Simeone Crispino e Stella Scala, meglio conosciuti come Vedovamazzei, sono due artisti complessi, estremamente prolifici, che è impossibile inquadrare in un filone tematico, in una scia formale, in un unico metodo di lavoro. «Quando non sai di chi è il pezzo è di Vedovamazzei», è ormai una frase mitica riferita a questa coppia inseparabile, anche se ufficialmente sciolta sul piano “matrimoniale” da anni e anni. Il loro corpus di più di 900 opere testimonia di un lavoro continuo, sostenuto a volte da committenze straordinarie, ma anche quotidiano, di studio, scaturito dal confronto mai riposante tra le loro due menti. Le immagini che producono, dagli schizzi su carta alle installazioni gigantesche che hanno viaggiato per il mondo intero, hanno la forza di imprimersi nella retina dei fruitori molto più a fondo delle opere che girano in media tra fiere e biennali, e senza fare ricorso alle ultime teorie filosofiche rimasticate, o ai facili echi della cronaca, o all’appeal del glamour da discoteca. Rifuggendo parimenti la purezza di forma e contenuto ma anche il puro scatto d’intelligenza, il ghigno tristo della trovata, i Vedovamazzei usano l’ironia in modo carnale, presentando i propri riflessi corporei, esponendo tutto il fuori misura che li contraddistingue, parlando di morte e di sesso senza arretrare di un passo.
ZERO: iniziamo dalla mostra collettiva a cura di Alberto Fiz, organizzata da ALT (Arte Lavoro Territorio Arte Contemporanea) con la collezione privata di Tullio Leggeri. Da Duchamp a Cattelan. Arte contemporanea sul Palatino. A una settimana dall’inaugurazione, è già chiaro che la vostra casetta di Buster Keaton (After Love) è l’opera più fotografata di tutte.
VEDOVAMAZZEI: Sarà anche la copertina del catalogo.
Come è iniziata l’avventura della casetta, di After Love? Come siete diventati parte della collezione di Tullio Leggeri?
Tullio lo conosciamo da sempre, dal 1995, dalla prima mostra da Claudio Guenzani. Nel 2000 ha comprato le prime opere: la sedia con la lampada, Appliance, faceva parte di una collettiva al Museo Filatoio di Cuneo – era il ’99 o 2000 -, ne abbiamo fatte due versioni e lui ha preso la prima; poi ha acquistato una serie di disegni con le mani, quelli con le ombre dei personaggi storici importanti (Chinese Shadows), da Shakespeare a Dante. Tullio possiede anche il modellino del tir Go Wherever You Want, Bring Whatever You Wish (2000-2004), non l’opera perché per dimensioni e pesi è difficile. È un modellino realizzato molto bene, in scala, con tanto di acqua.
E invece After Love, come nasce?
Ci chiamò il direttore del Filatoio di Caraglio, a Cuneo, Andrea Busto, per una personale nel 2003. Pensavamo di realizzare la casa di Buster Keaton per quella mostra e poi di portarla in Francia. A quel punto chiedemmo a Tullio e a Magazzino se era interessato al progetto della casetta. Ne fu entusiasta, e ci mise a disposizione i mezzi per costruirla, come era già successo qualche anno prima a Monte Marcello, dove realizzammo insieme Stella Maris G.M.O., il metro cubo di oceano pacifico interrato in una collina. Da quella prima volta in cui avevamo lavorato insieme c’è sempre stata una stima reciproca. Dopo Cuneo, la casa ha iniziato ad avere vita propria e ad andare in giro.
Raccontateci la storia di questa casa, che è stata montata nei posti più assurdi.
Esatto. Ha una storia interessante la nostra casetta decostruita. Un’opera che Tullio un giorno paragonò, per lo stile, alla giacca di Giorgio Armani, perché leggeva la struttura sbilenca come l’equivalente del capo rivoluzionario inventato dallo stilista. After Love deriva dalla storia del film One week (1920), di Buster Keaton. Una giovane coppia appena sposata si trasferisce a vivere in una casa prefabbricata. È un cortometraggio che critica la società dei consumi ai suoi albori. Arriva infatti questa casa da montare, in scatoloni numerati, stile Ikea. Durante la notte il vicino di casa, geloso e infastidito, cambia l’ordine numerico: il 7 diventa 4, e così via… La mattina seguente Keaton e la moglie iniziano a montare la casa e viene fuori questa cosa tutta storta. La cosa più comica è che non mettono in discussione il disegno industriale: non sono neppure sorpresi del fatto che non sia dritta, vanno avanti a montarla. Quando abbiamo mostrato il film ai ragazzini di un workshop di Elica, Shaping the world, hanno riso tantissimo.
