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Silvia Lelli

La Prima è alle porte. Abbiamo parlato con chi, del teatro d'Opera più importante d'Italia, è stata fotografa per due decadi

Scritto da Corrado Beldì il 1 dicembre 2015
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Una vita alla Scala, tra stanze, sipari e momenti di pura bellezza. Silvia Lelli, che del teatro è stata fotografa per vent’anni (assieme al marito Roberto Masotti) e oggi è l’occhio fedele di Filarmonica della Scala, racconta a Zero la sua vita, i suoi sogni realizzati e mille ricordi, a pochi giorni dalla prima del 7 dicembre.

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Partiamo da Riccardo Chailly, che tra pochi giorni dirige la Giovanna d’Arco di Verdi. Sarà anche la sua prima. Cosa ci dici di lui?
Silvia Lelli – Potrei dire che lo conosco da una vita. Gli feci le prime foto tantissimi anni fa a Montepulciano. Era il 1977, aveva ventiquattro anni. Poi un ritratto in studio: è stato il primo direttore d’orchestra che ho fotografato proprio qui, in questa casa. Chailly viene da una famiglia di musicisti. È un vero milanese. Si capiva che avrebbe fatto strada. La sua nomina è stata, per me, una felicità infinita.

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Tu invece sei di Ravenna. Come arrivasti a Milano?
Arrivai nel giugno del 1974. Mi ero laureata in architettura a Firenze, con una tesi su un progetto di urbanistica a Ravenna. Fui chiamata per un colloquio da Alessandro Mendini, che aveva un incarico per la Montedison, mi portò a pranzo in un ristorante su corso Monforte. C’erano le sedie in plastica verde della Kartell: mi rimasero impresse! Mendini aveva un’eleganza speciale e una grande cultura. Una correttezza d’altri tempi, che mi colpì moltissimo. Il progetto non si fece, ma io ormai ero a Milano.

Facevi già la fotografa, allora?
Avevo iniziato a fotografare al CUT (Centro Universitario Teatrale) a Firenze. Fotografavo e viaggiavo con la compagnia, mi divertivo moltissimo. Allora ero ancora divisa tra le due strade: architettura e fotografia.

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Conoscevi già tuo marito Roberto Masotti?
Certo, eravamo entrambi di Ravenna. Roberto abitava di fronte alla scuola e tutti i giorni si trovava lì alla fine delle lezioni. «Ciao, posso accompagnarti a casa?». Mi faceva ridere. «Va bene, se vuoi accompagnami». Le nostre madri, le famiglie si conoscevano. Poi ci fu l’alluvione del novembre 1966 a Firenze. Roberto andò a dare una mano, sai, gli angeli del fango. Tornò con un regalo: un bracciale–cinturino per l’orologio. Molto originale. Mi colpì che avesse pensato proprio a me.

Quando hai comprato la tua prima macchina fotografica?
Avevo 19 anni. Comprai una Konica usata da Bongi a Firenze, in centro, proprio di fronte alla loggia del porcellino. Il negozio esiste ancora. Fotografavo per il CUT. Mi piacevano moltissimo la danza e il balletto: andai all’Arena di Verona per uno spettacolo di Maurice Béjart, era il 1972. Praticamente fu il mio primo vero rullino.

Cosa hai fotografato in quegli anni?
Giravo tantissimo. A Roma c’era molto teatro sperimentale. Fotografai Leo e Perla, Memè Perlini, Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann. Iniziava in quegli anni il teatro di strada: Els Comediants, Cardiff Theatre, Bread und Puppet.

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A Milano ricordo ancora gli spettacoli al CRT di via Dini, dalle parti di piazzale Abbiategrasso: era un grande salone all’interno di un complesso scolastico. Ne vidi e fotografai tantissimi: Bob Wilson con Lettera alla regina Vittoria,

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Tadeusz Kantor ne La classe morta, Pier’Alli con Winnie dello sguardo

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e poi ancora Peter Brook e Jerzy Grotowski. Molti di questi registi, che facevano il teatro sperimentale, li ho poi ritrovati all’opera ed è stato facile lavorarci, perché li conoscevo già.

C’è sempre stato un grande affetto per Luca Ronconi. Fin dall’inizio, vero?
Ronconi è stato uno dei primi registi che ho fotografato: in piazza Santa Croce, nel 1975, mentre preparava Utopia.

