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Giulio Frigo

Il 17 settembre inaugura con una mostra densissima da Francesca Minini

Scritto da Lucia Tozzi il 15 settembre 2015
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Per fortuna in Italia esistono artisti giovani liberi dall’ossessione di Cattelan. L’arte di Giulio Frigo non segue la provocazione, il witz, l’estetica di Maurizione, va da un’altra parte. La mostra che apre da Francesca Minini il 17 è una furiosa sequenza di quadri popolati di facce inquietanti, di figure contorte, di interni notturni. Ma l’oggetto della rappresentazione conta poco, perché il vero soggetto della sua pittura è la luce, in tutta la sua forza trasformatrice. E quindi non ci saranno semplici quadri appesi alla parete con dei faretti puntati sopra a casaccio: la galleria diventa un teatro, una complessa macchina scenografica piena di sorprese (anche vive). Giulio ha raggiunto negli anni un’insofferenza radicale nei confronti dell’eterna «utopia progressista, polemica e fine a se stessa», che ancora domina le aspettative comuni sull’arte contemporanea. Con un’attitudine che suona allo stesso tempo molto postmoderna e indiscutibilmente fuori fase rispetto alle mode, Giulio dichiara senza tema: «Credo moltissimo nella Tradizione intesa nel suo senso profondo di trasmissione. Non credo nel mito individualista dell’originalità pura, mi sembra più verosimile la possibilità di dare un singolare contributo partecipando alla tradizione. Come individuo, certo, ma parte di una comunità che viene da un passato, che parla un linguaggio e pensa con categorie mentali collettive sedimentate nei millenni». Che uno così sia venuto fuori a Milano, dai circuiti più classici, è abbastanza incredibile. Ma la cosa straordinaria è che ha trovato pane per i suoi denti, le persone giuste che lo fanno lavorare esattamente come piace a lui. 

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Giulio Frigo durante una performance londinese

ZERO – Hai studiato e lavorato in molte città: Parigi, L.A., negli ultimi anni Berlino. Ma sei sempre tornato a Milano. Dicci come mai e com’è il confronto.
Giulio Frigo – Gli anni trascorsi a L.A., Parigi e Berlino sono stati fondamentali per sviluppare la mia visione dell’arte. Ognuna per ragioni differenti. Sono tornato in Italia e mi sono ristabilito a Milano per una serie di circostanze un po’ casuali. Detta in due parole non sono riuscito a farmi assumere nello studio di Olafur Eliasson. Mi hanno rimbalzato ben tre volte, anche dopo che mi ero offerto di lavorare gratuitamente. Cercavano figure molto specializzate e io non avevo quelle competenze. L’idea iniziale per cui mi ero trasferito a Berlino era proprio di diventare uno dei suoi assistenti. Mi piacciono l’uso che fa della luce e il suo approccio profondamente conoscitivo all’arte. In seguito al terzo rifiuto, dopo già quasi due anni di vita berlinese, ho deciso di arrangiarmi. Volevo imparare a progettare la luce professionalmente e quindi mi sono informato su quali fossero le migliori scuole in Europa. Con mia sorpresa ho scoperto che il corso del Politecnico era uno dei migliori in circolazione. Ho fatto l’application, mi hanno preso e così eccomi qui a Milano. Poi, durante quella specie di anno sabbatico in cui ero tornato studente, ho conosciuto Mattia Bosco, uno scultore che lavora a Milano in uno studio meraviglioso in zona Isola/Maciachini. Appena ho visitato lo studio e dopo aver visto l’approccio profondo e filosofico con cui guarda la realtà, gli ho proposto così su due piedi di poter condividere lo studio con lui. Ci siamo accordati e ha funzionato. Ora dopo due anni che ci lavoro e collaboro, posso dire che è stata la miglior decisione che avessi potuto prendere.

