Violoncellista e compositore, figlio d’arte (di Franco Mussida, chitarrista della Premiata Forneria Marconi), con un percorso artistico («Un viaggio alla scoperta di me stesso») partito dalla formazione jazz e giunto all’esplorazione di diverse tradizioni e linguaggi musicali – legati all’elettronica, alle tecnologie e alla performance – passando attraverso la musica sinfonica, da camera, per il teatro e il cinema, il pop (come autore per Sugar e produttore dell’esordio di Sylvia per Inri, Senza fare rumore), i jingle per la tv ma soprattutto la musica contemporanea. Sandro Mussida oggi vive a Londra, ma le sue radici sono a Milano: in occasione di Tutto Questo Sentire, progetto che per la prima volta trova un’espressione a porte aperte a Roma, gli abbiamo chiesto della sua formazione, delle esperienze fatte sull’asse Milano/Londra, del rapporto con la tradizione, John Cage e Mark Fell, dell’esperienza con Hurla Janus e del senso profondo di un esperimento come “Tutto Questo Sentire”. L’intervistatrice è d’eccezione: una musicista e amica con cui ha anche condiviso una parte di quel percorso, Alessandra Novaga.
ALESSANDRA NOVAGA: Presentiamoci.
SANDRO MUSSIDA: Mi chiamo Sandro Mussida, sono violoncellista e compositore milanese direi sia d’origine che d’adozione, ultimamente ho casa a Londra.
Saltando la parte in cui “sei nato in una famiglia che il pane in tavola l’ha sempre messo grazie alla musica”, ricordi un momento particolare in cui hai capito che la musica sarebbe stata al centro dei tuoi interessi?
In casa ho sempre respirato musica, ho quindi avuto bisogno di sperimentare altre cose prima di capire che sarebbe stata proprio quella la mia strada. All’inizio ero interessato più che altro al Mondo, ho anche studiato Scienze Politiche. Crescendo in una famiglia e in un ambiente che mi hanno dato una quantità di stimoli incredibili, per me, il lavoro, è stato quello di percorrere una lunga strada per cercare la mia identità. Da ragazzino dopo aver assistito al concerto di un violoncellista ho detto a mio padre: «Io voglio suonare il violoncello, ma non proprio in quel modo …».
Quindi da subito hai manifestato una certa versatilità, qualità che a mio avviso ti rappresenta ancora oggi.
Sì, ho iniziato a studiare il violoncello classico, ovviamente, ma a scuola lo suonavo improvvisando, nelle pause, con mio fratello, che suonava il violino.
Passi successivi nella tua formazione?
Ho studiato pianoforte, jazz e orchestrazione per molti anni, proiettandomi nel mondo delle orchestrine di New Orleans; ho attraversato il progressive, le musiche per film, il pop, e tutto questo mi è stato portato da persone che facevano, ognuna nel suo ambito, un viaggio totalizzante. Per me, invece, era un viaggio alla scoperta di me stesso. Poi ho capito che quello di cui avevo bisogno era dare un’organizzazione al tutto. A un certo punto devi scegliere, devi capire qual è la tua vena, quella che ti rappresenta, e quindi ho fatto una scelta d’istinto e di volontà. Nonostante fossi abbastanza adulto per farlo, sono tornato sui banchi di scuola e mi sono iscritto al corso di Composizione alla Scuola Civica di Milano studiando prima con Roberto Andreoni e poi con Giovanni Verrando. Per me è stato molto importante studiare Composizione dopo aver fatto il giro del mondo, musicalmente parlando, ed è stato sul finire di quel percorso che ho incontrato te ed Elio Marchesini (percussionista della Scala, NdR).
E così è nato Hurla Janus. È stato un momento intenso per noi. Abbiamo trascorso molte ore, molte serate a parlare, a ragionare sul perché iniziare un’avventura così, su cosa cercavamo per noi e cosa pensavamo mancasse in una città come Milano dove già accadeva molto.
Avevo messo in ordine tutta la mia curiosità, i miei stimoli, tutti gli alfabeti che avevo appreso, ho quindi pensato che ero pronto a dire la mia e Hurla Janus è stato il mio primo banco di prova in quel senso.
Abbiamo fatto molte cose belle, ripensandoci. Abbiamo provato a riempire quello che a noi sembrava un vuoto. Volevamo creare una zona franca in cui la musica contemporanea e quella che possiamo definire una musica di ricerca o anche improvvisata, convivessero, al di fuori, però, dai luoghi deputati, soprattutto alla musica contemporanea.
E di cose ne abbiamo fatte in effetti. Quella più importante, quella che ha avuto in effetti un grande impatto, è stata la maratona che abbiamo organizzato per il centenario di John Cage, in Triennale.
