Ad could not be loaded.

Fabio Guaglione e Fabio Resinaro

In sala c'è il loro debutto, Mine, e a detta di molti saranno presto fra i volti del nuovo cinema italiano. Basta facciano un altro passo...

Scritto da Emilio Cozzi il 5 ottobre 2016
Aggiornato il 20 febbraio 2017

Mine non è un film di guerra. Non credete a chi dica il contrario tirando in ballo tre sparatorie, due marine e la bomba del titolo. Non credete manco al trailer, fate un passo oltre. Perché, a dirla tutta, Mine è quasi in antitesi con il genere che dovrebbe contenerlo. Sempre se con guerra non si intenda quella che esplode nella testa – prima – e nel cuore – pian piano – di Mike, il protagonista che nel film mette un piede nel posto sbagliato.
Per questo motivo in questa intervista ai suoi due registi, Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, non abbiamo parlato delle cose tipiche di cui si parla nelle interviste ai registi. Non si è chiesto come sia lavorare con un attore di Hollywood sulla rampa di lancio come Armie Hammer – il Mike del film, appunto, già diretto in J. Edgar da Clint Eastwood o in The Social Network da David Fincher -, o come ci si rapporti, da milanesi semisconosciuti (per ora), con una cosa grossa come dirigere un lungometraggio. Il proprio debutto, per di più.

Con i “Fabio & Fabio” si è tentata la stessa cosa che fa il loro Mine: obbligati dalle circostanze, ci si è fermati per scavare dentro le cose. Per provare a fare un passo di quelli che possono costare tanto – tipo mettersi a nudo con chi, come me, il film lo fa a pezzi per indole oltre che per dovere. Uno di quei passi, però, che devono essere fatti. Perché il film, in sala dal 6 ottobre, per i due registi col nome da parrucchieri è la prima tappa di una salita imboccata più di 15 anni fa, quando amici di scuola condividevano la passione per la telecamera, per certo cinema super pop e (quasi) tutti i fumetti in circolazione.
Ora, messo il cuore su una mina, Guaglione e Resinaro sanno di poter esplodere. Di nostro, scommettiamo che li vedremo volare presto.

 

 

Zero – Sono 15 anni che lavorate, per certi versi, nell’ombra pur di affermare un modo di fare tutto vostro, un’idea del cinema italiano peculiare. Adesso?

Fabio Guaglione – Adesso ci auguriamo con Mine di uscire dall’ombra

Fabio Resinaro – In effetti siamo stati ostinati nel portare avanti i nostri progetti e forse questo ci ha reso la strada un po’ più impervia

Di cose ne avete fatte però

FG – Una ventina di video musicali, poi cortometraggi e mediometraggi – fra cui i pluripremiati E.D.E.N, Silver Rope e Afterville, in una fantascientifica Torino, ndr. Abbiamo anche lavorato a diverse pubblicità, al rebranding della televisione svizzera italiana, girato degli spot per Sky. Abbiamo prodotto True Love, che per noi era il primo confronto con un lungometraggio indipendente, molto utile per farci le ossa e tastare le reazioni anche del mercato

 

Quanto è costato Mine? Mi risulta abbia già ripagato l’investimento

F&F – Non possiamo dare cifre precise, diciamo che il film non è costato più di una commedia italiana a caso. Ciò detto sì, è stato venduto in tutto il mondo e questo ha coperto i costi. Dal primo trimestre 2017 il film dovrebbe uscire a catena un po’ dappertutto, partendo da Stati Uniti e Spagna, e il 13 ottobre avrà la sua prima internazionale al Sitges Festival. Che è dove abbiamo vinto con Afterville, quindi per noi è un po’ un cerchio che si chiude

 

Se vi dicessi che alla luce delle cose fatte fin qui, il vostro immaginario mi sembri molto legato alla fantascienza anni 90, ai fumetti di quell’epoca, specie giapponesi, ma pure a un’estetica cinematografica tracciata da Hollywood in quegli anni, ma mai, per esempio, al cinema d’autore europeo, ecco, che cosa rispondereste?

