Ci sono architetti che fanno case per i poveri in Africa, e architetti noti soprattutto per i bellissimi disegni. Ci sono quelli che riproducono sempre le stesse forme o formule per ogni tipologia di edificio, e i maestri del legno o della pietra locale. Alessandro Scandurra invece passa dalle scenografie ai complessi di uffici, da Palladio al concept store di Peck a Seoul come se niente fosse. Con un’infanzia al Cairo e una bildung trascorsa tra il nostro Politecnico, Lisbona e Beirut, incredibilmente nel 2001 ha fondato Scandurra Studio a Milano e ci è rimasto, progettando edifici da Maciachini alla Bicocca a Cadorna. Il suo Expo Gate, nato come padiglione temporaneo, ha suscitato fiere passioni e lotte acerrime tra gli architetti, che lo vorrebbero tenere per sempre, e i detrattori che non tollerano l’intrusione davanti al Castello Sforzesco. Il suo destino sarà deciso a breve. Nella terza edizione di MI/ARCH, il 7 ottobre, Scandurra parla di architettura delle relazioni.
ZERO: Se avesse vinto un progetto brutto all’Expo Gate si sarebbero messi tutti l’animo in pace, a fine Expo si abbatteva e basta. E invece hai scatenato l’inferno, con quel bel padiglione, mi vedo già i sostenitori incatenati alle bianche griglie contro le ruspe (nel caso remoto che l’amministrazione ne confermasse lo status temporaneo). Che prevedi, cosa succederà?
ALESSANDRO SCANDURRA: Expo Gate è un progetto abbastanza implacabile, ho partecipato al concorso che chiedeva un padiglione informativo perchè mi è venuto in mente di farne due. In effetti come oggetto temporaneo si propone in maniera decisa, nel sistema urbano apre a molte interpretazioni. Ma allora le regole iniziano a slittare da un terreno di gioco ad un altro in una maniera che è difficile da gestire. Un’aria temporanea che pare vorrebbe rimanere li per sempre , insomma un terreno di gioco misto. Poi solleticare il buon gusto e dare inizio a un atteggiamento critico sia negativo che positivo mi sembra quel che deve fare l’architettura pubblica. Mi auguro che il progetto diventi un momento di riflessione e di critica sulla trasformazione della città e non un pretesto politico di avanspettacolo. Poi in effetti tenderei a sdrammatizzare, in fondo non si può cambiare la natura delle cose, penso solo che quei padiglioni in quel luogo siano una opportunità per la città.
E se mai dovessero smontarlo, dove ti piacerebbe idealmente che fosse rimontato (fossi tu il capo del mondo)?
Smontati chissà, io li ho pensati per quel luogo, hanno le misure di quel luogo e fanno parte di un sistema monumentale. Con la fontana e la torre del castello riprendono il tema delle testate doppie degli assi ottocenteschi e quello dei caselli delle porte di entrata in città. Detto questo se dovessi proprio scegliere dovrebbero far parte di un sistema, l’ingresso a qualcosa, magari l’ingresso a un parco. Certo sono nati per essere vivi, non monumenti .
Il progetto prevedeva un uso piuttosto flessibile degli spazi dell’Expo Gate. Alla fine come ha funzionato? Come lo hanno utilizzato?
Il sistema era veramente aperto a qualsiasi trasformazione e insieme abbiamo deciso che dovesse mantenere questa possibilità, gli spazi hanno assunto diverse funzioni nell’arco del tempo, ospitando più di mille eventi in un anno (dalle esposizioni artistiche alle conferenze e ai workshop sino a concerti e programmi radiofonici e televisivi) e possono tranquillamente continuare a farlo. In effetti tutto è pensato come una grande piazza con due coperture e gli spazi chiusi sono solo una opportunità diversa di utilizzo.
E a che cosa potrebbe servire in futuro? A te cosa piacerebbe?
In futuro potrebbero diventare un aggregatore sociale per dar voce a quelle realtà milanesi che sono la vera linfa di un futuro di trasformazione della città. Una sede permanente che dialoghi con la città e i suoi visitatori, un emettitore di energia vitale.
A Milano tu hai costruito molto, quale progetto hai amato di più?
Per Milano ho progettato molto. Mi è capitato a soli trentaquattro anni di realizzare l’edificio sede della Zurich Assicurazioni, un progetto ambizioso per quell’età. Ma Expo gate forse è quello che di piu mi ha restituito il valore sociale e l’impatto comunicativo e di responsabilità del lavoro di architetto.
E invece a cosa stai lavorando ora?
Sto lavorando a diverse scale come al solito. Edifici ad uffici alla Bicocca, dove apro delle parti di cortili per costruire un sistema urbano di connessione tra le enclave, la ristrutturazione di un edificio di Lingeri in piazzale Cadorna, dove pure diventa importante il ruolo della piazza di ingresso su strada, e di alcune corti milanesi con le case a ballatoio. Ho appena terminato un progetto di concorso per la fiera di Hanoi in Vietnam e la mostra di Jefferson al Palladio Museum.
E se potessi trasformare una delle tante aree in disuso di Milano quale sceglieresti? e cosa ne faresti?
Ci sono importanti aree di trasformazione a Milano, aree in disuso incredibilmente centrali per una metropoli. Lo Scalo Farini e quello di Porta Romana per primi rappresentano un potenziale enormeper costruire una città inaspettata. I desideri e le necessità che ci girano nella mente potrebbero materializzarsi in un processo vitale e rivoluzionario. Poi ci sono realtà incredibili e sommerse che abitano Milano, al di la dei cliché di cui sentiamo in continuazione parlare che danno un’energia sana e ossigeno a molte parti della città. Mi riferisco alle potenzialità delle aree periferiche, alle comunità e associazioni che danno identità a molte zone di Milano. Sarebbe fantastico lavorare su una messa in chiaro di tutto quel che si può fare in questi luoghi a partire dalle realtà delle persone.