Ricordo che all’improvviso ci siamo resi conto che in quell’anno a Milano si erano organizzati molti concerti che includevano musiche di Cage, ma nulla che avesse un focus proprio su di lui.
Infatti, e così ci siamo detti che, dato che Cage era forse il riferimento più forte che aveva Hurla Janus, eravamo proprio noi che dovevamo organizzare qualcosa di grande. È stata una giornata magnifica in cui abbiamo invitato molti musicisti – e non – a partecipare con noi, e l’affluenza di pubblico è stata pazzesca per tutto il giorno e tutta la sera.
Eravamo appena stati a New York. A St Mark’s Church abbiamo suonato un programma tutto italiano, Davide Mosconi, Fausto Romitelli, il tuo pezzo bellissimo scritto e suonato sulla voce di Carmelo Bene.
E poi i due concerti che abbiamo organizzato a Teatro i. Janus 9, in cui abbiamo creato un brano basato sull’accumulazione delle nostre improvvisazioni registrate in tempo reale in un sistema di feedback, e poi i Tierkreis di Stockhausen.
A proposito di Stockhausen, come compositore, che rapporto hai con la tradizione?
Penso che ogni tempo porti con sé delle domande e delle risposte diverse. Ho sempre trovato insostenibile le mode vintage degli anni 60, quelli che fingono di essere Luigi Tenco, o Luciano Berio o Bruno Maderna. Penso che ogni artista sia interessato a conoscere quello che gli altri simili hanno fatto. Attraverso l’Accademia ho scoperto cosa è successo prima, la scuola serve proprio a insegnarti cosa ha fatto chi ora non c’è più, ma che con noi non c’entra più nulla. La cosa bella dello studiare la musica è quella di entrare in contatto con altre persone che hanno dato risposte diverse dalla tua, ma che erano legate al loro tempo. Ogni tempo ha la sua percezione, i suoi bisogni, i suoi luoghi di fruizione e i suoi strumenti e credo che la Scuola serva a questo, a confrontarti con altri che hanno fatto quello che vuoi fare tu, ma lo hanno fatto in altre epoche. Ed è normale che la scuola sia conservatrice, la scuola ci sforna conservatori, sta a noi diventare esseri del nostro tempo. Credo che di fatto il cammino artistico sia un cammino individuale, quello che fai lo fai per te, anzi con te. A quarant’anni posso dire di conoscermi un po’, e mi rendo conto che quello che mi ha dato sempre una spinta nell’andare avanti è una grande curiosità, penso sia anche questione di quale sia la tua natura.
Sono d’accordo con te, ma non pensi anche che oltre alla “natura” di ciascuno di noi ci sia anche una specie di responsabilità personale che ognuno ha nel rendere la propria vita interessante?
Certo, infatti nei momenti in cui sento di non avere curiosità me le vado a cercare, e questo è proprio il motivo per cui sono andato via da Milano.
Allora parliamo un po’ di Milano e di Londra, che è la città in cui vivi ormai da due anni. Spesso io e te abbiamo parlato del fatto che nella nostra epoca non esistono più luoghi in cui “succede tutto”. Nell’era della comunicazione interplanetaria e dei voli low cost, si può vivere ovunque pur essendo connessi con quello che ti interessa. Ma di Milano e della sua scena musicale cosa pensi?
Intanto penso che esistano tante scene, più o meno grandi. Quella che accomuna me e te, per esempio, è quella in cui si fa più che altro musica di ricerca, e io identifico come luogo che fa da fulcro di un certo movimento, O’.
Aggiungo Standards, che tu non conosci perché è nato mentre eri già lontano, e anche Piano Terra o Macao.
Però se devo dire la verità, la mia Milano è stata anche quella della Scala e dei concerti al Conservatorio o all’Auditorium Mahler, ma anche le sale prova rock sparse ovunque, i locali jazz degli Anni 90, ma anche Hangar Bicocca o Agon con la tradizione elettroacustica colta. Il lavoro fatto insieme a Michele Tadini, Giorgio Sancristoforo e il gruppo Agon su Alan Turing in Turing, a staged case History, per la regia di Elisabetta Marelli al Piccolo Teatro Studio, è stata una bellissima esperienza! Da londinese, poi, parlare di Milano è parlare di una città che mi ha offerto una formazione solida da un punto di vista classico, e che mi ha dato un’inquadratura che definirei di tipo intellettuale-teorico. Milano è una città pazzesca in questo senso; la tradizione culturale che io ho incontrato attraverso lo studio in Civica non ha paragoni. È una città che ha una grande tradizione nella musica contemporanea, più che nella musica di ricerca di stampo americano, improvvisativo o elettronico, o perlomeno questo è quello che ho incontrato io. Per quanto molte volte mi annoiassi all’ascolto dei concerti di Milano Musica o di Sentieri Selvaggi, li ringrazio per esserci stati! Non era un sistema deleterio in quanto tale, semmai, deleterio, in una città come Milano, è che non ce ne siano dieci, di sistemi diversi, anziché uno o due!
