Nico Vascellari oscilla tra arti visive e musica – è fondatore dei Ninos Du Brasil ed è stato membro di With Love e di Lago Morto – le sue performance sono pervase da una grande energia e nel suo lavoro ricorrono atmosfere misteriose. La sua non è una formazione accademica, piuttosto la sua pratica deriva dalle sue esperienza musicali e dall’urgenza di fare accadere le cose, è così che ha dato vita a Codalunga lo spazio-studio di Vittorio Veneto, in cui organizza eventi e concerti. Ha partecipato, tra le altre, alla Biennale di Venezia nel 2007 e nello stesso anno con Zero pubblicò la prima edizione di CUJO. Al momento ha in corso due personali: una a Londra (alla Estorick Collection) e una Manchester (alla Whitworth Art Gallery). In Italia, dopo l’anteprima milanese di qualche mese fa alla Marsélleria, lo rivedremo prestissimo a Roma (dal 31 marzo) con una mostra di una settimana a Villa Medici e a Milano durante la settimana di Miart per il progetto Case Chiuse curato da Paola Clerico. Abbiamo fatto una lunga e piacevole chiacchierata con lui.
ZERO: Di dove sei? Dove vivi e dove hai vissuto?
Nico Vascellari: Sono di Vittorio Veneto e questa è cosa risaputa (ride – n.d.r.), sto vivendo a Roma e tra i posti in cui ho vissuto ti direi Rotterdam, New York, Madrid.
La prima volta che sei salito su un palco quanti anni avevi? Com’è andata?
C’è un aneddoto che mi piace raccontare perché ho una memoria molto vivida di quel giorno, anche se mi ricordo di palchi precedenti. Ricordo la recita di fine anno in prima elementare: c’era tutta la scuola riunita in quell’occasione e noi più piccoli stavamo in prima fila, cantavamo il Nabucco. Io ho avuto un malore e a un certo punto ho iniziato a vomitare, dapprima ho provato a trattenermi ma poi sono esploso. Ricordo la vergogna nell’incrociare gli sguardi e poi ricordo la mano della bidella che da dietro mi ha portato via. Poi un tè caldo.
Ma questo non è successo per la timidezza?
No, direi che stavo proprio male.
Poteva essere una tua performance ante litteram…
Sicuramente la sensazione di disagio che ho provato in quel momento, poi è stata una cosa sulla quale ho molto lavorato.
Ecco, infatti sarei arrivata anche a chiederti di questo. Mi ha sempre un po’ colpito il fatto che ti piace sentirti fuori luogo, è una cosa che in genere le persone detestano, mi chiedevo se t’interessa ancora?
In realtà non è che mi piaccia sentirmi fuori luogo, però trovo che quella sensazione faccia scaturire delle percezioni interessanti. Questa è una cosa sulla quale ho lavorato attraverso le prime performance, che erano molto legate al suono e alla mia esperienza musicale. Chi veniva dalla musica si aspettava un concerto e se ne andava via la maggior parte delle volte scontento, convinto di aver visto una performance legata alle arti visive; chi invece veniva dall’arte andava via piuttosto scontento convinto di aver assistito a un concerto. Quello che mi sembrava interessante nel non accontentare nessuno era che ognuno di questi gruppi riconosceva dei codici linguistici che però erano quelli che non gli appartenevano.
E in questo momento qual è la situazione in cui riusciresti ancora a creare questa sensazione di scontento nel pubblico?
Considera che io ho molto limitato l’utilizzo della performance e una delle ragioni è proprio questa. Ho iniziato a concepire delle performance in cui spesso non era chiaro chi fosse, al di là di me, il performer e chi no. Ad esempio, a Torino, durante l’Artissima curata da Andrea Bellini fui invitato da Andrea Busso per una performance in teatro. In quell’occasione avevo inscenato un monologo (tra l’altro annunciato come la mia ultima performance in Italia) e lì tra il pubblico c’erano delle persone che erano state pagate per recitare. Però poi la situazione mi è sfuggita di mano, perché non ho riconosciuto uno degli attori e ho preso per sbaglio uno del pubblico. A quel punto quella che doveva essere una rissa calcolata si è comunque scatenata in un litigio ma un po’ più fuori controllo. Quello su cui ho sto lavorando ora sono magari delle citazioni, ma senza esplicitarle… Insomma sono cose che sto ancora evolvendo in gran segreto, quasi.