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Aveva già messo in scena l’Orlando furioso in piazza Duomo a Milano, nel 1969: non aver fotografato quello spettacolo è uno dei miei grandi rimpianti. A Firenze lo immortalai mentre, con le mani in tasca, dava indicazioni di regia. Una foto che lui amava molto. Per quelli della mia generazione, Luca Ronconi è stato un eroe perché aveva rotto le regole del teatro tradizionale.

Chi ti aveva colpito in quegli anni?
Nel 1976 c’era stato a Bergamo il primo Festival del Terzo Teatro, con spettacoli che duravano tutta la notte.

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Ricordo l’Odin con Eugenio Barba e gli Els Comediants, uno spettacolo che iniziava per le strade di Bergamo e arrivava in una chiesa sconsacrata sulla strada per la città alta. E ancora al CRT fotografai Sheryl Sutton, che ritrovai poi nell’Einstein on the Beach di Bob Wilson e Philip Glass alla Fenice di Venezia.

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Passione o lavoro?
Entrambi. Roberto aveva aperto uno studio fotografico a Milano, in via Besana; io misi insieme un po’ di foto – quello che oggi si chiamerebbe un portfolio – e presi appuntamento da Grazia Neri, che nel frattempo aveva aperto la prima agenzia fotografica in Italia sul modello di Sigma e Gamma, nate in Francia negli anni dei moti di Parigi. Aveva la sede in via Senato, dove (ora) c’èra la Galleria Blu. Guardò le foto e rimase colpita. «Ti chiamo tra una settimana».

Ti chiamò per davvero?
Certo, mi chiamò e mi spedì a fare il mio primo servizio fotografico alla Biennale di Venezia del 1974. Il direttore era Vittorio Gregotti, presidente era Carlo Ripa di Meana, il quale mi accolse e mi portò a pranzo all’Harry’s Bar. Per me fu un’esperienza incredibile. Ricordo ancora che ordinai baccalà mantecato, forse perché piaceva molto a mio padre. Fotografai Mario e Marisa Merz e poi Ettore Sottsass. La foto di Carlo Ripa di Meana finì sulla copertina di «Spettacoli & società».

Che tipo di rivista era?
Era un settimanale di approfondimento su arte e cultura promosso e finanziato da Floriano De Angeli, hai presente i farmaceutici? Visto con gli occhi di oggi era davvero incredibile: si parlava di tutto. Fotografai Dario Fo, Julian Beck, Lucio Dalla. In quel periodo cominciai anche a lavorare per Musica viva, mensile diretto da Lorenzo Arruga. Feci quasi tutte le copertine e molti servizi. Per loro entrai la prima volta alla Scala, nel 1977, per fotografare Claudio Abbado, poi Strehler, successivamente Carla Fracci e Placido Domingo nella Manon Lescaut.

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Quale fu lo spettacolo più bello di quegli anni?
Senza dubbio Einstein on the Beach del 1976, a Venezia. Fu folgorante. Bob Wilson e Philip Glass avevano messo in scena quello che io amavo: musica, danza, teatro con una purezza di linee, di luci, e quel grigio. Poi c’era Lucinda Childs, minuti e minuti di diagonali in palcoscenico, entrare, uscire, incroci. Fantastica. L’avevo già vista qualche tempo prima in una performance alla galleria di Salvatore Ala.

Quale fu il momento della svolta?
Era il 1978. C’era Dario Fo che provava al Teatro Uomo. Preparava Histoire du Soldat di Igor Stravinskij per la Scala.

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Andai a fotografare le prove fin dall’inizio. Erano tutti attori alle prime armi, un vero laboratorio; ricordo un Paolo Rossi giovanissimo: aveva 16 anni e faceva morire dal ridere. Un giorno poi mi telefona Ugo Volli che mi chiede le foto per un libro fotografico sullo spettacolo. Il libro uscì in poco tempo con Electa, oggi lo chiameremmo un instant book. Le sorprese però non erano finite…

Cosa successe?
Qualche giorno dopo mi chiamò Carlo Mezzadri, allora ufficio stampa della Scala: «Mi hanno detto che ha fatto le foto per lo spettacolo di Dario Fo, non le andrebbe di fare una mostra nel foyer del Lirico per la prima?».

