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Cristina Rizzo

La ''dancemaker'' porta al festival il suo nuovo Prélude (10-11 luglio) con un tributo a Sun Ra, le musiche scelte da Simone Bertuzzi degli Invernomuto e i costumi di Canedicoda.

Scritto da Salvatore Papa il 30 giugno 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Foto di Irene Franchi

È una delle coreografe più importanti d’Italia, attiva sulla scena sin dagli anni 90, prima coi Kinkaleri (di cui è stata fondatrice) poi in solo. Cristina Rizzo, Kristal come si fa chiamare da qualche tempo, vive oggi a Firenze, ma non è raro vederla a Bologna, città con la quale ha sviluppato uno stretto rapporto e dove hanno trovato terreno fertile molte delle sue produzioni, anche grazie a Xing, sia negli spazi di Raum che nel festival Live Arts Week. Dal 2008 ha intrapreso un percorso di sperimentazione indirizzando la propria ricerca verso la riflessione teorica e dando vita a oggetti coreografici a metà strada tra i linguaggi della performance, della danza e delle arti visive, indagando e riconsiderando pezzi di storia della danza, filosofeggiando. In questo solco si inserisce anche il suo nuovo Prélude che presenta al Festival di Santarcangelo dei Teatri il 10 e 11 luglio nel Lavatoio, una sequenza di movimenti semplici che crea il tono ritmico di un gruppo […] un’apertura a qualcosa che prenderà forma. Tre ore che corrispondono a tre momenti differenti, con un tributo a Sun Ra, le musiche scelte da Palm Wine (Simone Bertuzzi degli Invernomuto) e i costumi di Canedicoda.

L'immagine-guida di Prélude
L’immagine-guida di Prélude

Iniziamo dalle presentazioni: chi sei, quando e dove sei nata e cosa vuoi fare da grande?
Sono una dancemaker, da alcuni mesi ho cambiato il mio nome in Cristina Krystal Rizzo, sono nata a Torino nel 1965, da grande vorrei avere un giardino di cui prendermi cura.

Perché hai cambiato nome?
Ha semplicemente a che vedere con il desiderio di non autodefinirmi più come un’identità, ma come un soggetto che elabora la propria potenza e che dunque è in grado di nominarsi abbandonando qualsiasi questione identitaria, considerare l’umano come una pura intensità e non come una specie dominante.

Quando hai iniziato a danzare? E quando hai capito che quella sarebbe stata la tua vita?
Ho iniziato a danzare da quando avevo 4 anni, è sempre stata l’unica cosa che sentivo di voler fare. Ho deciso che questa sarebbe stata la strada che volevo percorrere quando all’inizio degli anni 90 sono andata a New York per formarmi alla Martha Graham School of Contemporary Dance, lì ho capito che ero particolarmente interessata alla creazione.

Qual è la tua definizione di danza? È cambiata nel tempo?
La danza è un’esperienza estetica che appartiene a tutti, in questo senso è la forma migliore per praticare l’uguaglianza. Malgrado le mie visioni si siano trasformate nel tempo, credo ancora che la danza – che intendo come “pura comunicabilità” e non come linguaggio coreografico – esprima sempre un potenziale di vita e di politica.

Ci racconti la tua giornata classica?
La mia giornata classica prevede almeno 4 ore di pratica – allenamento, prove e trasmissione – almeno 4 ore di studio teorico – letture di testi filosofici, aggiornamenti su cosa accade nel mondo politicamente e socialmente, ascolti musicali, ricerca di materiali video – almeno due ore di lavoro organizzativo e di relazione, guardare programmi televisivi per non perdere il contatto con la realtà, mangiare poco 3 volte al giorno e dormire almeno 8 ore.

Qual è l’aspetto del tuo lavoro che ti piace di più e quello che eviteresti volentieri?
Ritengo molto prezioso avere un luogo mentale e corporeo libero e aperto allo studio e alla ricerca che si amplifica e si modifica quotidianamente, di contro è molto complesso dover mediare quotidianamente con il pragmatismo e la logica del mercato che considera ciò che faccio ormai solo come un “prodotto culturale”.

Dallo spettacolo Ikea. Foto di Jacopo Jenna
Dallo spettacolo Ikea. Foto di Jacopo Jenna

Perché lasciasti Kinkaleri?
A partire dal 2008 ho deciso di uscire da una dimensione collettiva per affrontare drasticamente una certa solitudine che mi permettesse di ascoltare a tutto tondo la relazione che il mio corpo intrattiene con il mondo e assumermi così la responsabilità di essere una persona.