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Still (in) Life

Che cosa ti lega di più a questa città, gli amici, il clima? La scena artistica?
Milano è una città in cui mi sento a casa. Mi piace l’atmosfera non troppo moderna, ma nemmeno provinciale. In questi ultimi anni ho conosciuto molte persone con cui mi trovo molto bene. A partire dai miei compagni di studio, che hanno un’ottima conoscenza artigianale del fare arte. Mattia Bosco, una delle persone con cui riesco ad avere le discussioni più profonde e stimolanti (non a caso laureato in filosofia con Carlo Sini) ha una grande conoscenza delle tecniche legate alla terracotta, pietra e legno e ora sta per sperimentare il vetro. Da qualche mese si è aggiunto Attilio Tono, scultore anche lui espertissimo nelle diverse tecniche e nei materiali, disciplina che infatti insegna alla Naba. Ha anche collaborato con artisti e architetti come Alberto Garutti o Italo RotaPoi amici che spesso passano a trovarci in studio e che non provengono soltanto dal mondo dell’arte. Lo scrittore Alcide Pierantozzi ormai parte integrante della combriccola, Orazio Labbate altro scrittore molto promettente che ha da poco esordito con Lo scuru, libro che consiglio a tutti. Luca Mastrantonio, giornalista del “Corriere”, che ormai è un local dalle nostre parti, o anche Fabio Chertich, giovane regista teatrale che non dubito farà cose belle, come pure Andrea Chersicla, arbitro di basket professionista, bongustaio e amante dell’arte; spesso fa il maestro di cerimonie per pranzi e cene. I posti che mi vengono in mente sono la mitica trattoria alla Fontana, a due passi dallo studio, che è stato il quartier generale delle sbronze degli ultimi due anni, il Picchio di Felice e il Bar di Abeba in porta Venezia, dove si incontrano molti artisti e sbronzoni divertenti.

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Nello studio con Alcide Pierantozzi

Che cosa, invece, ti respinge?
A volte la vorrei più moderna e aperta. E spesso il mondo dell’arte è chiuso su se stesso e autoreferenziale.

Tu però sembri aver trovato un rapporto di grande fiducia e collaborazione con una galleria come quella di Francesca Minini. In che modo avete iniziato?
Sono stato molto fortunato. Sono state loro a volermi incontrare durante la mia residenza alla Bevilacqua la Masa, a Venezia. Da allora il rapporto è maturato fino alla mia prima personale in via Farini, quando Francesca, durante l’opening, mi ha inviato un bel messaggio mentre ero a terra privo di conoscenza, sotto l’effetto del roipnol. Il rapporto con Francesca e Alessandra è ideale. Devo dire che mi trovo molto bene, perché riescono a essere molto professionali e insieme aperte e pazienti. Penso che in un gallerista debbano coesistere due talenti antitetici: da un lato mi aspetto sia molto pragmatico e attivo rispetto al mercato e alle pubbliche relazioni. Allo stesso tempo è necessario sia psicologo e paziente rispetto alle poetiche e alle idiosincrasie dell’artista. È l’unica maniera di preservarne la singolarità dei suoi artisti, pena l’omologazione. Io per esempio in questi ultimi anni ho vissuto una profonda crisi. Le mie ritrosie a esporre, il mio frequentare molto meno il mondo dell’arte o la tendenza ad annullare la mostra all’ultimo minuto avrebbero fatto perdere la pazienza a molti. O peggio il mio comportamento avrebbe potuto essere interpretato come una posa o un capriccio. Non è stato così con Francesca, ha compreso. Semplicemente non mi sentivo pronto ed era necessario altro tempo per far maturare le opere e i concetti rispettando la loro evoluzione naturale. Che i treni passino pure, vado a piedi.

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Il padre in performance (foto Luca Peruzzi)

In questa mostra compare tuo padre, dipinto e dal vivo. Ed è la prima volta; non è da tutti.
Il motivo principale è formale. Mi piace come si sta trasformando il suo volto con il tempo. Ha un’aria severa e un po’ corrucciata, simile al tipo di fisionomie grottesche che cerco nei miei dipinti. In secondo luogo mi interessa l’aspetto anti avanguardistico di pormi in continuità piuttosto che in polemica con la tradizione. Non cerco superamenti, ma mi interessa la trasmissione di ciò che c’è stato di buono, compresa la tradizione delle avanguardie, che appunto è diventata a buon diritto parte della tradizione occidentale. A me questa logica dei superamenti e delle rivoluzioni in arte ha annoiato. Mi sembra un format il cui paradigma è la rivoluzione francese. Questa percezione comune di una specie di divisione tra arte contemporanea e arte antica è proprio un fatto curioso. Chi preferisce l’una, chi l’altra, tipo quel confronto di qualche anno fa tra Sgarbi e Bonami alla Fondazione Sandretto. De Dominicis, come era nel suo stile, questa faccenda l’ha risolta con una perentoria sentenza: «Tutta l’arte è contemporanea». A me sembra artificioso anche solo pensare di poter separare le due cose. Tutto quello che vedo non è che una possibilità espressiva molto ampia. Questa lunga tradizione confluisce nel mio lavoro in uno strano equilibrio. L’unica cosa che mi preoccupa è pratica, e cioè che forse l’aspetto installativo sarà più difficile da mantenere immutato nel tempo.

