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Daniele Rustioni

Milanesissimo, classe 1983, già da qualche anno è considerato uno dei 'giovani' direttori d'orchestra più talentuosi in circolazione. Il 13 e il 15 ottobre Daniele Rustioni sarà sul podio del Teatro Dal Verme per il concerto inaugurale della 72esima Stagione Sinfonica dell'Orchestra I Pomeriggi Musicali: lo abbiamo intervistato.

Scritto da Mattia Palma il 12 ottobre 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Daniele Rustioni

Foto di Davide Cerati

Nella pausa tra la lunga tournée estiva in Giappone e Sud America e la ripresa a settembre e ottobre a l’Opernhaus Zürich, incontriamo Daniele Rustioni in un raro momento di relax al bar dell’Hotel Gallia di Milano, accanto alla stazione Centrale. Milanesissimo, classe 1983, Rustioni è fresco di nomina all’Opera di Lione, di cui dal 2017 sarà direttore musicale. Il suo prossimo appuntamento in città è per il concerto inaugurale della 72esima Stagione Sinfonica dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, il 13 e 15 ottobre al Teatro Dal Verme. In programma Dvořák e Sibelius.

ZERO: Soprattutto Sibelius si esegue pochissimo in Italia: cosa ti ha spinto a scegliere la sua Quinta sinfonia?
DANIELE RUSTIONI: In realtà siamo partiti da Dvořák, per la disponibilità di un solista come Mischa Maisky ad aprire la stagione con il Concerto per violoncello. Con un brano di richiamo come questo ho voluto evitare di scegliere la solita sinfonia Dal nuovo mondo, provando invece con qualcosa di nuovo come Sibelius, che magari riuscirà perfino a entusiasmare il pubblico: penso ad esempio al finale della sinfonia.

È la prima volta che la dirigi?
Diciamo che è la prima volta che vengo pagato per farlo! In effetti è uno dei pezzi che ho studiato di più: l’ho portata al mio esame di diploma alla Royal Accademy of Music. Nel prepararla ho in mente l’eleganza nordica di Colin Devis, qui più che mai “Sir”. Ho seguito anche una masterclass con lui, oltre che due con Leif Segerstam, direttore storico della filarmonica di Helsinki. È incredibile che Segerstam tratti Sibelius come noi trattiamo Verdi o Rossini, seguendo una tradizione esecutiva che non ci immaginiamo nemmeno, fatta di colori e cambi tempo non scritti.

Pensi che abbia senso immaginare per il futuro una nostra tradizione su Sibelius?
Mi pare difficile, anche perché dovrebbe essere affrontato più spesso, dalla Rai a Santa Cecilia. Anche la Scala dovrebbe trovare un direttore capace di insistere su questo repertorio, ma lo stesso Esa-Pekka Salonen, che avrebbe potuto affrontarlo, dopo Elektra ha deciso di non tornare più a Milano, almeno per il momento.

Certo, il repertorio sinfonico lo esegui, ma sei chiamato più spesso a dirigere l’opera. In quale ruolo ti riconosci di più?
Il vero pericolo per un giovane direttore italiano è di essere marchiato come direttore d’opera, penso anche a Mariotti, Battistoni, Bignamini. Per noi la sfida è ritagliarci uno spazio sinfonico, ma dobbiamo vincere una specie di razzismo musicale. Insomma nessuno direbbe mai a Daniel Harding di dirigere solo Britten. Per questo ammiro i nostri splendidi direttori cinquantenni, da Luisi, a Gatti, a Noseda, che hanno trovato un perfetto balance tra i repertori.

Sono sicuro che uno tra i due sia più appagante per te. Sbaglio?
In effetti la penso come Antonio Pappano, quando dice che se l’opera è fatta a livelli eccelsi non c’è niente di più gratificante. Quelle serate in cui ti accorgi che la macchina sta funzionando alla perfezione: l’orchestra ti segue, la regia funziona e i cantanti lasciano perdere i divismi. Davvero in questi casi da direttore ti senti il fulcro di tutto.

Quando ti è capitato?
Per esempio con uno dei quattro cast della Bohème alla Scala. Ma non con Angela Gheorghiu e nemmeno con Anna Netrebko. È successo con Maria Agresta, ovviamente la meno applaudita tra le tre.

