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Pietro Fuccio

Parole come pietre: il fondatore di DNA Concerti ci parla della musica dal vivo a Roma e di come fare un bel festival anche in Italia.

Scritto da Chiara Colli il 21 luglio 2015
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Forse non lo conoscete di persona, ma se passate spesso da queste pagine sarete stati a un concerto che ha organizzato. Pietro Fuccio è il fondatore di DNA Concerti, agenzia che negli anni ha portato in Italia gente tipo Sonic Youth, Kraftwerk, Nick Cave e Flying Lotus, giusto per fare qualche nome a caso. Con DNA organizza tournée per tutto lo stivale e da due edizioni anche il Siren Festival di Vasto. Abbiamo colto l’occasione per farci raccontare qualcosa in più sul festival, ma pure sulla storia di DNA e della musica dal vivo a Roma negli ultimi 20 anni circa dal punto di vista di uno che di cose ne ha viste e fatte parecchie. Preparatevi a una lunga intervista fatta di aneddoti, metafore calcistiche, sarcasmo, nomi, cognomi e, soprattutto, parole come pietre.

ZERO: Andiamo per ordine: come è cominciata DNA? Ti ricordi quale è stato il primissimo concerto che hai organizzato?

PIETRO FUCCIO:
Il primo concerto che abbiamo fatto è stato il 31 gennaio 1998 al Brancaleone, con quello che oggi definirei uno dei gruppi peggiori nella storia della musica, i Rachel’s. La sala era murata di gente, fosse andato male quel concerto probabilmente adesso farei un altro lavoro.
DNA è cominciata per gioco. Andavo a molti concerti e già allora avrei dovuto intuire che non sarebbe stato facile, perché in breve tempo avevo conosciuto i soliti quattro gatti che a Roma li frequentavano. È venuto fuori cihe alcune di queste persone stavano organizzando live di gruppi che a me piacevano molto, era in pieno periodo post rock, qui andava di moda la Touch and Go. Sono venuto a sapere che dei ragazzi che facevano capo alla Vurt Recordz, un’etichetta sparita ormai tanti anni fa ma che si muoveva parecchio, volevano portare a Roma cose tipo June of 44, Rachel’s. Sapevo che avevano bisogno di aiuto ed essendo senza lavoro ho iniziato a dargli una mano. Si è subito rivelato un impegno che prendeva molto tempo e quindi mi sono detto “Proviamo a vedere se si riesce a farlo diventare un lavoro vero”. Le intenzioni erano di andare avanti solo qualche anno, perché si trattava solo di un gioco. Ma quando ti accorgi che ci sono delle cose che non vanno vuoi cercare di farle meglio, hai dei collaboratori che sono dipendenti e poi diventano una società e ti ritrovi come nel tunnel della droga da cui non riesci a uscire. Ti accorgi che nel frattempo hai messo su qualcosa che ti dà tanto delle soddisfazioni quanto delle responsabilità.

C’è un passaggio che ritieni un “momento di svolta” nella storia di DNA?

Eravamo partiti abbastanza bene, nel senso che quasi da subito ci hanno cominciato a dare retta degli artisti molto grossi. C’era questo manager con cui avevamo fatto Solex a cui un giorno, con la faccia come il culo, chiesi: “Senti, ma i Sonic Youth? Facciamo qualcosa?”. Pensavo mi avrebbe risposto tipo “Non è che siccome ti ho fatto giocare cinque minuti di un’amichevole con una squadra di serie B adesso puoi pensare di fare la Champions”, invece disse che gli sembrava un’ottima idea. Era il 2001, anno in cui abbiamo fatto due date dei Sonic Youth e le due date di Björk nei teatri dell’opera. Ci è andata abbastanza bene e abbiamo pensato fosse facile organizzare concerti, ma in realtà deve essere stata la famosa fortuna dei principianti. Nel tempo mi è capitato di dover ricominciare da solo due o tre volte.

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I Sonic Youth a Ostia Antica, ma nel 2007

Quando è nata, quindi, DNA come la conosciamo oggi?