Come in tutti i sistemi, ci sono dei luoghi o delle persone o dei processi considerati ormai di riferimento. Tu credi in questo percorso dettato da regole, o, addirittura, da mode?
Da qualche anno ho capito che è necessario preservare dentro di sé uno spazio intimo in cui coltivare qualcosa che non è comunicabile attraverso il linguaggio, proprio perché il confronto con il sistema chiede sempre ad un certo punto una mediazione tra l’intuizione e la forma, mediazione necessaria che altrimenti niente esisterebbe, ma che allo stesso tempo non può e non deve essere l’unico parametro di valutazione delle pratiche artistiche. Personalmente non seguo regole né tantomeno mode, ma ascolto ciò che mi sta intorno, intercetto andamenti e onde cercando di farmi attraversare e riportare attraverso le immagini ciò che mi tocca. Non si tratta di essere contemporanei al proprio tempo, ma di lasciare uscire fuori tutto con un andamento centrifugo, verso l’esterno.

Quali sono gli argomenti di ricerca che più ti appassionano in questo periodo?
Preferisco nominare alcune letture: The Power at the end of the economy di Brian Massumi; After finitude di Quentin Meillassoux; Il Postumano – la vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte di Rosi Bradotti; Vibrant Matter a political ecology of things di Jane Bennett; Queer Ecology di Timoty Morton; Memorie di un cieco l’autoritratto e altre rovine di Jacques Derrida; La pittura di Manet di Michel Foucault; Immanenza di Deleuze; Michel De Certau/Utopie vocali a cura di Lucia Amara ; L’alternativa ambiente di Gilles Clement.
Mi sto anche documentando molto sull’Afrofuturismo.

Ci racconti Prélude? Da dove nasce?
Prélude è una nuova creazione, una nuova danza con 7 danzatori in scena italiani e stranieri che lavorano insieme per la prima volta. La ricerca si sviluppa su l’idea di un ENSEMBLE come avamposto politico verso il futuro. Un ensemble presuppone un’intensa vicinanza di corpi danzanti in un movimento singolare e simultaneo che rivela costantemente lo spazio della prossimità. La performance individuale, spettacolare nelle sue banali apparenze, partecipa così all’apparizione di un’immagine corporea multipla, a un’organizzazione rituale dei fenomeni energetici nel tentativo di far risuonare l’idea di un corpo che perviene a nudo su una scena come specchio nel quale riflettersi, ma anche come luogo di comunione.
Prélude è una parola presa in prestito dalla terminologia musicale che descrive una breve composizione, una partitura a sé stante, eseguita solitamente prima dell’Opera principale ed elaborata naturalmente su elementi improvvisativi. Un preludio è l’apertura a qualcosa che ancora deve prendere forma. Dalla mia prospettiva di dancemaker, amplifica la possibilità di lavorare su una qualità diversa del tempo della percezione, di aderire consapevolmente al carisma e alla casualità e ad una danza impersonale, aprendo così ad un’intimità infinitamente più ampia. Questo nuovo lavoro prosegue nel solco lasciato dalla precedente ricerca sull’espressione come pura intensità, attuata nell’ultima mia produzione BoleroEffect, ma amplifica moltiplicando le presenze corporee in scena, il desiderio di considerare la danza come un gesto leggiadro e politico allo stesso tempo, come un modo per praticare l’uguaglianza.