Tornando ai motivi per cui ti sei trasferito a Londra?
Penso che ci siano delle condizioni in cui ciascuno di noi dia il meglio di sé, e credo che uno debba andarsele a cercare. Ci sono artisti che hanno una naturale predisposizione nel crescere intorno a una data situazione; penso che ci sia anche una forma di coraggio nello stare sempre nello stesso punto, nell’essere pervicaci, nell’essere ripetitivi ed essere sempre presenti nella stessa scena. Io credo di essere una natura più solitaria invece, e impaziente. Non nego affatto che abbiamo bisogno degli altri anche per la nostra ricerca personale, ma io, per dare il meglio di me, ho bisogno di trovarmi in una situazione un po’ scomoda, in cui sono costretto a mettermi costantemente alla prova, e Londra, come sai, dà la possibilità di confrontarsi non solo con una scena, ma anche con una cultura e con un modo di pensare molto diversi dal nostro e poi da un certo punto di vista, a Londra ho capito cosa significa essere un violoncellista, un compositore, che ha assorbito la cultura italiana o la cultura internazionale, attraverso la sensibilità italiana.
A Londra, insieme a Olivia Salvadori (di cui parleremo dopo), curi una serie alla Hundred Years Gallery che si chiama “New music from Milan”.
Sì, ormai da un anno e mezzo, ogni mese, organizziamo un concerto in cui collaboriamo con musicisti di Londra. Finora abbiamo coinvolto i flautisti e polistrumentisti Jan Hendrickse e Clive Bell, gli archi Joe Zeitlin e Anna Virr, ma lavorato anche con il dj produttore Tribe Of Colin o sperimentato con la binaurale e il pubblico in cuffia.. New Music from Milan era in realtà l’oggetto della prima email che ho mandato a Graham Mac Keachan, il curatore dello spazio. L’abbiamo trovato in cartellone e da lì è rimasto come nome della serie! È un’esperienza piuttosto stimolante che proseguirà anche la stagione prossima. La gallery è un piccolo spazio, ma è perfetto perché ci offre in modo molto rilassato la possibilità di provare cose diverse.
Uno dei motivi per cui ti voglio molto bene, è che mi hai scritto un pezzo bellissimo! In Memoria (e devo sempre stare attenta a mettere la virgola tra il titolo e “di Sandro Mussida” ahahaha).
È un pezzo che mi piace così tanto che l’ho registrato ben due volte su due dischi diversi, la prima volta su La Chambre des Jeux Sonores (Setola di Maiale), la seconda volta, in una nuova versione più lunga, sull’LP Movimenti Lunari (Blume). Ora sono in trepidante attesa di un nuovo pezzo che stai scrivendo per me e per un chitarrista che io amo molto (che svelerò più avanti) e devo bacchettarti perché sei già molto in ritardo nel consegnarcelo … Vorrei che tu ci parlassi, nei limiti del possibile, del tuo processo compositivo. Dalla tua musica, per me, si percepisce sempre un desiderio di qualcosa che somiglia a una sorta di “ordine universale”.
Lo sai che sono lento! E poi nell’atto stesso del comporre non faccio a meno di sentire sempre una grande responsabilità, davvero! Non sono mai stato tra quelli che prendono la penna in mano e iniziano a scrivere per poi seguire il tratto. Mi piace troppo pensare che creare una composizione sia creare un mondo. Questo non deve significare necessariamente creare qualcosa di nuovo, ma qualcosa che sia profondamente tuo, si! Se ciascuno di noi riesce a essere in comunicazione con se stesso, allora il proprio lavoro rispecchia la propria unicità. Questo lavoro alla fine, per me, è sempre una ricerca interiore. E’ per questo che cerchi di rifuggire dagli alfabeti o le forme già conosciuti, credo. Poi mi esprimo con quello che conosco, e visto che la sensazione di non conoscere mai abbastanza il suono e la musica mi accompagna costantemente, ogni commissione è un’occasione di studio e immaginazione troppo ghiotta per non dedicarvici del tempo! E poi ho iniziato così tardi a comporre musica mia, che non mi faccio certo prendere ora dalla fretta! (risate, NdR)
Da dieci anni collabori con Olivia Salvadori. Ce ne parli?
