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Luca Carboni

Fra presente e passato, una chiacchierata sulla carriera e sulla città che ha non ha mai smesso di osservare (e vivere)

Scritto da Salvatore Papa il 21 gennaio 2016
Aggiornato il 29 dicembre 2017

Quant’è vero che ogni artista è figlio del suo tempo, tant’è vero che certi altri sono indissolubilmente legati alla propria città. Così è per Luca Carboni, uno che non riesci a sganciare da Bologna, dalle sue strade, dai suoi bus di notte e le sue puzze. Luca – e ti viene naturale chiamarlo per nome proprio per la sua capacità di utilizzare un linguaggio diretto – è stato quello che forse meglio di tutti i suoi “colleghi” è riuscito a raccontare l’anima inquieta della Rossa, sin dagli anni 80, quando l’eroina regnava sovrana e spezzava vite e amori. La città «senza pietà», come recita un suo bellissimo pezzo, è cambiata, eppure rimane «una regola» per chi continui a idealizzarla, forte di un fermento sotterraneo mai sopito. I cantautori, il punk, i tortellini, ma anche il furore politico che diventa «Inno nazionale» e le sue tentazioni maligne come «fragole buone buone». E poi l’autostrada fino al mare, le ragazze che sghignazzano e la voglia di viverla per sempre.
L’abbiamo incontrato. Ne è uscita una chiacchierata piacevole su presente e passato, ma anche sulla città che non ha mai smesso di osservare (e vivere).

 

Zero – Sei davvero lo stesso Luca di sempre? E qual è la parte di te che è cambiata di più?

Luca Carboni – Comincio dalla parte che è cambiata meno, vale a dire il bisogno di esprimermi attraverso la musica, che è stato sempre uguale, sin da quando ero ragazzino e figlio a ora, che sono padre e uomo adulto. Questo rapportarmi con gli altri attraverso la musica non è mai cambiato, quest’esigenza di raccontare le cose in un modo anche un po’ fantastico, raccontare il mio punto di vista e la mia visione delle cose. Del resto è cambiato tutto, perché è cambiato il mondo.

Perché il tuo nuovo album si intitola Pop-Up?

Quand’ho finito di scrivere questo album, come faccio sempre, ho cercato un titolo dentro le canzoni e non l’ho trovato. In alcuni casi mi sono appoggiato a frasi che erano nate dentro il disco e potevano in qualche modo riassumerlo. In questo caso non è ho trovata neanche una. Ero in vacanza all’Isola d’Elba e c’erano i miei nipoti che avevano dei libretti pop-up, quelli che si aprono e diventano tridimensionali, e ho pensato all’idea che il cd aprendosi avrebbe potuto sorprendere proprio come un pop-up. In più la parola “pop” e la parola “up” mi legano a due album di due band che amo, ovvero gli U2 (per Pop) e i REM (per il disco Up). Infine, trovavo legami anche con il mio secondo album, Forever del 1985, nonostante siano passati ormai 30 anni, e mi piaceva l’idea di tornare a un titolo un po’ estraneo al disco – anche se in quel caso c’era un coro in un pezzo che cantava Forever – che desse anche l’idea di un pop contaminato.

Molte cose sono cambiate da quando hai iniziato, la musica stessa è cambiata completamente. Come hai vissuto e vivi queste trasformazioni?

Guarda, ho cominciato a fare musica con la mia prima band nel 1977, quand’avevamo 14 anni. Quindi, di grandi cambiamenti, ne abbiamo visti tanti. Ma già verso la fine degli anni 70 c’erano gruppi come i Kraftwerk, i Devo, i Talking Heads o David Bowie, per dirne alcuni, e si prospettava l’evoluzione dei suoni. Sì, tante cose sono cambiate, ma per me e la mia generazione sono tutte famigliari. Sono cambiati gli strumenti, ma il concetto era già presente in quegli anni. Insomma, l’evoluzione non mi ha sconvolto più di tanto, perché praticamente ci sono sempre stato dentro.

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Dei talent cosa pensi? E tu come iniziasti?

Io non ho goduto dell’aspetto pubblico dei talent, ma quando ho firmato il mio primo contratto con RCA, già all’epoca (nel 1982) le case discografiche erano solite mettere insieme un po’ di artisti che pensavano fossero interessanti e organizzare spettacoli in cui li facevano esibire dal vivo e li filmavano. Quindi anche noi abbiamo vissuto qualcosa di molto simile a un talent; la differenza è che non era una questione televisiva, ma a uso interno delle etichette. Per dirti che questo meccanismo c’è sempre stato. Solo che oggi, essendo televisivo e legato all’audience, privilegia molto la tecnica vocale e il canto invece della scrittura. Il limite dei talent di oggi è questo, credo. Anche se poi dai talent ogni tanto, magari, viene fuori anche qualche personaggio molto dotato.