Quale fu la tua reazione?
Ero al settimo cielo, non ci potevo credere, ma il meglio doveva ancora venire. Due giorni dopo Mezzadri mi richiamò e mi chiese di andare a trovarlo. Mi disse che Erio Piccagliani, che era stato il fotografo ufficiale della Scala dal dopoguerra, andava in pensione e mi chiese se avessi voglia di prendere il suo posto. Sai cosa gli risposi?

Che cosa?
Gli dissi che non ci pensavo nemmeno, perché avevo voglia di fotografare altre cose: la danza, il teatro, la performance, non solo la classica, l’opera. Non avevo voglia di ritrovarmi come Erio Piccagliani, che vedevo sempre in un angolo buio, vecchietto, appostato con la sua Rollei. Passava la vita in teatro.

Che coraggio…
Infatti tornai a casa e Roberto mi chiese: «Non possiamo trovare un’alternativa?». Richiamai Mezzadri proponendogli di lavorare insieme a Roberto. «Fotografa soprattutto jazz, ma sarebbe disponibile. Potremmo alternarci in teatro per continuare a fotografare altre cose». Mezzadri mi disse che ci avrebbe pensato, seppi che aveva telefonato a Franco Fayenz per avere referenze. L’indomani mi convocò: «È possibile che mi parlino tutti così male di voi?». Firmammo il contratto poco dopo.

Continuavi dunque a fare altre cose?
Certo, fotografavo cantautori, Claudio Lolli, Lucio Dalla con Roberto Vecchioni e Francesco Guccini alla trattoria Da Vito a Bologna

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poi il primissimo punk e la danza, tanta danza, sia americana che tedesca. Di quegli anni ricordo soprattutto Pina Bausch, alla quale dedicherò presto un libro: fantastica al Malibran di Venezia nel 1981, dove fotografai Nelken.

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Saranno stati in settanta, non di più, gli spettatori. Qualche tempo dopo venne alla Scala con Kontakthof e lasciò tutti a bocca aperta.

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Torniamo alle prime della Scala. Quali ricordi con maggiore emozione?
Intanto la prima di tutte, il Boris Godunov del 1979, con la regia di Jurij Ljubimov, direzione di Claudio Abbado. Ricordo che c’era Sandro Pertini. Con Abbado avevo un rapporto bellissimo, semplice, diretto. Tutti dicevano che Claudio era impegnativo, ma in realtà era sempre un po’ un ragazzo: gli piaceva stupirsi. Fantastico, a proposito, il suo Viaggio a Reims del 1985, prima esecuzione assoluta a Pesaro dopo l’edizione critica dell’opera. Regia di Luca Ronconi, scenografie di Gae Aulenti. Mamma mia, che bellezza. Furono poi davvero indimenticabili le tournée in Giappone con il Simon Boccanegra, Il Barbiere di Siviglia, Turandot, Otello, Traviata.

Raccontaci invece di Riccardo Muti e delle sue prime.
Un direttore che ho amato moltissimo e che continuo ad amare e seguire.

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Ricordo la sua prima volta alla Scala con Nozze di Figaro, l’incredibile regia di Giorgio Strehler: uno degli spettacoli più belli che io abbia mai visto, con le scene di Ezio Frigerio e i costumi del premio Oscar Franca Squarciapino. Devo confessarti che Strehler non era proprio nelle mie corde, eppure scoprii che era un light designer incredibile: ho imparato moltissimo dalle sue prove luci. Gli feci anche una foto al lavoro con Muti in platea: il Maestro dice sempre che è la più bella foto che gli sia mai stata fatta. Poi non posso dimenticare un 7 dicembre con Don Giovanni, l’ultima collaborazione di Strehler con la Scala.
Ci fu anche la prima del 1980 con il Falstaff diretto da Lorin Maazel. Bellissimo.

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Ancora una grande regia di Strehler, che decise di ambientare l’opera nella pianura padana, in un grande cascinale, con tanto di nebbia. Strehler trasformò un giovane spagnolo allora sconosciuto, Juan Pons, in Falstaff. Un ruolo che non ha più abbandonato.