DNA comincia a rinascere nel 2002/03, quando il nucleo dei tre – che a un certo punto erano 3 + 1 – che avevano costruito quello di cui ti ho parlato si è un po’ sfaldato. All’inizio eravamo io e Massimo Palermo, che aveva l’etichetta di che menzionavo prima (Vurt Recordz, Ndr) ed era l’unico degli 8 che ci lavoravano che avesse voglia di fare altro oltre a usare le schede tecniche dei gruppi per rollarsi le canne. C’era Giorgio Mortari, che oggi purtroppo non c’è più, che abbiamo conosciuto in maniera molto carina: ci aveva contattato tramite un amico comune, Luca Collepiccolo, perché gli piaceva quello che facevamo e voleva darci una mano; Giorgio aveva belle idee e ci piaceva molto anche a livello umano, quindi siamo diventati in tre. Poi abbiamo avuto l’idea forse non geniale di tirarci dentro Dj Tennis, che è passato per DNA, poi per lungo tempo ha cambiato lavoro ogni sei mesi fino a diventare un dj di fama internazionale – oggi vive a Miami. Nel 2003 questo nucleo si è un po’ sfaldato perché Giorgio ha deciso di continuare per conto suo con Dissonanze – festival con il quale i rapporti sono continuati con 3D, la parte elettronica di DNA. Massimo se ne è andato per fatti suoi perché aveva capito che questo non era un lavoro ma un gioco da fare per un certo periodo di tempo e quindi sono partito totalmente da Zero con Nicola (Romani, che sia occupa del booking, NdR) e poi sono arrivate Romina (Amidei, alla produzione, NdR) e Annachiara (Pipino, l’ufficio stampa, NdR).

Oggi a Roma è un momento non particolarmente brillante per la musica da vivo: ha chiuso una realtà di riferimento come il Circolo degli Artisti, ad agosto non c’è assolutamente nulla, Rock In Roma punta ai grandi numeri e in sostanza restano solo gli Arci al Pigneto e il Monk che sta cominciando a fare concerti in maniera più continuativa. Ti ricordi delle “epoche d’oro” per la musica live in città?

Considerato che ho cominciato a seguire la musica molto tardi – andavo a sentire concerti a quindici, sedici anni, ma in maniera assidua ho iniziato decisamente dopo – mi ricordo di fatto 3 periodi distinti per la musica dal vivo a Roma.
Quello del primo Circolo degli Artisti a Piazza Vittorio, tra il 1989 e il 1998, che ho vissuto perlopiù come frequentatore e che forse anche per via del tempo che è passato mi è sembrata un’esperienza più rabbiosa di tante altre. C’è stato il periodo del Brancaleone, che è stato totalmente casuale e inconsapevole per come è nato: ricordo la prima volta che andammo a parlare con Renato Criscuolo, il gestore di questo posto che sarebbe diventato una sorta di ambasciata berlinese a Roma, ed era il tipico personaggio da centro sociale con la kefiah che ci disse “Vabbè, rega’, per me potete fare concerti, basta che non ci toccate il giovedì che c’è la serata reggae che spigne ‘na cifra”. La volta dopo il pienone dei Rachel’s ci disse, “Vabbé regà, pijateve il giovedì, pijateve quel cazzo che volete, non ci sono problemi”. Era il 1998. Il Brancaleone lo inaugurò un’organizzazione di concerti di cui nessuno si ricorda, Il Cervello a Sonagli, era gente bravissima, molti facevano capo a Disfunzioni Musicali (il mitico negozio di dischi a San Lorenzo, NdR) e portavano cose d’avanguardia, americana soprattutto. Mi ricordo concerti davvero spettacolari là dentro e di aver fatto caso che la sala era molto bella, un centro sociale un po’ scalcagnato in cui però c’era la possibilità di portare anche cose nuove. Nel giro di sei mesi era così attivo come posto che sembrava di stare a Berlino – o almeno nella testa del romano medio e dei gestori dello spazio. Tutto assolutamente casuale, abbiamo cominciato andando tutti in fissa reciprocamente, finché poi non sono cominciate le guerre tra quelli che si facevano ombra con le serate e i concerti e finché a quelli del Brancaleone, da che erano occupanti impegnati, vennero le pupille a forma di dollaro.