FG – Cioè, se vedi Silver Rope non credi abbia influenze estranee a Hollywood?

 

Piuttosto penserei ai primi Wachowski, o agli arzigogoli del Christopher Nolan più recente. Suvvia, il vostro è un cinema poco europeo

FR – Vive più di contaminazioni orientali, questo è sicuro

FG – Esatto; siamo cresciuti in Italia negli anni 80, credo sia inevitabile che siamo un misto di quel cinema americano super pop che va da Steven Spielberg a John Carpenter, e di quegli anime giapponesi che in quel periodo spopolavano. In più abbiamo fatto i primi passi in questo mestiere nel momento esatto in cui Nolan si è fatto notare al grande pubblico

Come dire, professate l’idea di un cinema pop d’autore

FG – Mi piace; ecco, Mine è un cinepanettone psicologico – ride; sul serio, per me un autore è chi abbia qualcosa da dire. E voglia dirla al pubblico, da lì l’accezione “pop”

FR – Di sicuro non ci attrae l’autoreferenzialità

FG – Per noi è fondamentale trovare il proprio modo di esprimersi. Nondimeno quel modo deve riuscire ad arrivare a qualcuno

E il fatto che – critica che rivolgo a Mine – la quantità di cose da dire, perché ne avete, sia in qualche modo filtrata dalla vostra ossessione di dirne una chiaramente? Non ci vedete il rischio di diventare didascalici?

FG – Puoi concepirla come una gerarchia di livelli. Per noi è importante che il primo sia esplicito, molto chiaro a chiunque veda il film

FR – Il cinema è anche fatto di simboli chiari. Per fare passare la tua idea, occorre la concretizzi in oggetti precisi, in una scena

Credo che Mine accompagni fin troppo lo spettatore in una direzione, quando invece la storia in sé avrebbe avuto – e ha – molti sensi che solo evocati sarebbero stati più suggestivi

F&F – Vero, la prima scena con il padre di Mike, per esempio, sarebbe potuta durare pochi secondi

E sarebbe stata più potente

FG – Concordo. Però volevamo esasperare la discesa lenta e inevitabile nell’incubo da parte del protagonista

FR – E poi, diciamolo chiaro, quando fai un film devi fare i conti con il materiale girato, con le risorse a disposizione e con un’infinità di fattori che per quanto invisibili sullo schermo pesano sul risultato finale

È vero. Ma come il fatto che le risorse, il budget, gli annessi e i connessi non interessino lo spettatore

FR – Ed è più che giusto, intendiamoci. Vorrei solo far capire che fare un film non è solo o tanto questione di budget. La produzione è un processo. Si può arrivare ad accorgersi, per esempio, che un taglio di 30 secondi è la scelta giusta. Ma se hai la musica già sincronizzata e magari sei in ritardo sulla scaletta di produzione, questi fattori pesano non poco sulla decisione e sul risultato finale.

FG – Esatto, magari non hai tre assistenti che in un’ora riescano a mettere tutto a posto. Poi, sia chiaro, non significa che occorra accontentarsi e men che meno che l’abbiamo fatto noi. Ma il cinema è una macchina più complessa di quanto si possa percepire come spettatori, o semplicemente da non addetti ai lavori

Fabio e Fabio in piedi_deserto

 

Qual è la cosa peggiore che credete si possa dire di Mine?

FG – Di cose poco positive se ne possono dire tante secondo me, a partire dal ritenere il film pretenzioso. Oppure noioso. Ecco, preferirei essere stupito da una stroncatura secca piuttosto che sentir qualcuno accusare Mine di essere noioso

E la migliore?