Ci puoi anticipare qualcosa su Villa Medici?
Si tratta di una mostra a cura di Pier Paolo Pancotto della durata di una settimana. Consiste in una serie di sculture in bronzo illuminate da due lavori recenti che spostano di continuo ombra e luce. La sala in cui porto il lavoro è lo Studiolo ed è completamente affrescata, la chiamano anche lo spazio degli uccelli. Ci sono affreschi che raffigurano uccelli, rami…
L’hai scelta tu?
Sì, l’ho scelta io tra alcune suggerite magistralmente dal curatore.
E questi affreschi hanno influito sulla scelta? Gli animali sono un tema che ricorre spesso nel tuo lavoro…
Sicuro, sì in parte è proprio questo clima un po’ boschivo se vuoi, che m’interessava. In più le sculture in bronzo che porto raffigurano degli animali.
Nel tuo lavoro c’è spesso una componente legata alla natura, al bosco, agli animali appunto e mi sono immaginata un Nico Vascellari che quando è a Vittorio Veneto va a farsi una passeggiata in montagna, è verosimile?
Sì, sì lo è. La foresta che c’è vicino allo studio è uno dei luoghi nel quale sono tornato tutte le volte che ho potuto. Un posto che sento molto mio.
Scampagnate o camminate in solitudine?
Entrambe le cose. Ci sono sia le camminate da solo che momenti un po’ più gioviali con gli amici, ci sono alcuni ristoranti della valle che mi piacciono molto. Non è necessariamente solo un aspetto quasi mistico di eremitaggio (ride – n.d.r.)
E animali ne hai? Mi è sembrato di sentire un gatto miagolare…
L’hai sentito? Sì abbiamo un gatto qui a Roma. E un cane.
Ritorno al tuo lavoro, com’è stato il debutto nel mondo dell’arte?
La prima mostra è stata a Rotterdam. Sembra una sorta di strana invenzione, ma è la verità. Sono andato a vivere a Rotterdam dopo aver lasciato Fabrica, il centro di ricerca di Benetton. La prima mostra è nata perché il mio studio era all’ultimo piano di un edificio di tre piani e sono arrivato lì in piena notte, mi avevano detto solo che c’era un montacarichi alla fine del piano terra e che potevo usarlo per il trasloco, dando per scontato che io avrei trovato gl’interruttori della luce, cosa che io non ho fatto. Andavo avanti e indietro con questo carrellino carico delle mie cose e mi orientavo nel buio con la luce del montacarichi. Un paio di giorni dopo viene fuori che avevo calpestato delle tele srotolate sul pavimento del pittore che stava in quello studio a piano terra. Gli avevo rovinato mesi di lavoro. Essendomene assunto la colpa e non avendo assicurazione né soldi per ripagarlo gli ho proposto in cambio di salire nel mio studio e distruggere l’equivalente del danno che io avevo fatto a lui. L’ha trovato molto divertente. Di lì a poco lui doveva curare una collettiva in uno spazio in città e mi ha proposto di fare una personale, che è nata così. A quella mostra venne una curatrice dell’Aja che poi m’invitò lì, poi mi hanno invitato in Finlandia e poi ad un certo punto mi sembrava di aver abbastanza lavori per fare una personale in Italia. Ho chiamato un amico, Giorgio Camuffo, e gli ho proposto di fare una mostra nel suo spazio a Venezia. A quel punto c’era bisogno di un testo critico e non sapevo a chi farlo scrivere, ma in quei giorni a Rotterdam inaugurava una mostra di Maurizio Cattelan, ci sono andato, l’ho fermato, l’ho salutato ed è stato gentile. Quando sono tornato a casa mi sono detto «Potrei chiedere a Cattelan di scrivere il testo… No, non accetterebbe mai. Lo scrivo io e lo firmo con il suo nome» Lo trovi ancora su Undo.net quel testo.