Quali altri direttori ricordi?
Be’, Gianandrea Gavazzeni, un direttore sofisticato, colto, elegante, l’ho sempre trovato bellissimo. Era una persona “antica”. Ricordo il suo trittico verdiano con la regia di Sylvano Bussotti: Tabarro, con la scenografia affidata a me, Roberto e Luciano Morini, poi Suor Angelica e Gianni Schicchi. Pensammo a una scena di grandi immagini, stampate su base fotografica. Ci trovavi Brassaï, Atget… Per la prima volta riuscivamo a mettere insieme le nostre competenze e passioni: architettura, design, musica e fotografia.

C’è un direttore che vorresti sentire ancora una volta?
Non ho dubbi: Carlos Kleiber. Andammo in tournée in Giappone con Bohème, regia di Franco Zeffirelli. Che è poi stata riproposta fino a poco tempo fa. Una persona molto schiva, semplice, alla fine dello spettacolo praticamente scappava via, usciva da una porta di sevizio per non incontrare nessuno.

Non hai citato Daniel Barenboim…
Barenboim è davvero speciale: come pianista non lo conoscevo, poi ho avuto l’occasione di realizzargli un ritratto. Ha un’intelligenza vivacissima, anticipava sempre le mie richieste, ma non è forse questo che ti aspetti da un direttore?

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Torniamo a parlare della città. Cosa mi dici di Milano?
È una città che continuo ad amare, anche se qualche anno fa avrei voluto fuggirne. Ora invece è diventata davvero europea, con un’offerta culturale molto ampia: c’è l’imbarazzo della scelta su cosa vedere, come accadeva negli anni Settanta. Si è fatto molto negli ultimi anni. Per esempio, per una persona che si muove in bicicletta come me, anche solo l’aumento delle piste ciclabili è stata una grande conquista: mi sento più sicura, specialmente la sera.

Quali sono i luoghi che ami di più?
Di certo la Darsena: aspettavo quest’apertura da trent’anni, perché abito in zona e per me è un sogno realizzato.

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Certo però che vorrei fosse un momento di pausa dal rumore e traffico, non un luogo da riempire forzatamente di contenuti, di insegne, di caciara: non ce n’è davvero necessità. Vorrei che a ogni ora fosse esattamente come a me piace viverla: la mattina presto, su una panchina, nel silenzio.

Quali sono i ristoranti che ti piace frequentare?
Milano offre moltissimo, soprattutto per chi è praticamente vegetariano come me: ci sono molti ristoranti che fanno al caso nostro. Ricordo che negli anni Settanta ero costretta ad andare al Centro Macrobiotico in via Larga, unica possibilità. Ora invece posso scegliere. Ovviamente mi piace molto Joia, Pietro Leemann è un cuoco fantastico, ma ci sono posti anche più giovani. Mi piace andare da Valà Banco & Cucina in via Crespi, bello per mangiare e chiacchierare.

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Ti capita di andare nei caffè o di bere un aperitivo?
Certamente, anche se Milano ha un difetto: manca una pasticceria ai livelli di quelle di Torino o di Palermo. Fatico a trovare una buona brioche, o un toast ben servito. Per il caffè vado alla Pasticceria Clivati in viale Coni Zugna, dove oltre al buon caffè hanno anche la brioche vegana e poi tanta buona pasticceria. 

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Per l’aperitivo invece mi piace andare da Cucchi.

Che cosa bevi?
Il mio cocktail preferito è il vero rabarbaro che si beveva allo Zucca, ora Caffè Miani, in Galleria. Adesso è veramente difficile trovarlo così. Ho anche origini trentine, e l’aperitivo lì è lo spritz bianco, con acqua e vino bianco. Ultimamente vado spesso al Lido Liquor Bar in piazzale Cantore, da Sabina: mi piace passarci prima di cena.

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Chi sono i tuoi amici?
Sono legata da molti anni alle stesse persone. Lorenzo Arruga, amico vero: ci ho lavorato e condividiamo tante cose degli anni passati. Possiamo non vederci per sei mesi, ma abbiamo comunque mille cose da dirci. Poi Carlo Majer, carissimo amico fin dagli anni Settanta, con cui ho vissuto tantissime esperienze. Ricordo un viaggio a Londra in macchina insieme. Carlo Diappi, che ha costruito grandi scene per gli spettacoli di Luca Ronconi: da quando è andato in Francia mi manca molto. Poi c’è Nicoletta Geron, ufficio stampa del Quartetto, ma ai tempi era caporedattore di Musica viva. Carlo e Stefania Cella, che abitavano in via Besana dove c’era la redazione di Gong, amici da una vita. Tra i più giovani, di certo Valentina Bonelli e Paolo Besana.