Si, è ancora attuale.
Perché utilizza lo stesso concetto dei film d’animazione: quello della ripetizione delle gag, dei gesti e degli errori. È un codice che funziona ancora. Pensate a Topolino.
Anche l’idea del prefabbricato, che era evidentemente un mito nell’America di quegli anni, era molto presente nel cinema di animazione.
Esatto: Pippo nel caravan; Stanlio e Ollio. I bambini percepiscono il cartone animato. Il martello che cade e va in testa al protagonista fa parte di un codice che ancora fa ridere. Poi la casa di Buster Keaton è stata ripresa da altri artisti: da Gianni Colombo a Steve McQueen, che la cita nel modo più pericoloso: riproducendo la scena in cui la facciata della casetta di Keaton cade e la parte della finestra, il vuoto, lo centra in pieno, salvandolo. Quello stronzo di McQueen l’ha rifatta con la facciata di un grande deposito di grano, dotata di un enorme finestrone.
Mi sono sempre chiesta se non ci fosse anche un’allusione a Gordon Matta Clark.
Probabilmente si, ci ha sempre affascinato il suo lavoro. Ma nello specifico non ci abbiamo mai pensato. Le nostre citazioni, il background da cui proveniamo, sono molto meno colte: i fumetti e il cartone animato sono molto importanti nei nostri lavori.
Tematiche che state riprendendo anche negli ultimi lavori, quelli pittorici, ad esempio.
Esatto. Ma ci sono sempre stati nei nostri lavori. Noi siamo cresciuti con Walt Disney: il mondo rovesciato, i grandi paesaggi.
Torniamo ai posti in cui ha girato la casa. Ma poi è sempre lo stesso esemplare, o ne esiste un’altra versione?
Questa che esponiamo a Roma al Palatino è la versione speculare della prima, che ha l’inclinazione a sinistra, questa di Roma invece è a destra. La prima volta è stata vista a Cuneo. Poi è stata presentata durante una fiera di Artissima, con la galleria Il Magazzino; sempre con loro fu selezionata nel 2007 per Art Unlimited a Basilea, dove fu installata all’esterno, per il progetto pubblico della piazza Messe. Eravamo accanto al pupazzone di Paul McCarthy. Proprio come ora ai Musei Capitolini. Poi After Love è stata portata a Torino – ma dopo un importante restauro perché si era rovinata a un certo punto – per il progetto Arte alle Corti nel 2015, dove l’abbiamo fatta ristrutturare apposta.
Rispetto alle altre opere di grande formato After Love è quella che ha girato di più?
Si, forse insieme alla giacca del padre di Simeone e al tir con l’acqua.
Un’ultima cosa sul tema “casa”: perché è così ricorrente nella vostra opera? La casa di Celine, lo studio sul Bagno di Rembrandt, il ritratto della casa di Khomeini in Francia, prima di tornare in Iran, o anche il lampadario, Climbing (2000), che rappresenta una sistemazione domestica.
Non ci avevamo mai pensato. Ma forse quello che ci affascina di più è l’oggetto, senza i significati che ci sono intorno all’idea della casa.
Negli ultimi lavori pittorici, quelli che abbiamo iniziato l’anno scorso – il primo è stato presentato in una mostra da Umberto di Marino a Napoli – abbiamo deciso di ritrarre la casa di personaggi particolari – rifugiati, ricercati etc. – in un paesaggio che non è quello originario, ma rappresenta più o meno un innesto di ciò che in qualche modo il popolo, l’immaginario collettivo, ha visto in quella casa. Non è una nostra visione, ma è quella sociale: è l’origine o del male, o del bene. La casa non è perfettamente riconoscibile, ma il contesto rimanda a delle impressioni. Nel caso della casa francese di Khomeini, The most visited place ever, si tratta di un paesaggio campagnolo banalissimo, mediocre. Quello che conta è l’idea che la gente ha di ciò che accade li dentro. Quel luogo richiamò una processione di intellettuali e creò persino una peculiare forma di turismo per un anno intero. In qualche modo la serie delle case è un’evoluzione del lavoro delle radiografie, del 1991: ci interessa stimolare una riconoscibilità da parte del pubblico. Per rappresentare icone come Pulcinella o Pinocchio utilizzavamo radiografie, cioè fotografie oggettive, di pazienti con gravi malformazioni ossee, rielaborandole fino a ottenere i tratti riconoscibili dei personaggi, i cliché, gli stereotipi.
