuovo pubblico, in particolar modo nella sfida dell’area metropolitana, se guardiamo fuori dai nostri confini. Se invece guardiamo dentro al Comune, c’è una marea di piccole agevolazioni a costo zero che si possono fare nelle pieghe della burocrazia e che avrebbero effetti incredibili di moltiplicazione e, appunto, sostegno strutturale.

S: Le infrastrutture per me comprendono anche soggetti istituzionali forti con cui un singolo operatore culturale non riuscirebbe a interagire. Mi viene in mente la convenzione stipulata con Siae, che ci ha permesso nel periodo di Expo di portare alcune agevolazioni per gli organizzatori di eventi di spettacolo, come la costituzione di un fondo per la promozione della giovane creatività, la riduzione del 10% dei canoni per eventi gratuiti, e l’abbattimento del deposito cauzionale per depositi inferiore ai 1.000 euro. Questo è un intervento infrastrutturale in un certo senso.

Come sta andando lo sportello unico?

A: molto bene, ma c’è ancora da fare. Per ora abbiamo riunito uffici e pratiche: basta un modulo anziché undici e c’è un servizio costante di consulenza e affiancamento che si occupa nello stesso posto di tutti gli aspetti di un evento. In tre mesi di Expoincittà ne abbiamo gestiti oltre 500 in maniera integrata, con apprezzamenti sia dagli operatori che degli stessi addetti comunali, che riducono gli errori e i doppi passaggi. In pratica non è più un Comune che dice solo sì o no, ma un Comune che ti aiuta a capire come fare, proprio come un facilitatore.
Il prossimo passo è la digitalizzazione e la tracciabilità on line di ogni pratica. Sembra scontato, ma c’è ancora chi dall’interno fa resistenza. L’innovazione fa scena sulla carta, ma se provi ad applicarla, ti spiegano subito le controindicazioni. Questa fatica è pero bilanciata dal bellissimo gruppo di lavoro dello staff di Expoincittà, che gestisce incessantemente e con grande passione tutti gli eventi del cosidetto “Fuori Expo”. Un’esperienza e un team che spero non si disperda!

Cosa mi dici del teatro continuo di Burri?

A: siamo molto orgogliosi perché è partito molto bene. Abbiamo ridato alla città uno spazio che non c’era più, concepito da un genio. È stato pagato da uno sponsor privato, messo a disposizione della città ed è richiesto per un sacco di eventi. È un esempio perfetto della sinergia tra diverse esigenze, a costo zero per l’amministrazione.

S: per questo come per altri luoghi culturali restituiti alla città il lavoro più grosso non è tanto la costruzione, ma stabilire una governance di utilizzo che permetta a tutti di avere la stessa possibilità di utilizzare lo spazio. Per il Burri la gestione del Teatro è in mano alla Triennale, che in collaborazione con noi accetta le proposte di tantissimi soggetti: a oggi abbiamo ospitato eventi diversissimi, da quelli della piccola associazione a quelli con grandi sponsor secondo lo spirito che aveva pensato Burri. L’altro tema è anche come far coesistere eventi di questi nuovi luoghi, come il Teatro Burri, con quelli che già c’erano e che animavano il parco Sempione, da quelli in piazza del Cannone al giardino della Triennale. Il nostro lavoro sta anche nel gestire questa molteplicità.

Come sta andando l’esperienza dello spazio con Elita e quali altre operazioni di recupero spazi avete intrapreso?

A: Il Cobianchi in Duomo va bene, speriamo di farlo proseguire con un’esperienza e un investimento più strutturato per sfruttarlo ancora di più. Di tutt’altra natura, a breve verrà completamente rilanciata la Fabbrica Del Vapore perché scadranno gli attuali contratti e si potrà finalmente pensare in termini di spazio generale autonomo e propositivo. Cito poi i Mercati Generali con l’Estathe Market Sound. Un spazio con una nuova vita dedicata alla musica, sempre aperto alla città che ha accolto tanti soggetti e iniziative molto diverse. Uno spazio futuro su cui invece mi piacerebbe lavorare è ExpoGate; non perché mi piaccia, ma perché un posto così serve disperatamente e tirarlo giù non ha senso. In Galleria abbiamo un punto informativo ridicolo, caotico e piccolissimo. Servono invece un info point vero, un hub di servizi turistici, una biglietteria unica per tutti i musei, un posto visibile e di passaggio dove ci si possa sedere e informarsi con calma, guardare i depliant o grandi monitor per vedere cosa accade in città, comprare un gadget, vedere l’offerta last minute di tutti i teatri e concerti in maniera integrata e facilitata. Perché mentre passeggi, tra Duomo e castello ci capiti dentro, proprio come succede in tante altre metropoli del mondo e ti lasci incuriosire.

