Quasi un anno fa avevo visto Thomas Berra all’Edicola Radetzky, con il progetto Subculture Fanzine: che metaforicamente, con le cento fanzine prodotte dagli artisti che aveva coinvolto irradiate da una densa luce verde, si potrebbe considerare un momento di transizione tra la fase precedente del suo lavoro, coloratissima e densa di immagini eterogenee, e quella che lo ha portato a concepire una mostra come Dopo il diluvio, monotematica e monocroma: il soggetto sono le piante e il colore, di conseguenza, è verde. Solo verde.
A spingere Thomas dall’underground, dagli inferi dei neri e rossi e gialli, delle figure accatastate su fogli, muri e tele a questa serie ordinata di riposanti vegetali è stata la lettura di Gilles Clément, le jardinier engagé, il rivoluzionario teorico del Terzo paesaggio e del Giardino in movimento e autore in particolare dell’Elogio delle vagabonde, un libro che esalta la forza entropica delle erbacce, delle piante incolte, dell’adattamento nomade contro l’ordine, la conservazione, il controllo della purezza.
ZERO: Thomas, che mostra è questa?
Thomas Berra: Sono una trentina di lavori piccolini, le vagabonde di Gilles Clément, e poi qualcuno fuori dimensione
Perché ne hai fatte una trentina?
Nell’Elogio delle vagabonde Clément individua una decina di queste piante più resistenti, che si diffondono in ambienti estranei, e allora sono andate a cercarle, le ho dipinte, ma non in modo mimetico. Le ho usate come un punto di partenza, le ho elaborate, incrociate.
Hai prodotto mutazioni genetiche?
Si, ma sono venute bene
Di che piante si tratta?
Il tasso barbasso, le enagre, gli onopordi, la camomilla bastarda. La Panace Mantegazzi, mi è rimasta più impressa perché è letale, è tossica, se la tocchi può portare ustioni, cecità e morte, e perché ha un nome così lombardo, quasi gaddiano.
Però lui la elogia
Perché è bellissima, e perché è vagabonda. È stata portata in Europa da due botanici nel 700, e poi una volta arrivata è esplosa
E da allora continua a ustionare la popolazione?
Si, soprattutto bambini. In svizzera c’è una grandissima campagna per individuarla, estirparla, bruciarla. Poi ci sono le ortiche, che sono stupende e sono il simbolo di tutte le altre, perché sono infestanti e incontrollabili, producono radici così estese che non è possibile annullarle a meno che non bonifichi il terreno. Ora stavo guardando un documentario dove Clément parla delle ortiche, e racconta com il Re Sole, quello dell’après moi le deluge, avesse tentato tutta la sua vita di ottenere il giardino perfetto, per estendere la sua idea di dominio anche sul mondo vegetale, sull’ambiente, oltre che sui sudditi. Il giardiniere di corte più tardi ebbe a dire: «Il Re Sole ahimè è morto, ma le ortiche resistono»
Tu dipingevi palme da molto tempo
Si ma loro non sono adattabili, anzi poverine oggi muoiono
E come sei arrivato al libro?
Me l’ha dato un mio amico, Roberto Gelini, giardiniere filosofo, personaggio incredibile. Ho iniziato a leggerlo e sono impazzito, come anche per quello che mi hai consigliato tu sulla flora ferroviaria di Ernesto Schick, pubblicato da HumboldtBooks.
Rousseau il doganiere è stato un’altra fonte di ispirazione incredibile, per i suoi paesaggi fantastici. Sono anche andato a cercare, in pieno trip, tra i suoi scritti e lettere, ma quello che ho trovato sono quasi esclusivamente richieste di soldi. «Caro Pablo, sono passato dallo studio ma non c’eri, avrei proprio bisogno di un prestito», così proprio.
Era un dissipatore o un disperato?
No. disperato. L’unico che gliele comprava era Picasso, che poi le ha rivendute a Beyeler.
Ma come l’hai pensata questa mostra? sarà una mostra ad accumulazione, come quelle da Room Gallery?
No, per questo è passato anche tanto tempo dall’ultima mostra: quella era un’opera unica, c’era tutto di me, non erano pezzi, sarebbe stato superfluo fare un progetto nuovo
Noi siamo circondati continuamente da piante, fiori, ma non ci facciamo caso, perché restano un ornamento, uno sfondo. Questa presenza mi ha fatto scattare qualcosa, a cui poi si sono aggregate le suggestioni di Clément, di Rousseau, tutto. Sarà una mostra ordinata, non espongo neanche tutti i lavori, perché sono troppi. È un elogio a un unico colore, il verde: è un’immersione nel verde. La scelta di farlo a Villa Vertua in Brianza, degli anni 30 e immersa nel verde, con i suoi spazi rotondi, dove dovunque ti volti vedi verde, è una mise en abyme.