FR – Che sia emozionante

FG – Nel mio caso, spero qualcuno dica che il film gli è rimasto dentro. Che anche giorni dopo averlo visto, si ritrovi a pensarci. Mi è successa una cosa carina di recente: parlandomi degli affari suoi, qualche amico che ha già visto Mine a un certo punto se ne è uscito dicendo: «basta, per me è arrivato il momento per fare il passo», che è il concetto attorno al quale ruota la storia. Ecco, quando scatta quella cosa lì, quando senti che il film in qualche modo riguarda qualcuno da vicino, per un regista, per me, è il massimo. È come per «Ci serve una barca più grossa»: se riesci a diventare un’espressione comune, be’, un sogno…

Mi pare tutto si possa dire del film fuorché sembri italiano. Dalla lingua al cast, dalla fotografia alla storia, Mine appartiene poco alla nostra tradizione cinematografica

FG – Aspetta però, facciamo un gioco: se fosse recitato in italiano diresti lo stesso?

Salvo si parlasse un dialetto, direi di sì

FR – Ecco, questo è interessante: scegliere come protagonista un soldato americano non veicola lo stesso punto di vista di un militare italiano. Un nostro connazionale sarebbe molto meno credibile nel ruolo di un burattino acritico nei confronti di un sistema gerarchico. Un italiano, già di suo, è portato a prendersi meno sul serio. La lingua, appunto, conta poco. Volevamo raccontare una vicenda precisa e per farlo occorreva scrivere di un marine, che in quanto tale incarna una serie di significati precisi: è quasi l’archetipo di chi, a prescindere dalla propria individualità, aderisce a un’organizzazione e a un sistema di valori assoluti, supremi, di cui è strumento.

FG – Gli stessi valori di un cittadino americano sono evidentemente diversi dai nostri. Generalizzando, la percezione che abbiamo di un americano è quella di una figura più tragica, più assoluta. Noi siamo più autoironici, furbi se si vuole, magari anche nell’accezione peggiore. A prescindere dalla storia raccontata, sia un dramma o una commedia romantica, la scelta di avere un protagonista texano o un romano cambia ogni riferimento, modifica gli esiti stessi della vicenda

Armie Hammer in Mine

 

Voi perché avete scelto un americano per raccontare una metafora che, in fondo, non ha indirizzo?

FG – Perché la tradizione del cinema americano, sia in quanto a personaggi archetipici che a luoghi o non luoghi rappresentati, è, come dire, quella più “universale” di tutte, è la più diffusa. Rispetta quasi sempre le regole della narrativa aristotelica e dentro di lei più persone si sentono rappresentate, si rivedono. Cosa meno vera per il cinema asiatico, per esempio, che ha modalità narrative e un sistema di valori molto “localizzati”

FR – E poi stiamo pur sempre parlando di ingredienti. I cuochi sono italiani e italiano è il punto di vista

FG – Come italiani sono anche alcuni sapori, eh, e pure spagnoli, per dire

A proposito, so che l’aver scelto un marine vi ha causato qualche problema proprio con gli americani; per il fatto, per esempio, di farne un disobbediente, di non farlo sparare quando dovrebbe

FR – Ecco, questo è il punto di vista americano

FG – Sì, c’è stata una controversia per quella sequenza. Che, di contro, è il primo gancio empatico per il pubblico. Mi riservo di dire che l’escamotage funzioni, a giudicare dalle prime reazioni. Diciamoci la verità: sei a un matrimonio, potresti uccidere due innocenti e non sei sicuro che quello inquadrato sia il tuo obbiettivo. Non spari, se no sei una merda!

FR – Ecco, e questo è il punto di vista italiano – ride – a dire il vero, prima di avere un feedback dagli Stati Uniti non avevamo pensato al fatto che quella sequenza avrebbe potuto indispettire qualcuno. Per noi è chiaramente un elemento in grado di caratterizzare il protagonista come un personaggio positivo, con una sua complessità, con un conflitto. La sua scelta di non sparare è il primo segnale di un’insofferenza e, se vuoi, di un’individualità che vuole emergere, con tutte le fatiche del caso.