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Il padre in performance (foto Luca Peruzzi)

A questo punto ci vuole assolutamente la domanda alla Zagor: ti sei mai trovato in situazioni promiscue? So per certo di sì. Ce ne racconti qualcuna?
A te non te lo dico.

Alterni fasi di lavoro concentrato e vita regolare a momenti di follia, oppure conduci un’esistenza bohémienne come vuole la tradizione?
Ne è passata di birra sotto i ponti. In passato una ragazza, dopo avermi visto a torso nudo, mi ha chiesto se ero incinta. Ultimamente ho ritmi molto più regolari e produttivi. Ho un assistente e ogni giorno sono in studio. Ma dopo un’estate trascorsa a lavorare, appena inauguro penso che un po’ di pausa e qualche sana sbronza epica me le meriti.

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Disteso a fianco della tomba di Balthus a Rossinière

Torniamo a parlare di pittura, perché non solo la fai, e bene, ma ti interroghi parecchio sull’argomento. Dove ti hanno portato le tue ricerche?
A capire che l’idea che il figurativo sia reazionario è solo un pregiudizio. Che tra figurativo e astratto non c’è una reale distinzione. Che l’immagine accade perché è mediata dalla luce, che come tale è viva e mai stabile. Che la pasta pittorica è un pezzo di mondo spappolato; una volta steso su una superficie può parlare del mondo e farcelo vedere in maniera inedita. Per polemizzare ad cazzum con Frank Stella penso che what you see IS NOT what you see. Forse aveva ragione Delacroix, la pittura è quel miracolo per cui la sensibilità del pittore si fa visibile e percepibile a quella di un altra persona. O qualcosa del genere.

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“Partita a scacchi sospesa”

Ti piacciono più i maghi o gli scienziati?
Gli scienziati per quel che mi riguarda sono una sottospecie dei maghi. La scienza è una specie di musa che produce incanto, si tratta di saperla “cantare”

Il tuo lavoro scaturisce più dall’isolamento o dallo scambio?
Dallo scambio con i vivi e soprattutto con i morti. L’isolamento è utile per concretizzare e setacciare tutta questa massa di informazioni. Di fatto alterno i due momenti, anche se la solitudine è un concetto romanticamente sopravvalutato. Non si è mai soli, non siamo noi a esprimerci, non abbiamo inventato le parole e i concetti che utilizziamo per pensare, per cui ringrazierei una fila sterminata di morti oltre che di vivi. Leggere un libro per esempio, per come la vedo io, è una specie di seduta spiritica. Un altro intelletto ti parla e si sostituisce al tuo flusso di coscienza, e ti sembra di conoscerlo. Poi quel sapere spunta fuori nei tuoi discorsi, diventa te perché ti ha formato che tu lo voglia o meno, e magari nemmeno te ne rendi conto e credi di essere piuttosto originale.

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“Il filosofo”

Leggi sempre moltissimo? Anche romanzi?
Sì, sempre di più. Preferisco la filosofia, i saggi, le monografie e scritti di artisti, libri su civiltà antiche o su temi scientifici. Si tratta di elaborare nuove metafore e simboli fuor di retorica. Per far questo ogni fonte è buona, che sia anche un trattato di botanica. Però leggo anche romanzi, recentemente mi è piaciuto moltissimo Martin Eden di Jack London mentre proprio in questi giorni sto leggendo L’ombra di Heidegger di José Pablo Feinmann. 

Se potessi scegliere con la più totale libertà un luogo di Milano (pubblico o privato, aperto o chiuso) dove fare un’installazione, dove andresti? E quale sceglieresti per una performance?
In passato avrei voluto fare una specie di performance sulla terrazza del Pirellone, e un’installazione per il cimitero monumentale, ma non se ne è più fatto nulla. Ora sto pensando a un’idea da realizzare in zona Bovisa, legata alle periferie di Sironi e a quelle atmosfere, ma mi piace molto anche un ex colorificio abbandonato che ho visto a Lambrate. Oppure mi piacerebbe fare una mostra in un luogo dove si producono pigmenti per pittura. 

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“Stanza 4 (Interno in un interno in un interno)”, installazione

Ripartirai ancora?
Sì, ma ora so che la mia base è qui.