Non abbiamo parlato di compositori contemporanei. Chi ti piace?
Stimo tantissimo Carlo Boccadoro, poi sono molto amica e grande ammiratrice di Claudio Lugo e Luigi Ceccarelli

Tra quelli più giovani?
Sicuramente Mauro Montalbetti. Sono stata a Brescia l’anno scorso per la generale di Il sogno di una cosa, la sua opera su piazza della Loggia, mi ha commosso.

E tra i giovani direttori?
Sicuramente Speranza Scappucci: finalmente una donna che riesce ad affermarsi come direttrice. Ci sono tanti giovani interessanti, che purtroppo non hanno abbastanza opportunità. Recentemente ho ascoltato Min Chung, figlio di Wung Chung: ancora poco conosciuto, ma devo dirti che cresce molto bene…

Chi ti piace tra i coreografi contemporanei?
Mi piace molto Olivier Dubois. Tra gli italiani più giovani Ambra Senatore, che è stata appena nominata alla guida del Centre Chorégraphique di Nantes. Tra i ragazzi mi interesserebbe molto seguire Alessandro Sciarroni e Riccardo Buscarini, appena premiato dal The Place di Londra. Vorrei fotografarli quanto prima.

Ci parli di una persona troppo trascurata a Milano?
Certamente Serena Sinigaglia, regista interessantissima.

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Il Teatro Ringhiera ATIR meriterebbe più aiuto.

Parliamo delle tue passioni: un libro importante.
La Recherche di Marcel Proust. Continuo a leggerla e rileggerla. Mi ha aiutato tantissimo con le sue immagini e le ossessioni per il dettaglio. Ultima lettura interessante Stoner, di John Williams.

Un film.
Senza dubbio un film di Silvio Soldini, in particolare Un albero indiano. Soldini è un regista che ammiro: non sgomita, non intrallazza, lavora molto e bene. Sta a Milano e fa la sua strada lontano da tutti.

Un disco 
Ascolto molto spesso Ulysses’ Gaze di Eleni Karaindrou, che poi non è altro che la colonna sonora del film di Theo Angelopoulos e anche di Vollmond di Pina Bausch.

C’è un oggetto al quale sei particolarmente legata?
Questi braccialetti: sono dei semplicissimi cerchi in oro, me li ha lasciati mia nonna e non li tolgo mai. Portare braccialetti è un modo molto antico di portare gioielli. Mi ricorda gli egizi.

Ci dici tre posti in Italia che ti piacciono molto?
Il Giardino degli aranci a Roma, le Murate di Firenze e poi la cosidetta zona del silenzio a Ravenna, con la chiesa di Galla Placidia.

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Hai un sogno per il futuro?
Certo, vivere un’altra vita per avere il tempo di fare tutte le cose che ancora vorrei realizzare. Intanto cerco di affrettarmi…

Che cosa farai in questa seconda vita?
Credo che farò ancora la fotografa, però vorrei fotografare l’architettura.

Che cosa farai da grande?
Mi piacerebbe essere alpinista. Per questo ammiro tanto Reinhold Messner. I miei nonni materni sono trentini. Mi piace questo desiderio dell’uomo di voler scalare. Camminare, camminare in continuazione. Camminare e pensare.

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C’è una foto alla quale sei particolarmente legata?
Certo, ce n’è una che risale agli anni Settanta: è una foto di Winnie dello sguardo di Pier’Alli. Rappresenta un sogno: il bianco accecante, un volto che esce da una scatola. Dopo te la mostro.

C’è un personaggio che hai rimpianto di non aver potuto fotografare?
Certamente: Igor Stravinskij. Sono anche molto gelosa della foto di Arnold Newman, in cui c’è lui appoggiato al pianoforte, perfetta.

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Che cosa fai stasera?
Sono a cena con te.