La cura Simona Squadrito?
Si, lei è stata fondamentale: ci siamo conosciuti alla mostra da Charley, e mi ha aiutato tantissimo sulla pittura, sulla concezione delle idee. Una mostra stupenda era quella del suo ex marito, Elia Gobbi, un lavoro sulle piante straordinario.
L’unica cosa che ho visto dal vivo di te prima era la mostra all’Edicola Radetzky, sulle fanzine, ed è uno choc cromatico: lì (anche se erano illuminate da una luce verde, in effetti) era un turbinio di colori, qui hai fatto un passaggio serissimo.
È una mostra radicale! Come ha detto il mio amico Pinya: «complimenti Thomas, esta es una mostra muy radical. Ahah!
Insomma, ti è venuta questa passione per un tema piuttosto politico – le vagabonde – e ti ho visto viaggiare molto, ma mi pare che tu sia un animale da studio: lavori in immersione da solo.
Si è vero, anche quando viaggio cerco poi sempre un posto dove appartarmi e dipingere, anche a Chicago e naturalmente a Tangeri era così
Ma tu lavori comunque, per una necessità quotidiana, o lavori solo sotto lo stimolo di un progetto?
No, è un’attività continua, poi naturalmente se uno ha un progetto procede con un’altra velocità, ma ti manca quell’altro tipo di lavoro, quello libero. Per esempio ora che svuoto lo studio per portare i quadri a Villa Vertua ho proprio desiderio di mettermi qua, imbiancare e ricominciare da zero senza uno scopo preciso.
Come hai cominciato?
Qua a Milano andavo al liceo scientifico, poi già in terzo liceo andavo in accademia quando bigiavo, perché lì vendevano il fumo. Col freddo ci rifugiavamo nell’aula di Luciano Fabbro, ma lui si incazzava perché diceva che eravamo troppo giovani per stare lì. Ce l’ho sempre avuta questa esigenza di disegnare, facevo anche i muri, i treni, street art.
Che cosa è successo in questi dieci anni da allora? Dopo l’accademia non hai fatto molte residenze, per esempio: direttamente mostre, o sbaglio?
Sono stato a Chicago, prima ancora a Tangeri, in una residenza organizzata da Tabadoul, un’associazione di Silvia Coarelli. Il primo bando era stato colto al volo dal mio amico Matteo, che mi ha coinvolto. In realtà era la prima residenza ma è stata anche ultima, si è conclusa li.
Ma era libera, non dovevi fare relazioni, stavi lì ti confrontavi con lo spazio, lavoravi, etc
Si, invece quella di Chicago era strutturata in modo classico, con mostra finale (ho riproposto il Ciao). E poi ne ho vinto una in Danimarca a settembre.
Dove vai a bere?
Peppuccio, Carlo e Camilla. Dove fanno molto bene da bere. Mangiare al Bellaria, fuori dalla porta di casa. E poi cucino molto io.
A ballare vado alla Balera e al Glitter, ma per lo più mi trascina Rossella.
Parlami di quando ti è presa la passione per Gino de Dominicis.
Quando avevano messo lo scheletro davanti al Duomo. Uscivo dalla galleria e sono rimasto scioccato. Da allora è stata una passione. Con Toni Fiorentino abbiamo poi fatto quest’estate un pellegrinaggio dall’ultimo posto dove era stata esposta la calamita cosmica fino al luogo dove è stata collocata in pianta stabile. Una fruizione lenta dell’opera. Vorremmo organizzare tour turistici. Quando ci hanno visti arrivare ci hanno accolto stupiti (per i bastoni, gli zaini) e ci hanno fatto entrare gratis.
Ti piace lavorare insieme ad altri? Tra i tuoi coetanei chi coinvolgi più spesso nei progetti?
A parte Subculture Fanzine, che coinvolge 100 artisti, e che spero diventerà una pubblicazione. Fin dall’inizio durante l’Accademia avevamo fondato The Bag art Factory, la prima factory di street art a Milano. La regola era che condividevamo tutto, infatti a un certo punto non ci invitavano più perché eravamo troppi.
Poi Tony Fiorentino, Bruno Marrapodi. E poi faremo una vetrina a marzo a Roma: Simona ha curato un progetto con Operativa Arte Contemporanea. È una vetrina su strada con spazio espositivo, senza cs, senza opening.
Partecipi a StudiFestival?
Penso proprio di si.