S: È un’esperienza nuova, portare persone in centro non è facile, e lo spazio è difficilmente visibile da fuori. La cosa più difficile in questi spazi è riuscire a dare un’identità di spazio oltre agli eventi che si organizzano. Però la programmazione è continua e abbiamo a disposizione uno spazio per fare altre cose: incontri, presentazioni, laboratori. Funziona come modello. Come diceva Andrea, bisognerebbe portarlo avanti anche dopo Expo.

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Esperienze appena fatte e da ripetere in futuro?

A: Padiglione Teatri! È stato un progetto speciale che abbiamo realizzati per Expoincittà e ha coinvolto inaspettatamente oltre 50 realtà teatrali milanesi che hanno presentato al pubblico il meglio del loro repertorio, con prezzi assolutamente accessibili e in un periodo di morta in cui in cui la maggior parte dei sipari è abbassata da un pezzo.
Abbiamo riscontrato un ottimo successo di pubblico e anche il clima tra le compagnie partecipanti è stato incredibilmente positivo, come se fossimo in un vero e proprio festival cittadino che genera nuove conoscenze e collaborazioni. Anche Zero è stato tra i media partner e sostenitori del progetto ed è la dimostrazione che quando si investe bene sulla comunicazione non c’è sfida o proposta culturale che non venga colta.

Dove andate la sera?

A: mi piace cenare da Mirta, al Capoverde o al classico Tempio d’Oro, ma le Luride quando è tardi vincono sempre! Per la musica come nei teatri vado dappertutto, dalla Scala al Carroponte, dal Ringhiera al Piccolo. Consiglio l’Anguriera di Chiaravalle, ma andateci solo se siete curiosi del bel progetto che c’è dietro e non solo se siete affamati!

S: mi piacciono Gattò, l’UpCycle perché hanno unito una programmazione musicale a una proposta culinaria precisa o posti come il Taglio che stanno lavorando sulla riscoperta dei vecchi cocktail della tradizione milanese, con Rabarbaro, Zucca etc. In generale sono molto curiosa quindi mi piace andare in giro alla scoperta di concerti e situazioni nuove.

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Il mondo cambia, cosa vorresti per il futuro?

A: ho un piccolo grande sogno: la Scala con il suo foyer e le sue porte sempre aperte durante il giorno. Attraversabile, visitabile e vivibile come il Southbank Center di Londra o la WaltDisneyConcert Hall di Los Angeles, dove la gente passa attraverso, fa la pausa pranzo e vive gli spazi di giorno e per poi tornarci anche di sera. Posti a vocazione altissima ma permeabili, “desacralizzati” anche solo per qualche momento, dove accadono sempre delle cose e non sono per i 2/3 della giornata chiusi sbarrati. Con questa gestione del teatro siamo però sulla strada giusta….

S: a me piacerebbe che anche Milano si dotasse di un grande Festival. Anche se, come dicono in tanti, è una specificità tipica nostra che in Italia, come abbiamo avuto i Comuni, continueremo ad avere tanti piccoli festival diffusi più legati al territorio. Oltre a questo vorrei si creassero a Milano maggiori appuntamenti per gli operatori, quelle che all’estero si chiamano Music Industry Conference, convegni pensati per l’industria musicale con workshop, momenti di networking e showcase. Noi per ottobre ne stiamo organizzando uno con un taglio particolare per mettere a confronto soggetti istituzionali e non della filiera dell’industria musicale. Sarà un momento di confronto e dibattito su questioni come burocrazia degli eventi, sicurezza, diritti, per riflettere insieme su tanti dei temi che abbiamo affrontato in questa intervista.