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Il Brancaleone, oggi

Infine c’è stato un terzo periodo, con la seconda fase del Circolo degli Artisti in via Casilina Vecchia dai primi Duemila. E a questo punto mi viene in mente un personaggio – per certi versi anche giustamente molto discusso – come Romano Cruciani, che è stato il protagonista nell’ombra di due periodi significativi per la musica dal vivo a Roma. Il punto a cui voglio arrivare è che ho l’impressione che fare le cose a Roma sia come scrivere sulla sabbia: fai tanto poi arriva l’onda che se lo porta via e devi ricominciare da zero. È una specie di legge di natura che non si spiega razionalmente. Non c’è un’esperienza che può iniziare e durare nel tempo, tutto finisce perché a un certo punto qualcuno è troppo idiota per capire che è meglio andare avanti. La cosa strana è che in una città così grande se non c’è il Romano Cruciani di turno che si alza una mattina dicendo “faccio” e un’altra dicendo “disfo”, non c’è un vero movimento dal basso della città che fa succedere qualcosa. Tant’è che adesso siamo entrati in una sacca da cui se ne usciremo sarà, forse, proprio perché si alzerà Romano stesso o un altro Romano dicendo “faccio”. Senza contare che di persone che adesso stanno dicendo “apro un locale” ce ne saranno 60: 30 lo apriranno davvero, 20 chiuderanno dopo una settimana e altri 10 andranno avanti per cinque anni senza che nessuno sappia che esistono. La mia verità è che Roma sarà grande quanto ti pare e ci abiteranno pure 3 milioni e mezzo di persone, ma quelli a cui frega davvero della musica siamo io, te e altri 30 “stronzi”, quindi c’è posto per un solo spazio che possa fare proposte in tema con i nostri gusti in maniera continuativa. Non possono esserci cinque, dieci realtà diverse e per riuscire a beccare quella che abbia tutte le caratteristiche che servono per portare avanti una cosa del genere in maniera vivibile, ci vuole una congiuntura astrale particolare. Voglio dire, un luogo che faccia solo serate techno a me sta benissimo, ma non puoi pensare che segni la storia di una città. Il Brancaleone era il Brancaleone perché c’era Agatha, la serata breaks e drum’n’bass, c’erano i concerti che facevamo noi e tanto altro: era un posto dove succedevano tante cose diverse, e in un certo senso anche il Circolo a suo modo era trasversale, nonostante non si sia mai dedicato davvero all’elettronica.


Con DNA fate concerti su tutto il territorio nazionale. Ci fai un confronto per la musica dal vivo tra Roma e Milano?

Abbiamo cominciato facendo concerti a Roma ma dopo due mesi ci siamo resi conto che l’unica era fare tournée, cercando di coprire il territorio nazionale che già è piccolo di suo: è stata una delle prime decisioni che ho preso e a oggi rimane probabilmente la più sensata. Lavorare solo su Roma sarebbe da suicida, fare concerti a livello nazionale è ciò che ci consente di rimanere a galla, non solo perché allarghi il bacino di utenza, ma anche perché le dinamiche che ci sono a Roma non ci sono da nessun’altra parte. Fare i concerti a Milano rispetto a Roma è uno scherzo… Capisco che chi lavora su Milano si lamenti comunque delle istituzioni, ma il motivo è che non li supportano molto; qui però il problema non è che non ti supportano, ma che ti mettono i bastoni fra le ruote per supportare qualcun altro che non c’entra un cazzo con il lavoro che fai. È come giocare una partita senza un arbitro e giocare con un arbitro che vuole far vincere l’altra squadra – e vai con il secondo paragone sportivo.


E per quanto riguarda il pubblico? Cito sempre un concerto, seppur recente, dei Tame Impala ai Magazzini Generali di qualche anno fa in cui rimasi sconvolta dal fatto che in prima fila ci fossero un sacco di ragazzine che a Roma sono certa non ci sarebbero state. Non so se è una questione di hype o proprio di approccio diverso alla musica live, che forse interessa più su larga scala.