Expo sta per finire. si sta già infuocando il dibattito sul dopo-expo e sul destino delle aree. tu che ne pensi?
Sicuramente vedremo una grande quantità di proposte, molte anche sensate. È un’area molto grande che avrà bisogno di uno sviluppo controllato, che dovrà essere stimolata da più parti e sicuramente potrà diventare interessante se si riuscirà a gestirne una complessità molto stratificata. L’area ha il grandissimo vantaggio di essere superinfrastrutturata. Ma penso che la cosa più importante e urgente da pensare sia come agganciarla alla città: il decumano in direzione di Milano si affaccia su un grande parcheggio. È fondamentale riqualificare e ripensare la “terra di mezzo” un tessuto anche a grande scala che leghi quel luogo in maniera più convincente alla città e alla fiera di Rho
A MI/ARCH parli di Architettura delle relazioni. In qualche modo è sorprendente, perché mi era sempre sembrato che la tua passione fosse di natura più spaziale e formale, che l’ossessione un po’ modaiola per lo spazio pubblico ti facesse sorridere. In che modo pensi di affrontare l’argomento? che vuoi dire?
L’architettura non è altro che un dispositivo per creare relazioni. Se pensi al concetto di confine, per esempio, l’architettura ne costruisce e ne studia gli accessi: una stanza, una casa, un parco, una strada sono semplicemente confini. Agli architetti è dato di capire come gestire questi confini. Di solito i confini sono luoghi critici in cui le cose raggiungono il massimo della tensione, e quindi gli architetti producono e lavorano sulla costruzione di luoghi di tensione e di relazione, non poco direi.
Cosa ti ha portato a Milano? E perché, tu che più di altri hai avuto la possibilità di vivere e lavorare in mille altri posti, alla fine hai scelto di aprire uno studio qua, praticamente a Piazza Lega Lombarda?
Si di fronte all’Arena, ma ho abitato tante città un po’ per ragioni familiari e un po’ per lavoro. Direi che Milano è una prova, se riesci a stare a Milano riesci a stare ovunque. Alla fine la mia vita milanese gira intorno al Parco Sempione: ho abitato all’Arco della Pace, poi poco più in là a via Canonica, qua lo studio, dall’altro lato l’Expo Gate. E anche la Triennale è un riferimento imprescindibile.
Parlaci dei grandi milanesi di cui ti sei innamorato (non per forza solo architetti)
Più che dei grandi milanesi mi piace pensare a quello che Milano fa alle persone. C’è una specie di influenza che la città trasmette a chi abita qui. Da Gadda in poi sappiamo di quanto Milano sia buona e bella e sappiamo dai film di Antonioni, di Pasolini e di Visconti che spirito intraprendente la società milanese può esprimere. Mi piace pensare al ruolo che ha avuto la Triennale nel far confluire le energie del Nord Europa mescolandole con quelle italiane autentiche e enormi del futurismo e del regime: personaggi incredibili hanno popolato il cambiamento di Milano affiancando la realtà imprenditoriale con le avanguardie artistiche, come Persico, Nizzoli, Palanti, Baldessarri, Melotti, Fontana, figure anomale ed enormi che sono state l’anima di una Milano rivoluzionaria.
E dicci chi vedi fuori dallo studio, e dove vai a camminare.
Incontro un sacco di gente ma non ne conosco tanta, alla fine i rapporti di amicizia si fondono con quelli di lavoro, gli interessi comuni diventano progetti comuni e spesso le cose da dire e da fare sono con amici. A camminare di solito vado al Carrefour di notte, quando esco dallo studio.
Hai lavorato molto con il teatro, hai fatto scenografie e anche il progetto di ampliamento del Teatro I di Milano. Ci vai ancora a teatro? Cosa vedi?
Ho lavorato in televisione facendo le scenografie per Michele Santoro, per l’opera lirica con Daniel Baremboim e poi a Parigi con Stephan Braunsweig. Ho conosciuto Bob Wilson e visto lavorare da vicino Claudio Morganti e Alfonso Santagata, Cecchi e altri, con Giorgio Barberio Corsetti ho passato anni divertentissimi e esperienze in comune. Ora vedo molto poco teatro, mi sento un pò a disagio. Milena Costanzo sta facendo un lavoro di regia fantastico e Corsetti a fine ottobre a Roma farà uno spettacolo su Pasolini in uno stadio durante una partita di calcio vera.
In questi anni hai progettato bellissimi allestimenti: la mostra di Portaluppi a Milano, il museo del Palladio a Vicenza, ora la mostra fotografica sulle navi a Venezia di Berengo Gardin. È questa la tua vera passione?
No, le mie grandi passioni sono il cemento armato e i telai sottili di metallo. Sono massa e aria e testimoniano il lavoro. L’architettura è la mia passione e pensare che possa servire a qualcosa è una ricerca.
Che fai alla fondazione Portaluppi?
Abbiamo organizzato un workshop in primavera sulla trasformazione di Milano e delle sue periferie, Ricerca del presente, e abbiamo in programma dei seminari sul ruolo dell’arte pubblica nella città.
Tu sei un raro caso di misantropo che riesce a farsi amare. Non appartieni a quella specie di ottimisti radicali che seducono con la loro positività scodinzolante. Come fai a costruire la tua rete di rapporti professionali, in questo momento storico?
Credo che valga la legge dell’autenticità, sono quello che sono e qualcuno lo apprezza. Detto questo non demonizzerei il positivismo, che è sempre stato il motore per veicolare architettura sana che da risposte a nuove necessità.