FG – La cosa che alla fine ha convinto anche gli americani è che poi il film parla proprio di quello

Mine_due soldati

 

In effetti la mina su cui il protagonista mette il piede è solo il pretesto per iniziare il viaggio quasi psicanalitico del film, è un po’ lo scoperchiare una fogna, la tana dei mostri. E, col senno di poi, l’inizio di un percorso armonico. A proposito, non ho apprezzato la caratterizzazione di Tommy, lo spotter e amico del protagonista

FG – Questa controversia mi intriga molto. Ma basta rivedere la sequenza: ai due marine cade dal cielo – arrivato chissà da dove e chissà in volo da quanto – un cartello. Non c’è certezza alcuna stiano camminando su un campo minato. Tommy fa notare a Mike che il segnale potrebbe essere in giro da anni. Ma fa parte del carattere del protagonista, in quel momento, non sentirsi tranquillo, essere guardingo da lì in poi. Sono altri elementi di caratterizzazione.

Stai confermandomi un’altra impressione, che detta come farò sembrerà non necessariamente positiva, ma invece lo è: avete pensato ogni cosa del film. La cura dei dettagli è parte integrante del vostro approccio

FG – Puoi giurarci. Tanto che per preparare la scena dell’esplosione avevamo previsto un altro paio di sottolineature, come qualche segnale di stanchezza e stress dello spotter di Mike. Le abbiamo tagliate in un secondo tempo

Si è sempre detto fosse difficile proporre un film di genere in Italia. Una leggenda?

FR – Adesso c’è di sicuro un’apertura nei confronti dei film di genere, ma fino a poco tempo fa, quando per esempio stavamo iniziando, la situazione era diversa, non c’era un sistema che li supportasse

Il problema è la connotazione?

FG – Certo. Le commedie escono di continuo, i drammi anche, pure qualche azzardo artistico trova una distribuzione. La diffidenza era nei confronti del genere. Tanto che mi auguro che con film come Lo chiamavano Jeeg robot di Gabriele Mainetti, o Veloce come il vento di Matteo Rovere – del nostro non saprei dire – si scardinino certe rigidità. Il genere è solo un codice più facilmente condiviso con il pubblico

E perché vi ci siete accaniti tanto?

FG – Proprio perché con le sue caratteristiche, secondo noi il genere permette di esprimere significati più profondi in maniera più universale e giocare anche con delle componenti visive. Per me è come se il genere servisse per “iperbolizzare” i messaggi.

FR – E poi siamo stati un po’ testardi su questo punto: volevamo raccontare la nostre storia, nient’altro.

A proposito, come lavorate? La storia del cinema è piena di talenti che hanno pagato cara la testardaggine

FG – Cerchiamo di sintetizzare quello che sentiamo di dover raccontare in quel momento, in base a quello che stiamo vivendo sulla nostra pelle, e quello che potrebbe essere interessante, per gli altri, sentirsi raccontare. Magari non avere tre progetti identici e tutti troppo strani aiuta. Insomma, tentiamo di muoverci con un misto di strategia, chiamiamola così, e spontaneità; anzi di esigenza di dire qualcosa.

Armie_Hammer_Cavaliere

 

Avete rapporti con qualche regista italiano emergente? E ne intravedete di bravi ancora sconosciuti?

FG – Mi piacerebbe ci fosse una sorta di movimento nuovo

Perché, ritieni non ci sia?

FG – Si sta formando

FR – Secondo me c’è. Il problema è capire come e se verrà supportato. Ma mi sembra chiaro stia diffondendosi la volontà di raccontare storie con un approccio diverso da come lo si è sempre fatto in Italia. Ci sono autori nuovi, gente come Mainetti, Rovere, ma anche Sidney Sibilia. E poi tanti molto bravi che hanno realizzato videoclip e cortometraggi come Roberto De Feo, Fabio D’Orta o Roberto “Saku” Cinardi. Il problema è vederne il salto sul lungometraggio, molto meno semplice di quanto sembri.