Ti dico come la vedo, mi sembra un po’ la differenza che c’è tra i musicisti in Italia e in Inghilterra: i primi, pure se sanno fare 3 accordi con la chitarra si sentono dio, mentre i musicisti in Inghilterra non si sentono diversi da chi fa il cuoco, il dottore o il postino. Chi va ai concerti a Roma si sente parte di una specie eletta investita da una luce divina, chi invece va ai concerti a Milano lo fa come fa tante altre cose, ma senza starla tanto a menare. A Milano anche la comunicazione è più facile perché le persone si informano, vogliono sapere cosa succede in città; a Roma sempre mille obiezioni sul biglietto, le tempistiche, le location. Qua, la differenza tra i concerti che facciamo e una bella festa esclusiva a me sfugge: le persone si comportano nei confronti della musica live come se fossero a una festa, si aspettano che sei tu che li inviti. E qui si apre tutta la scottante parentesi degli accrediti – come se alla fine si pensasse “Ma che fai una festa a casa tua e non inviti me e i miei 10 amici, ma che stamo a scherzà?”. Tant’è che la gente che poi vedi ai concerti è sempre la stessa, a parte quelli che per qualche motivo diventano degli eventi, tipo St. Vincent la scorsa settimana a Villa Ada: 2300 persone, 1600 in più rispetto alla data a novembre all’Auditorium. A Roma si creano questi eventi a cui tutti devono esserci: si era sparsa la voce che c’erano “questi St. Vincent” e in quel momento bisognava per forza andare. Sono stato a casa di persone che senza sapere che facevo mi hanno detto “Ma tu sei andato a sentire questi St. Vincent, ma chi sono? Come mai tutti stanno in fissa e io non so neanche chi sono?” E io pensavo, “Se solo lo sapessi…”. Ma sono eventi che succedono a intervalli irregolari, come Charles Bradley due anni fa all’Angelo Mai: che cazzo vuol dire cinquemila persone che dovevano “Vedere assolutamente questa macchina del soul”, senza poi sapere chi fosse lui, cos’è il soul, senza aver mai visto un nero in vita loro! Peccato non sia tornato l’estate scorsa, perché avevo scommesso con tutti quelli che conosco che non se lo sarebbe cagato nessuno. Era successo che quella sera tutti dovevano vedere Charles Bradley, ma poteva essere un evento qualunque: te che ti laureavi, la mia festa di compleanno, poteva essere che andavamo a vedere il derby a casa di un amico, ma poi questi eventi non lasciano nulla di buono in realtà. Ripeto, a Milano mi sembra ci sia un po’ più di equilibrio, non succede che ti aspetti 1000 persone e invece ne fai 5000 o 30, fai sempre più gente che a Roma, i biglietti li vendi sempre di più in prevendita. Poi in realtà Roma è una città in cui alla fine puoi lavorare, perché in posti come Napoli o Genova è praticamente impossibile. Ti faccio un altro esempio di questa tendenza che poi è tutta italiana, Arezzo Wave: all’inizio era una cosa enorme, ma andava avanti perché era gratis e chi andava poteva fare come gli pareva. Nel momento in cui è stato detto “Ragazzi, per i concerti dalle 21 a mezzanotte ci sarebbe da pagare un biglietto di 5 euro” è successa la rivolta e non c’è andato più nessuno. Ma ti pare che tu puoi fare dei festival dove sono passati Tricky, Nick Cave, Sonic Youth, gratis?

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E a questo punto ci ricolleghiamo direttamente al Siren Festival: ci racconti come siete arrivati a Vasto, a prescindere dal fatto che, per quello che hai raccontato, probabilmente Roma a oggi non è la location ideale per un certo tipo di festival?