L’incontro con Olivia per me è stato importantissimo sia a livello artistico che a livello umano. È una soprano lirico-drammatico che porta con sé sensibilità, desiderio di ricerca e una profonda dote comunicativa, con in più una tecnica incredibile! Lavorare insieme ha unito in modo naturale il comune desiderio di esplorare la forma canzone, che per me poi è stata sempre una delle forme più familiari. È stato molto interessante perché è capitato dopo che avevo studiato i vari linguaggi della musica pop-jazz-afroamericana, contemporanea, quelli classici o avanguardisti, la lezione di Berio con il recupero del folk; mi si è quindi presentata l’occasione di aprire una strada e di provare a percorrerla. Abbiamo iniziato un percorso che dura da anni, e, come è successo con Hurla Janus, è stato un incontro sincronico. Ci siamo subito resi conto che avevamo bisogno di tempo per fare la nostra ricerca insieme, forse con lei ho in comune proprio questa lentezza, o meglio una certa percezione del tempo. In realtà sono nate subito delle composizioni che suoniamo ancora adesso. Abbiamo iniziato a indagare e provare le diverse possibilità di far incontrare la tradizione lirica, che era la sua impostazione, e i suoni organizzati attraverso un linguaggio contemporaneo, che era più il mio mondo. A me ha fatto bene questo trovare davanti a me qualcosa di nuovo, qualcosa anche di scomodo e spigoloso, come può essere il canto operistico! Il primo viatico è stato quello di lavorare con Nanni Balestrini, poeta della transavanguardia italiana, con la parola. A circa dieci anni dall’inizio della nostra collaborazione, per Sony Classical, uscirà Dare Voce, un disco che raccoglie alcune di queste esplorazioni della vocalità lirica a confronto con la forma canzone internazionale e storica. Alla fine, se ci penso, con tutte le collaborazioni di cui ci siamo avvalsi, è un anche un po’ la sintesi dei miei vissuti milanesi. C’è il mondo del jazz con Massimo Colombo o Giulio Corini, molto della musica classica cittadina con molti scaligeri tra cui Stefano Cardo, Livia Rotondi, e ovviamente non sarebbe esistito senza Elio Marchesini ai timpani e tutte le percussioni, ma anche il mondo della musica avant-rock con Enrico Gabrielli al sassofono o Livio Magnini alla elettrica. Io stesso ho suonato gli Hammond e il Fender Rhodes. Con Sony abbiamo scelto “classica”, dovendo farlo, perché in fondo non poteva essere uno solo degli altri generi senza avere un po’ anche di tutti gli altri. Quasi paradossale, se pensiamo a quello che per molti rappresenta questa parola.
Sempre con Olivia e con Rebecca Salvadori, videomaker che vive a Londra da molti più anni di voi, nel 2014 avete ideato un progetto di residenza, Tutto Questo Sentire.
Si, proprio con chiusura del disco è nato TQS, grazie all’incontro con una persona che ha creduto in questo progetto e ci ha incoraggiato a proseguirlo, a ripeterlo mettendoci a disposizione spazi e mezzi per concretizzare nuove cose: un vero mecenate. Per noi, TQS è come un proseguo di quella esperienza: la volontà di far incontrare, in uno stesso luogo, musicisti che arrivino da tradizioni e da culture diverse tra loro, cercare di togliere la sedia della sicurezza, togliere la certezza della prevedibilità, rischiare di creare una tensione, se vuoi anche non essere certi di riuscire è una condizione importante della creazione. Anzi, fondamentale! Abbiamo trovato un posto neutro, ma non uno qualunque, anzi! È una dimora isolata dove si respira una cura del dettaglio unica, che ci permette di sentirci scoperti, nudi, che ci permette di sentire che ogni gesto, ogni pensiero, ogni suono, è davvero nostro. Noi musicisti dovremmo lavorare nel silenzio, ma trovare il silenzio è davvero difficile. Là a Capalbio, dove fino ad ora ha avuto luogo TQS, il silenzio c’è; lì c’è la sensazione che i gesti vengano amplificati, e così la percezione e l’apertura verso gli altri. È una dimensione straordinaria.
Ci dici qualcosa delle due edizioni passate?