Negli anni più recenti la tua produzione musicale ha rallentato, eppure Pop-Up sembra dotato di un’energia antica. Da dove arrivano la voglia e l’ispirazione per scriverlo?

L’energia credo di averla sempre avuta, però sì, ci sono stati alcuni anni in cui ho rallentato perché ho sperimentato altre forme d’arte: mi sono, ad esempio, messo a dipingere e a disegnare mobili. Ultimamente, invece, mi è tornato il desiderio di rimettere la musica al centro della mia creatività, ed è arrivato questo disco che ha energia anche perché parte da lontano. Forse proprio perché mi ero un po’ allontanato dalla musica l’ho vissuto come fosse uno dei miei primi album.

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Con Gaetano Curreri degli Stadio

 

Ho letto da qualche parte che una volta, all’inizio della tua carriera, lasciasti un tuo pezzo all’Osteria da Vito e fu preso dagli Stadio, che ti proposero di utilizzarlo per il loro primo album. È vero?

In realtà non avevo lasciato un pezzo. All’epoca tanti erano abituati a dare in giro le cassette, sia agli artisti che alle case discografiche, ma molto spesso non venivano ascoltate. Allora io, invece di portare la musica, portai solo i fogli con dei testi di canzoni che scrivevo per la mia band. Da Vito si ritrovavano Guccini, Dalla, gli stessi Stadio e ci capitai una sera che c’erano proprio Dalla e gli Stadio a cena. Lessero subito le mie canzoni.
Il giorno dopo mi chiamarono per lavorare a un pezzo del loro primo disco (e poi del successivo), perché quella sera stavano proprio riflettendo sul fatto che servisse qualche autore di testi più giovane rispetto a quelli con cui già collaboravano. Anche perché Dalla non aveva voglia di scrivere testi per loro. Quindi mi hanno coinvolto. Andai in studio alla Fonoprint a Bologna e da lì nacque quest’esperienza di scrivere testi per altri. Fu fondamentale, perché mi aiutò anche a capire come funzionavano gli studi e come nascevano i dischi.

Perché Bologna è una regola?

Nella canzone in realtà spiego che poi non so neanche io quale sia la regola, però di sicuro Bologna ha meccanismi di cui mi ero già accorto negli anni 80, quando ho scritto i miei primi album; girando per l’Italia percepivo questa grande attenzione per quello che succedeva qui e un grande amore per la città anche da parte di chi l’aveva solo idealizzata. Mi sono reso conto, insomma, che la magia di Bologna non era sentita solo da noi bolognesi. Perché sono in tantissimi quelli che ci capitano dentro, tipo gli studenti universitari che già dalle superiori la mettono fra le loro alternative. Forse questo la rende speciale, anche se ha ovviamente molti difetti, che sono poi quelli che hanno anche altre città. Ma rimane un punto di riferimento, soprattutto per il mondo giovanile e artistico.

 

Immagino tu non stia più in centro, ma riesci ancora a viverti la città?

In questo momento vivo sull’Appennino, tra Savigno e Zocca, ma a Bologna ci vengo sempre, perché in centro ho ancora il mio ufficio. La città, quindi, la vivo ancora, ma chiaramente adesso che sono papà e non passo più le notti fuori nei locali e nelle osterie – come facevo fino ai 30 anni – faccio cose normali, come tutti i bolognesi. Vado allo stadio, vado da Vito che è ancora un ritrovo di amici, vado al cinema. Naturalmente non riesco più a vivermi gli aspetti più underground, ma riesco ancora ad avere il polso della situazione.

carbonifreakantonyUna volta ti ho incontrato davanti al Bravo Caffè; credo fossi lì per una serata organizzata da Freak Antoni. Com’era il rapporto con lui? E quali sono gli autori “bolognesi” che ti stanno più a cuore?

Sì, a Freak ero molto legato, anche perché quando partì l’esperienza degli Skiantos lui fu per me un grande punto di riferimento e ispirazione. Quando lo conobbi, negli anni 80, nacque subito una stima reciproca. Partecipai anche a un album degli Skiantos con un duetto, ma ci si incontrava spesso nelle osterie e si chiacchierava molto. In poche parole, c’era una grande amicizia. A dire il vero mi è dispiaciuto fare quell’esperienza insieme al Bravo Caffè, in un momento in cui purtroppo era già molto malato. Di lì a poco ci avrebbe salutati.
Ho comunque avuto un bel rapporto con tutte le diverse anime di Bologna. Avevo un ottimo rapporto con Dalla, che oltre a essere mio amico è stato legato alla mia storia musicale, con Francesco Guccini, e ho un bel rapporto anche con i nuovi, tipo Cesare Cremonini o Claudio Lolli, che è un altro più defilato della canzone storica bolognese. Diciamo che tutte le cose che sono state fatte artisticamente qui a Bologna mi hanno sempre coinvolto tanto.