Il Siren è un’idea non nostra ma di un pazzo da legare che si chiama Louis Avrami, tecnico informatico del New Jersey di oltre 50 anni, che 20 anni fa venne in vacanza a Vasto e rimase legato a questo posto perché gli piacque molto, ci continuò a tornare finché non gli venne l’idea di farci un festival. Ne parlò con Barry Hogan del festival inglese All Tomorrow’s Parties, che conobbe quando c’era stato l’ATP a New York attraverso una radio locale per cui lavorava, lo portò a Vasto e rimase anche lui estasiato, anche perché a quei tempi c’era l’idea di fare un ATP in Italia e gli sembrò il posto perfetto. Fu quindi Barry, con cui già ci conoscevamo perché da tempo si parlava di fare qualcosa in Italia, a dare il mio contatto a Louis. Lo presi prima per un matto per email, poi per telefono, poi a maggior ragione di persona, ma anche per cortesia decisi di andare con lui a Vasto. Era l’estate 2013 e in effetti passeggiando per la città vidi subito delle potenzialità e dissi a Louis “E va bene, famola sta cazzata!”. In realtà da tempo ero convinto che ci volessero più cose così in Italia, sentivo che c’era bisogno di lavorare in questa direzione – del resto se vedi negli altri Paesi quanti festival ci sono, è inevitabile pensare “Beh a qualcosa serviranno”. E devo dire che lo scoglio più difficile è stato superare la resistenza di chi lavora con me in ufficio (risate, NdR). Tutti a DNA mi hanno preso per matto totale. La prima volta che li portai a Vasto, però, notai proprio un cambio di espressione sul loro viso tra l’andata e il ritorno: da che sembrava stessimo andando al macello, al ritorno gli si era accesa una luce, erano già uscite mille idee di cose da fare. Pensai che se ero riuscito con loro, convincere il resto d’Italia sarebbe stato uno scherzo. La scorsa edizione è andata abbastanza oltre le aspettative e tra una settimana vedremo come andrà quest’anno.

Siren-Vasto-2014
I Giardini d’Avalos


La verità è che, essendo in Italia, se qualcuno mettesse su un festival pazzesco con tutti nomi nuovi super fichi e band di culto, non ci andrebbe nessuno. Non ti chiedo quindi come scegli i nomi in line up perché credo sia un aspetto legato a vari fattori, alla disponibilità degli artisti, a fare una media tra le chicche e i nomi che portano più pubblico. Quello che mi interessa sapere è come è nata l’idea del Siren, che finalmente mette insieme una serie di aspetti – legati alla molteplicità delle location, al mare e al cibo – che di rado in Italia si incontrano con musica indie e quest’anno anche con una parte più elettronica e notturna.

Secondo me la line up in un festival che funziona è l’ultima cosa, non ovviamente nel senso che si abbassa la qualità del cartellone, ma perché alla fine ci muoviamo sempre in un territorio musicale piuttosto limitato e definito. Quando sono andato a vedere Vasto con Louis avevamo una visione opposta di come dovesse essere il festival, a eccezione dell’esigenza di renderlo cittadino, del fatto che si prendesse tutto lo spazio possibile della città e la rendesse una location unica. Secondo me in Italia c’è un 100% in meno di efficienza nell’organizzazione e un 60/70% in più di folklore: se vuoi fare una cosa qualsiasi in Italia devi assecondare questa natura, non puoi immaginare un festival all’inglese o alla tedesca. Devi accettare che ci sia una situazione che se prende bene è folkloristica e se prende male è caotica. E ovviamente che ne esca fuori un bel festival in un certo senso pittoresco e che funzioni bene ci teniamo tutti, forse anche più i miei collaboratori di me. Un festival che per me è stato un po’ un esempio e che mi piace molto è Umbria Jazz, perché prende la città, oltretutto molto più grande di Vasto, e te la gestisce tutta. Che tu lo voglia o no sei comunque dentro al festival: lo ritengo molto più bello che ritrovarti in un campo di patate in cui però c’è tutto, dall’indie al gruppone agli autoscontri – una roba che in Italia, con tutti i vincoli burocratici, i pizzi e le inefficienze varie che ci sono, non si potrebbe fare. Vasto con tutti i suoi limiti geofisici, mentali e culturali delle persone dà l’opportunità di fare qualcosa di divertente per qualche giorno. E da quello che ho visto, se po’ fa’.

Vasto-Siren-Fest


Rispetto alla prima edizione, quali sono gli aspetti che puntate a migliorare?