FG – Ci aggiungo Stefano Sollima, che comunque ha fatto una cosa nuova. Sono felice gli abbiano affidato Sicario 2

Avete menzionato le difficoltà del salto sul lungometraggio. Siate più precisi
FR – Il lungometraggio mette a confronto con il racconto vero e proprio
FG – Non bastano più solo le immagini a quel punto. Occorre si sappia tenere le fila del racconto in tutte le sue fasi, dalla sceneggiatura allo storyboard, sul set gestendo gli attori, durante il montaggio. Il punto è cercare di essere fedeli a quello che vuoi raccontare, ma senza fissità. Quando si è sul set è meglio essere aperti all’imponderabile

Tenete molto alla fase di scrittura e in fondo è quella da cui siete partiti sceneggiando anche fumetti. Siete registi da “sceneggiatura di ferro”, di quelli che arrivano con lo storyboard sul set?
FR – Sì, molte critiche stanno concentrandosi sul nostro lavoro registico. Ma anche per il fatto di essere in due, ci sentiamo costretti a prepararci bene alle riprese, a scrivere e illustrare tutto. Per poi cambiare qualsiasi cosa sia necessario cambiare nelle fasi successive, sia chiaro.
FG – Se non hai preparato, non puoi cambiare niente. Poi è un casino. Anche perché girare un film implica quella che chiamo una lunga “gittata psicofisica”. Sei costretto a gestire i problemi della giornata e, al tempo stesso, pensare al casting del giorno successivo, alla location della settimana dopo

Fabio_Fumetto

 

Quanto tempo avete dedicato a Mine?
FG – L’idea è nata a fine 2012; la sceneggiatura, pur non a tempo pieno, ci ha impegnati per almeno un anno, 5 settimane se ne sono andate per le riprese a Fuerte Ventura e Barcellona e più di un anno l’abbiamo passato fra montaggio, post produzione e finalizzazione tecnica. Per farla breve, fanno più di tre anni di lavoro

Siete diversissimi; come fate a non azzannarvi durante periodi tanto stressanti?
FR – Litighiamo prima e dopo le riprese. Durante è impossibile, non ce ne sarebbe il tempo, senza pensare a quanto si destabilizzerebbero certi equilibri gerarchici che sul set contano. In più, per noi, le riprese sono la parte più bella e, per tanti versi, quella più facile.

Se vi dicessi che Arrival, il nuovo film di Denis Villeneuve, mi sembra molto “fabiesco”?
FG – Ha un immaginario che in qualcosa mi ricorda Afterville, via. Più in generale mi pare però che la tendenza sia quella di rielaborare vari rami della fantascienza mischiandoli con una consapevolezza molto contemporanea, se si vuole anche un po’ new age, o comunque intimistica: le strutture siderali, i messaggi da intelligenze extraterrestri, il nostro ruolo nell’Universo. Non l’ho ancora visto, ma penso che Arrival sia questo, un po’ come Gravity: raccontare la storia di una donna e il suo dramma attraverso metafore come la gravità, l’astronave alla deriva. In fondo penso sia quello che la fantascienza dovrebbe fare sempre: si pensi a Blade Runner, racconta una storia di replicanti, città del futuro e chissà cos’altro. Ma in fondo senza distogliere mai lo sguardo da una e una sola cosa: la natura umana.

Blade Runner

 

Generalizzando, forse troppo, credo sia la caratteristica del grande cinema

FG – Di sicuro. Però il genere, specie la fantascienza, tende a diventare un contenitore autoreferenziale. La storia dell’astronave su un altro Pianeta, o di chissà quali guerre fra razze aliene potranno pure essere intriganti, ma capita di chiedersi di cosa stiano parlando davvero

Tipo Avatar?