Nelle tue canzoni cerco sempre di rintracciare il riferimento a certi luoghi, o a qualche atmosfera tipica. Quali sono i posti di questa città a cui sei più legato e perché?

Sono legato ovviamente tantissimo al quartiere della mia infanzia, quindi a tutta la zona Zanardi, fino al Palasport, ai luoghi che frequentavo da bambino. Più grande, ho scoperto il centro, che non conoscevo da ragazzo, quindi è sempre stata una scoperta continua. Dopo mi sono molto affezionato alla zona della Cirenaica, dove c’è Vito. Ma sono tanti i posti che ho scoperto pian piano negli anni, frammenti anche molto diversi fra loro pur rimanendo sempre nella stessa città.

A Bologna c’è una tradizione musicale legata a un vecchio fermento. Ma il fermento c’è ancora? E come si è sviluppato secondo te?

Credo che il fermento di Bologna ci sia ancora e non smetterà mai di esserci, anche se ci saranno momenti in cui non produrrà qualcosa capace di imporsi all’attenzione nazionale o internazionale. Ma a livello sotterraneo la città si muove sempre, perché vive quell’energia che, come dicevo prima, arriva anche grazie al continuo ricambio di studenti. Loro portano qui le proprie idee e sanno di poterle esprimere, forse perché si sentono più liberi. È una città in cui, insomma, gli stimoli non mancano. La cosa interessante è che i tanti artisti nati qui sono spesso molto diversi fra loro e non accomunati da una qualsivoglia “scuola”, tipo quella genovese. Forse succede perché “l’emilianità” ti dà la voglia di comunicare. E un contesto in cui l’aspetto artistico sia importante può far emergere cose belle. Ma ripeto, sempre molto mischiate e contaminate con quanto arriva da fuori.

In via del Pratello
In via del Pratello

 

Oggi che cosa ascolti?

Ho sempre ascoltato un po’ di tutto, ma ho amato più la musica europea, in particolare inglese, rispetto a quella americana. Sono stato molto legato al punk e, in particolare, ai Clash. Delle nuove generazioni mi piacciono i Coldplay o i Keane, ma ascolto anche il rap e cose più elettroniche.

Mi sembra tu sia riuscito a passare anche in certi ambienti in cui il cantautorato viene o veniva vissuto con la puzza sotto il naso. Sei d’accordo?

Sì, un po’ è così, ma lo è sempre stato. Quando ho cominciato, negli anni 80, le case discografiche non facevano più contratti ai cantautori, perché pensavano fossero superati, perciò mi sono ritrovato in un crocevia dove per chi faceva pop ero un cantautore, ma per i cantautori ero uno che portava elementi non tradizionali nella canzone d’autore, come il rock o qualche accenno di elettronica. In realtà non sono mai stato un cantautore nel senso tradizionale del termine e, avendo anche trascorsi da band punk, sono sempre stato preso in considerazione anche dal mondo un po’ più alternativo.

Quando ti vedremo di nuovo sul palco a Bologna?

Adesso ho voglia di suonare nei club, perché stiamo pensando a un live bello da vivere con energia, non seduti. Voglio privilegiare anche una certa dimensione elettronica, quindi dobbiamo capire quale sia lo spazio più opportuno dove portare il concerto. Comunque sì, di sicuro ci sarà anche Bologna.

Luca Carboni e Gianni Morandi all'Osteria del sole, trasformata in set della fiction per lo scudetto del Bologna del 1964 (Corriere di Bologna)
Luca Carboni e Gianni Morandi all’Osteria del sole, trasformata in set della fiction per lo scudetto del Bologna del 1964 (Corriere di Bologna)

 

Che cosa avresti fatto se non fossi diventato il Luca Carboni di oggi?

Sento molto il bisogno di esprimermi in modo artistico, quindi avrei comunque cercato una dimensione attraverso cui poter raccontare, tipo la pittura ad esempio. Ma comunque qualcosa di “creativo”.

Hai già esposto i tuoi quadri?

Non ancora, perché è stato un lavoro molto personale, ma spero nel giro di un po’ di tempo di riuscire a organizzare una mostra per esibire quest’aspetto di me rimasto un po’ nascosto.

Una domanda che avrei sempre voluto farti: Silvia esiste davvero? E cosa fa oggi?

Quella è una canzone molto reale. Silvia esiste davvero, esiste pure Luca e si chiama proprio Luca, ma non sono io. Oggi li incontro ancora, sono in forma. Si sono salvati.