In una parola: mare. Lo scorso anno quello che c’è andato di traverso è stato il fatto di non aver potuto fare quasi nulla in spiaggia fra maltempo, poca affidabilità da parte dei gestori degli stabilimenti rispetto a quelli che erano gli accordi presi e il fatto che non è stato subito chiaro che ci fosse una parte del festival anche giù in spiaggia – credo anche perché si trattava della prima edizione e forse abbiamo un po’ esagerato con la quantità di proposte. Ciò detto, quest’anno ho insistito affinché recuperassimo su questo aspetto, anche perché è assurdo andare in un posto di mare e fare un festival solo nella parte alta della città. In spiaggia ci saranno gli aftershow, ma ci sarà proprio il nostro lido, il Siren Beach, dove chi ha il biglietto del festival avrà prezzi speciali per i lettini e ci saranno dj, set acustici degli artisti in cartellone e aftershow la sera. E poi ci sarà anche il telo da mare del Siren – che è in assoluto l’idea più fica che mi sia mai venuta in mente. (risate, NdR) Infine, ci sarà il famoso trasporto pubblico fatto bene, e su questo garantisco personalmente, così che si potrà uscire dal concerto di James Blake ed essere con due fermate di bus in spiaggia, senza dover fare l’autostop o dover rubare una macchina.


Qual è stato il peggior imprevisto della scorsa edizione?

Un gestore di un lido a Vasto Marina dove doveva suonare Jolly Mare che senza neanche avvertirci lo ha tenuto chiuso, mandando solo tre persone della sicurezza che stavano lì esclusivamente per non fare entrare noi.

Uhm, e l’imprevisto migliore?

Matt Berninger dei National che si mette in piedi sul bancone del bar e fa la serenata alla vecchietta è stato veramente imbattibile. Mi sento anche fortunato perché ero stato dalla mattina fino a letteralmente due minuti prima chiuso dentro l’ufficio e poi sono arrivato sotto al palco, mi sono preso i ringraziamenti di Aaron o Bryce Dessner – non essendo la madre non li so distinguere – e poi sono stato quasi strangolato col filo, come tutti gli altri, da Matt che stava andando a fare fare questa cosa incredibile. A un certo punto ho creduto fosse un’allucinazione data sulla stanchezza.

Un tasto delicato: immagino che abbiate intenzione anche di far arrivare persone dall’estero, o sbaglio?

Assolutamente, anche perché se contiamo sui famosi “50 stronzi” che in Italia seguono questa musica non si potrà mai fare un festival che si tiene in piedi. Viceversa, nel resto d’Europa è pieno di persone che se gli dici musica, mare, sole, cibo buono a prezzi economici sono già là. Il nostro limite organizzativo maggiore è che la promozione internazionale non fa parte del nostro modo di lavorare e quindi stiamo piano piano provando a crescere su questo aspetto. E poi è bello anche pensare di fare vedere l’Italia a persone di altri Paesi usando la musica, che non è esattamente il nostro biglietto da visita principale. Alla fine arrivi lì e puoi trovare una sorta di Italia in miniatura, cosa che mi sembra molto più sensata di fare un festival a Roma e Milano.

Dacci un buon motivo per venire al Siren.

Mettiamola così: mi piacerebbe che tutti quelli che in Italia si professano appassionati di musica, che si lamentano che non c’è niente, e in gran parte hanno ragione, che si lamentano di come noi operatori lavoriamo, e anche qui in parte hanno ragione, ecco, vorrei che queste persone premiassero uno sforzo del genere. Poi forse facciamo una cagata e non ce ne accorgiamo perché ci siamo dentro, ma se non lo è mi piacerebbe che le persone venissero in primo luogo a verificare per capire se gli piace il Siren e che un minimo lo premiassero. Ecco, se scattasse il meccanismo “Ho aspettato fino all’ultimo ma poi quel fine settimana abbiamo avuto la svolta di una casa libera al mare di amici e siamo andati lì” veramente cambierei mestiere, non avrebbe senso, già non ce l’ha in gran parte, questo poi è uno sforzo particolare – non solo economico ma anche organizzativo e vorrei dire intellettivo, sebbene non abbiamo inventato nulla. Mi piacerebbe che se ci fosse un pubblico per questa cosa qui in Italia rispondesse presente. Se non c’è ce ne faremo una ragione. Quello che non vorrei sentire è “Ci vorrebbe un festival in Italia ma alla fine non siamo venuti e siamo andati a fare un weekend a Sabaudia”. Anche perché un festival come il Siren non è un tipo di esperienza che si può ripetere all’infinito.

Tutto il cartellone del festival lo trovate qui.