FG – Tutt’altro; Avatar è fin troppo chiaro nella sua metafora

Come Mine: anzi, mi spingo a dire che se foste stati meno espliciti, il film ne avrebbe guadagnato ancora di più
FR – A te non piace che noi parliamo della metafora

Esatto. Come se per l’ossessione di sottolineare i sensi in qualche modo ne stemperiate l’efficacia
FG – Non sono d’accordo. Temo anzi che a qualcuno il film possa a tratti sembrare criptico, non così chiaro
FR – Io invece sono curioso di vedere cosa succederà anche in questo senso

Ecco, fuori dai denti, che cosa vi aspettate succeda?
FR – Spero che chi lo veda aspettandosi un film di guerra sia piacevolmente sorpreso dallo scoprire che Mine è qualcosa in più
FG – Sai cosa? In questi giorni sto facendo il controllo della copia in italiano e per la prima volta guardo il film senza che il cervello si impegni a tradurre tutto, insomma, vedo il mio film con un atteggiamento rilassato. E boh, forse per qualcun altro era già chiaro prima, ma mi sono accorto che il film è un viaggione. Soprattutto per chi dovesse guardarlo aspettandosi un film di guerra ma venendo catapultato pian piano in una dimensione diversa. Per me Mine è un trip allucinante. Spero che qualcuno abbia voglia di farselo con noi e, dopo due ore, si chieda «ma che cazzo ho visto?». Ecco, questa cosa qui sarebbe fica

Che non si riuscisse a decifrarlo?
FG – Che lasciasse un po’ disorientati
FR – Diciamoci la verità: credo che Mine possa attrarre un pubblico interessato a capire come il protagonista esce dalla situazione in cui si trova. Ce la farà Mike a salvarsi? E se sì, come? Ecco, credo che a un certo punto del film possa non fregartene più nulla di ‘sta cosa. E che a diventare interessanti siano altri problemi del protagonista

Che cosa consigliereste a chi volesse fare un film?

FG – Mi viene in mente solo una cosa: agire e porsi come se si stesse già realizzandolo. Sono gli altri che devono salirci a bordo. Sia chiaro, non per spocchia o superbia, anzi; la cosa implica per esempio mettersi nell’ottica di lavorare a qualcosa di davvero realizzabile, non a un fantasy di 6 ore con 2mila comparse, o a un film che magari richiederebbe 10 milioni di euro per essere realizzato. Da esordiente non si trovano, punto, ed è bene non credere a qualunque produttore garantisca il contrario. Non meno importate è riuscire a creare “valore” attorno al proprio progetto, magari coinvolgendo un musicista noto per la colonna sonora, un attore famoso. Sono cose che contano in fase di finanziamento

Mi disse la stessa cosa Terry Gilliam, confessandomi di riuscire a fare film solo grazie al coinvolgimento di amici come Johnny Depp o Bruce Willis. E di vostro cosa, nel processo che ha portato a Mine, non rifareste più oppure ripetereste domani?
FR – Anche se è servito, avrei trattenuto meno cose sul montaggio dall’inizio. Avrei iniziato a sforbiciare di più. Poi è servito, sia chiaro. Ma tagliando subito sarei arrivato più fresco alla fase di cesellatura. Col senno di poi, asciugherei ancora qualcosa della versione definitiva. Ma non tanto
FG – (ride) E io avrei dovuto insistere di più sul tagliare prima. Anche perché, alla fine, onestamente si arriva a un punto in cui è difficile stabilire cosa sia opportuno eliminare

E che cosa rifareste domani?
FR – Mi piacerebbe avere la stessa autonomia di questi anni. Abbiamo goduto di una libertà non indifferente
FG – Vero, in fondo abbiamo concepito una storia che permettesse di non rischiare eccessivamente a livello economico. E questo, in cambio, ci ha garantito un minimo di libertà, soprattutto sul set

Progetti futuri?
F&F – Da una parte ci piacerebbe sviluppare, da produttori o supervisori, film di genere a basso budget. Da registi e senza sbilanciarci troppo, abbiamo in mente qualcosa di vicino a un immaginario, diciamo così, molto frequentato di questi tempi. Ma con un punto di vista, crediamo, nuovo. A prescindere dalla storia, ci piacerebbe dare un seguito al modo in cui Mine è raccontato

Cioè?
F&F – Niente spoiler

Riassumetemi Mine in una frase o una parola
FR – Non ce l’ho
FG – Spero che Mine sia un grosso passo per chi lo guarda