La prima ha permesso la collaborazione tra persone che vengono dall’ambito classico e musicisti come Mark Fell, totalmente elettronici o Andre Vida, sassofonista e compositore americano della scuola di Anthony Braxton. Nella seconda, nella quale c’eri anche tu, abbiamo invitato una danzatrice americana, Brittany Bailey, John Colpitts (Kid Millions), il percussionista della drone rock cult band Oneida e vicino a loro un giovane dj/producer londinese della scena NTS (Tribe Of Colin). Sulla carta in entrambi i casi una follia, ma solo se non si pensa che andare a fondo di una ricerca è di per se un elemento di unione e collante creativo, più forte del fatto che io parlo un’altra lingua musicale rispetto a te. Quest’anno, oltre a me, Olivia e Rebecca, tornerà Mark, ci saranno anche Jan Hendrikse da Londra, Oren Ambarchi dall’Australia e Crys Cole dal Canada.
Visto che hai nominato Mark Fell, ci parli un po’ della collaborazione tra voi due?
È nata proprio durante la prima edizione di TQS; incredibile come, proprio con la persona che pensavo fosse più distante da me, mi sto trovando a lavorare! Non so, probabilmente le nostre distanze si sono incontrate in qualcosa che va al di là della musica. Lui porta un rigore, nel suo approccio musicale, che ho da subito riconosciuto. Mi ha chiesto di fare una registrazione ispirato da una prova che avevamo fatto durante la residenza, che consisteva, sostanzialmente, in una mia risposta a una sua provocazione. Mark Fell è un artista che lavora lucidamente e che, attraverso un lavoro di concetto e attraverso un lavoro di indagine extra musicale, arriva a un risultato musicale. Il suo strumento è il computer e il suo linguaggio è quello della musica elettronica; il mio è un altro, ma ci siamo intercettati. Così è nato il primo disco Object Relations #1 e in autunno uscirà una cassetta, Focal Music, in cui suono il solo pianoforte in due pezzi (Focal Music #5a, Focal Music #5b). Questi ultimi li abbiamo registrati a Karlsruhe, presso lo ZKM (Zentrum für Kunst und Medientechnologie) dove stavo lavorando con lui all’orchestrazione di un pezzo per 47 speaker, in una pausa del lavoro.
Tornando a TQS, quest’anno il concerto non si terrà a Capalbio, come nelle scorse edizione, ma avverrà in un luogo d’eccezione, a Roma, l’Orto Botanico. Ce ne parli?
Dopo due edizioni in cui abbiamo lavorato quasi a porte chiuse, offrendo cioè il concerto solo a chi si trovava, o aveva voglia di raggiungere, Capalbio, quest’anno abbiamo pensato che potevamo aprirci e, ovviamente, abbiamo pensato a Roma come destinazione ideale. E poi il principio collaborativo della residency ha funzionato anche sul piano della produzione, e abbiamo la collaborazione dei ragazzi di LSWHR che su Roma ci stanno dando una mano importante, essendo un collettivo di musicisti attivissimo nella scena sperimentale elettronica di lì. Ma non anche Club to Club è entrato nel loop e con gli inglesi di Inverted Audio lavoriamo alla comunicazione da fuori. A suonare saremo io, Olivia Salvadori, Oren Ambarchi, Crys Cole e Jan Hendriks, Rebecca Salvadori a portare un lavoro video. Il concerto dovrebbe sfruttare l’ottofonia, unico punto fermo per ora!
Progetti per il futuro?
Oltre ai due disci di cui ho già parlato, ci tengo a citare un’altra produzione discografica. Si tratta di un mio lavoro, Ventuno costellazioni invisibili, per sette strumenti ed elettronica, anche questo in uscita per l’autunno. L’ho registrato direttamente in tre formati differenti: stereo, surround 5.1 e stereo binaurale, quindi il piano è di distribuirlo e fruirlo in altrettanti modi: per ora tireremo poche copie vinile, poi sarà la volta delle altre versioni. È prodotto da un’etichetta milanese nascente (per ora non ti svelo altro!), l’abbiamo fatto in una giornata alle Officine Meccaniche. Aspetto di ascoltare il mix di Mirco Mencacci. Il pezzo prosegue la mia indagine su tempo e spazio sfruttando diverse combinazioni e sovrapposizioni di figure musicali timbrico temporali tutte derivate da alcuni rapporti geometrici interni alla forma triangolare. Ho in cantiere una proposta di lavoro per il cinema, e in Italia ho appena incontrato l’artista scultrice Amalia De Ponti e c’è un idea di fare qualcosa insieme per la prossima Biennale di Gubbio. C’è anche un progetto che sto sviluppando insieme a Francesco Grani del dipartimento di Audio 3D della Aalborg University di Copenhagen, che indaga sulle possibilità di un ascolto più realistico dello spazio acustico..
E poi c’è il mio pezzo. Me lo consegni presto, vero?
È tutto nella mia testa, Alessandra, e non vedo l’ora di iniziare a lavorare di nuovo insieme! Fine luglio?