Bolero Effect. Foto di Ilaria Scarpa
Bolero Effect. Foto di Ilaria Scarpa

Perché il riferimento a Sun Ra?
Sun Ra con la sua Arkestra è considerato un pioniere dell’Afrotuturismo, movimento culturale che attraversa la musica, la letteratura, l’arte visiva, la cultura bassa afroamericana e non solo. Cito le parole di Simone Bertuzzi e Marta Collini a riguardo: Quando è stato coniato il termine Afrofuturismo le rappresentazioni del futuro e del dominio sulla tecnologia rimanevano soprattutto appannaggio dei bianchi protestanti. La musica di Sun Ra parla di Universo, di Concetti Universali e Astrologia. Il contributo della personale cosmologia di Sun Ra è fondamentale per una possibile comprensione dell’Afrofuturismo. E questo è da ricercare nel punto di unione tra un’idea radicale di Africa, e dunque dell’origine e del transito, che l’esperienza della schiavitù ha generato, in particolare per un afroamericano – e la tensione al futuro, a qualcosa di inspiegabilmente extra-terrestre. Rappresentare un soggetto afroamericano in controllo di avanzate forme di tecnologia, significa aprire altri orizzonti di senso rispetto a un futuro che sembra già di proprietà del potere tecnocratico vigente. Chi rimane fuori può, tuttalpiù, appropriarsene e dirottarne gli strumenti per scopi eversivi, per produrre suoni visionari e innovativi, connettendo la tecnologia al linguaggio tramite benedizioni, manipolazione dei nastri registrati e rituali inventati.
Sun Ra è dunque un riferimento che mi ha aperto delle risonanze di senso molto ampie su come tornare a considerare l’esperienza estetica come potenziale trasformante, ma anche come produzione di un’immagine che ha sempre molto a che fare con la concezione e la continuità della storia, con la sua gestione comunitaria e la sua profonda relazione con il presente.

La musica è affidata a Simone Bertuzzi/Palm Wine e i costumi sono di Canedicoda. Come li hai conosciuti?
Conosco Simone Bertuzzi/Palm Wine e Canedicoda da molti anni, entrambi hanno seguito il mio lavoro dai tempi di Kinkaleri; c’è sempre stata una stima reciproca, amo molto l’ardire artistico di entrambi.

Quali sono gli artisti con cui hai lavorato meglio e quelli con cui ti piacerebbe collaborare?
Gli artisti con cui ho tracciato dei percorsi sono molti, mi va di nominare Michele Di Stefano, Ezster Salamon, Riccardo Benassi, il gruppo di ricerca Open, Marten Spanberg, Lucia Amara. Vorrei collaborare con Anne Therese de Kaesmaker, Yvon Rainer, Philippe Parreno.

Techno Casa Plus, in collaborazione con Riccardo Benassi, al Museion di Bolzano
Techno Casa Plus, in collaborazione con Riccardo Benassi, al Museion di Bolzano

E gli artisti italiani più interessanti in questo momento?
Invernomuto, Jacopo Miliani, Margherita Morgantin, Riccardo Benassi, Luca Trevisani, Sara Manente, Roberta Mosca.

Lo spettacolo più bello che hai visto ultimamente?
Sono tre: Natten di Marten Spangberg, The concept of dust, or how do you look when there is nothing left to move? di Yvon Rainer e Vortex Temporum di Anne Therese de Kaesmaker.

Chi sono le persone che ti legano a Bologna?
Sono legata a molte persone che vivono a Bologna, sono legami che si sono sviluppati nel tempo attraverso la condivisione di pratiche di lavoro, di pensiero rispetto al mondo e di vita. Silvia Fanti (Xing, ndi), per esempio, ha seguito il mio percorso dall’inizio, nel ’95 quando sono tornata in Italia e ancora esisteva il Link e la programmazione che la Fanti stessa curava all’interno della “Sala Bianca”. Ma ci sono anche Lucia Amara, Flavio Favelli e tanti altri. Bologna è sempre stata una città dove a differenza di Firenze, che è più votata al turismo, è sempre stato possibile trovare spazi per la sperimentazione politica ed artistica.

C’è fra i tuoi lavori uno a cui sei più affezionata? E perché?
Sono due: My Love for you will never dye lavoro del 2001 di Kinkaleri, perché ho capito che attraverso la danza potevo occuparmi di filosofia e Dance N°3 perché è stato il primo lavoro che ho fatto quando sono uscita da Kinkaleri.

Ti è mai capitato di ritrovarti davanti a un pubblico fastidioso? E cosa ti aspetti in genere da uno spettatore?
Credo fermamente che tutti siano in grado di guardare tutto, l’arte non deve essere capita ma deve produrre uno spostamento misterioso, un friccicolio nel corpo, permetterti per un istante di abbandonarti. Trovo noioso un pubblico che non è più capace di guardare l’immagine senza aspettarsi niente in cambio, che vuole solo riconoscersi in ciò che vede o peggio ancora partecipare senza sentire niente.

Il tuo posto preferito a Bologna?
Amo intensamente Bologna, è la città in Italia che preferisco. Ultimamente ho scoperto le Serre dei Giardini Margherita.

Hai altre passioni?
Dipingere.

Chi è il tuo eroe?
Amore.