Come funziona il rapporto con il pubblico?
È una chimica inspiegabile. Quando gira bene ti senti libero e anche l’ascolto è diverso: non ci sono tensioni. Ma se il pubblico non reagisce sono il primo a irrigidirsi. Divento un controllore, mentre si deve sempre lavorare sul positivo: si dice «fate così», mai «non fate così». Non c’è niente da fare: la musica vive nel momento in cui la esegui. Ai critici piace parlare di «urgenza interpretativa», quella capacità di usare l’orecchio interno e di anticipare ciò che arriva, dai suoni alle atmosfere.

Ma come riesci a mantenere questa tensione? Come si può non cadere nella routine?
È un continuo training per diventare maestri di se stessi. Sai, dopo un po’ non c’è più nessuno in teatro che ti dice niente, al massimo vedi da lontano qualche orchestrale che borbotta. La chiave per andare avanti sta in un dialogo sano tra sé e sé. Schönberg diceva che il talento è la capacità di imparare, io addirittura penso che la freschezza di un direttore può contare anche più della sua preparazione. Una direzione non va giudicata da uno strumentista che sbaglia e forse nemmeno dagli attacchi, ma dal vissuto che si riesce a trasmettere. Pensa che ci sono direttori preparatissimi che dando una sola occhiataccia di troppo si giocano intere sezioni. Capisci cosa intendo?

All'Opernhaus Zürich per la direzione de La Cavalleria Rusticana e Pagliacci tra settembre e ottobre 2016
All’Opernhaus Zürich per la direzione de La Cavalleria Rusticana e Pagliacci tra settembre e ottobre 2016

Come muoversi in una cristalleria.
Sto leggendo Verdi di Franz Werfel e non hai idea delle bastonate che si è preso non solo dalla critica, ma dalla vita stessa. Il pensiero che noi siamo solo interpreti aiuta a rimettere le cose nella giusta prospettiva. Io sono venuto fuori nel 2008, con la crisi economica e i teatri che davano un sacco di possibilità ai giovani, ovviamente per non pagare cachet troppo alti. Così molti hanno cominciato con opere imprudenti, facendo il passo più lungo della gamba. Ma non importa: quello che conta è solo metterci la faccia, andare avanti e restare sereni, perché poi si assesta tutto. Sono convinto che sul lungo periodo l’arte dia a ciascuno il posto che merita.

Qual è stato il momento in cui hai capito che avresti fatto musica?
C’era Mefistofele alla Scala, con Riccardo Muti. Io ero nelle voci bianche, che compaiono nel Prologo e nell’Epilogo: tra l’uno e l’altro ci sono più di due ore di musica. Ricordo che un macchinista mi teneva una sedia dietro le quinte e io me ne stavo lì a vedere i cambi di costume di Samuel Ramey mentre su un televisorino il maestro dirigeva. Non mi annoiavo mai: qualunque cosa avessi fatto in futuro, dovevo stare lì dentro.

Abbiamo capito i tuoi riferimenti musicali. Altri riferimenti culturali?
Leggo molto, poi figuriamoci, con un suocero scrittore – Giuliano Dego. Ammetto che i miei riferimenti letterari sono più tedeschi che italiani: Mann e Schiller soprattutto. Adoro queste loro introspezioni e pippe mentali. Davvero a volte mi sento classico fino alla noia: per le arti figurative, per il cinema. Ad esempio conosco gente che non sopporta Totò, io invece lo adoro: sono un nostalgico.

Al Teatro Verdi di Pordenone nel maggio 2015 con l' Orchestra da Camera di Mantova e la moglie Francesca Dego al violino (foto di Luca d'Agostino)
Al Teatro Verdi di Pordenone nel maggio 2015 con l’ Orchestra da Camera di Mantova e la moglie Francesca Dego al violino (foto di Luca d’Agostino)

Esci la sera? Magari dopo un concerto?
Pochissimo. Bisogna conoscere i propri bioritmi, altrimenti ne paghi le conseguenze. Anche quando devo vedere gli amici preferisco stare in casa a giocare a Monopoli o a Risiko.

Usi Facebook? Qual è il tuo rapporto con i social network?
Detesto l’autopromozione sui social, in più mi sembrano sempre una perdita di tempo. Lorin Maazel diceva di non aver mai perso tempo in vita sua: io già devo scontare un sacco di ore passate sul Game Boy da ragazzino. Sono convinto che il mio mestiere rischi di estinguersi a meno che non si faccia qualcosa per recuperare la capacità di concentrazione delle persone. La gente è talmente abituata a effetti speciali tipo concerto di Lady Gaga che poi non ha la pazienza per ascoltare due ore di musica classica.