Insomma, hai fatto da solo. Abbastanza in linea con l’idea del Do It Yourself.
Per me il DIY nasceva da un’esigenza che era quella di far succedere qualcosa a Vittorio Veneto.
E infatti a Vittorio Veneto con Codalunga hai portato un po’ il Mondo. Ci racconti che cos’è?
Codalunga è una sezione del mio studio a Vittorio Veneto. Quando sono andato a vivere a New York non mi serviva più, ma essendo uno spazio interessante in un luogo molto bello mi dispiaceva lasciarlo, così ho deciso di utilizzarlo al mio ritorno per invitare altri artisti a presentare il proprio lavoro. È successo dal 2005 al 2008 con eventi sporadici, per il fatto che non c’ero mai e gestendolo da solo non riuscivo a seguirlo. Poi nel 2008 sono subentrati altri due amici coi quali siamo riusciti ad avere una programmazione più regolare. Dopo il progetto di due anni fa a Roma nell’aula Bunker- che è stato anche molto intenso e faticoso – l’anno scorso c’è stato un solo evento a Codalunga. Sono tornato verso un’idea di necessità piuttosto che a quella di avere una programmazione, non trovo più necessario avere una regolarità.
Uno degli aspetti importanti del tuo lavoro è anche la collaborazione, che è qualcosa che probabilmente deriva dal fatto di essere membro di una band, dai With Love ai Ninos du Brasil. Mi chiedevo se ci sono degli artisti visivi giovani con cui collaboreresti.
Non sono certo sia corretto parlare di collaborazione. Le persone che coinvolgo nei miei progetti sono dirette da me. Accettano delle regole che impongo. Spesso si tratta di poche e semplici regole, ma pur sempre regole.
Ad esempio pensavo al lavoro che portasti a Manifesta7.
Sì, ecco, vedi anche lì i musicisti rispondevano a delle richieste, che lasciavano comunque ampie possibilità all’artista di fare quello che desidera, però in quel caso veniva chiesto di comporre una traccia audio ispirata al luogo in cui loro mi avevano portato. Quindi ancora una volta era una cosa diretta da me.
Sei attivo sui social network, in particolare trovo il tuo Instagram molto interessante, mi piace andare a dare un’occhiata ogni tanto. C’è una strategia precisa dietro?
Non c’è una strategia, è nato come modo per me di comunicare con una persona nei momenti in cui eravamo lontani. Una sorta di comunicazione telepatica.
Sì, ho visto che c’è questo hashtag ricorrente che è #telepathy.
Il mio Instagram è un diario visivo per questa persona.
Sei spesso in viaggio ma quando torni a Roma quali sono i luoghi che frequenti?
Torno spesso alla Cappella dei Cappuccini in Via Vittorio Veneto. Spero sempre di ritrovare il foulard che vendevano un tempo, ma è esaurito. Poi alla Centrale Montemartini oppure il Piccolo Museo del Purgatorio. Il mio cinema preferito è Filmstudio. Mi piace andare in bici per le strade di Fregene.
E quando sei a Milano?
Il Museo Di Storia Naturale oppure i bunker di Brera e ovviamente la Chiesa di San Bernardino alla Ossa. Ho degli ottimi ricordi delle cene con Andrea Lissoni da Joia.
Concludiamo con il luogo da cui abbiamo iniziato: se venissi un giorno a Vittorio Veneto cosa mi consiglieresti di fare?
Se vieni a Vittorio Veneto ti consiglio di andare a vedere il Museo del Cenedese, all’interno del quale c’è uno dei miei quadri preferiti in assoluto che si chiama “L’odio” di Pietro Pajetta, un pittore locale. Lì vicino c’è la casa museo che apparteneva a Giuseppe De Carlo e in quella zona di Serravalle c’è la Cappella dei Battuti, una cappella affrescata molto interessante. A quel punto mi telefoni e vieni a vedere anche lo studio che non è male (ride – n.d.r.). Ti consiglio di andare a mangiare in uno dei miei posti preferiti che è l’Osteria alla Cerva e poi ti suggerisco di salire verso la foresta del Cansiglio.