Invece ci chiedevamo come nascono i titoli? Come li elaborate?
Il titolo è un fonte di grande pensiero per noi. È una parte di lavoro molto delicata, separata dalla concezione dell’opera. Alle volte è quasi insopportabile: rischia di offrire dei suggerimenti sbagliati. Li facciamo quasi sempre alla fine e li pensiamo sempre in inglese. Altri artisti mettono “senza titolo” addirittura in inglese. Certo, era bello come faceva Courbet, che metteva non so, L’onda. Il titolo è il dipinto. Noi addirittura a volte mettiamo i titoli delle canzoni che ci piacciono, per distogliere il fruitore dall’idea di trovare una spiegazione, e per distaccarci, per non essere didascalici. L’abbiamo fatto a volte, pensa a How to disappear completely
In questo caso però date proprio una chiave di lettura, anche piuttosto drammatica.
Quella è una citazione. È il titolo di una canzone dei Radiohead. Questa sedia a rotelle basta così come è. Però dobbiamo, dal punto di vista tecnico, avere un titolo, un tag. Anche per il nostro archivio, è difficile poi la catalogazione. O fai come la Beecroft, che è geniale, Vb 1/2/3 etc.
Quindi non è una cosa su cui vi trovate a litigare?
No. Se viene a Simeone va bene, se viene a me, va bene uguale.
E il titolo della casetta, After Love, perché?
Perché è un segnale d’amore: a Cuneo, la prima volta, era vicino a un muretto, come appoggiata. Come quando appoggi la testa sulla spalla del tuo fidanzato. Dopo l’amore.
Comunque penso che i titoli più belli li abbiamo dati al tir, che è una citazione di una favola di Calvino che Stella aveva letto e riportato su un pezzo di carta perché era perfetto. E poi Pupa quae etiam carne humana vescitur del 1994, che venne in mente alla mamma di Stella. Ricordo quando abbiamo dovuto fare la traduzione volevo morire. Jean de Loisy, il curatore della parte europea della prima biennale di Gwangju, ci aveva chiamati per la prima edizione nel 1995 – c’erano Douglas Gordon, Maurizio Cattelan, Tracey Moffat, Gabriel Orozco, Carsten Höller, Rirkrit Tiravanija – Tutti avevano i titoli in inglese e invece noi…
Stella sostiene che sia molto elegante.
Ma certo, il latino rappresenta le nostre origini, o forse semplicemente ci siamo lasciati influenzare da mia mamma. Comunque oggi si chiama semplicemente Pupa, come bambola.
Nel 2015 avete fatto parte della mostra Liberi Tutti alla Fondazione Ettore Fico. Insieme a voi c’erano gli artisti di quella generazione, come Beecroft, Arienti, Liliana Moro o più giovani come Marzia Migliora, fino a Patrick Tuttofuoco. Che differenza c’era da allora, gli anni Novanta, e oggi, nel vostro modo di fare arte? L’approccio al sistema dell’arte è cambiato? Visto che era il periodo, ‘ultimo, delle grandi istituzioni e del collezionismo in Italia.
Stella: Il mio approccio non è cambiato negli anni. Anche se penso di essere limitata, se voglio fare una cosa li cerco i soldi per farla. Come succede a tutti gli artisti, quando hai un’esigenza forte te ne freghi se non ci sono i mezzi. Li trovi.
Simeone: assolutamente si, dal 2000 è cambiato l’atteggiamento. Però non mi va di parlare di libertà, se ce n’era più o meno. Faccio sempre l’esempio di Michelangelo, quando penso al fattore economico nella commissione artistica: se non ci fosse stato Giulio II per la Cappella Sistina avrebbe dipinto quattro personaggi un po’ spogli. Il papa invece gli diede l’input fondamentale. Le committenze per gli artisti sono fondamentali. La libertà totale chiusa nello studio mi infastidisce, quella di poter realizzare il progetto che ti viene richiesto è un’altra cosa.
La committenza dunque è cambiata? I collezionisti che vi seguivano in passato ci sono ancora?
I collezionisti ci sono. È cambiato proprio l’atteggiamento. I galleristi in passato si informavano sul curriculum del collezionista, vendevano solo se lo ritenevano affidabile. Invece ora anche un ragazzino può acquisire liberamente un lavoro. C’è un atteggiamento più democratico. Prima c’erano le grandi collezioni. Ora è cambiato perché l’economia è più interessata all’arte contemporanea. Ora ci sono dei gruppi forti di collezionisti, penso ad Acacia, per esempio. Che è molto attiva e appoggia i giovani.
Ma eravate un gruppo unito? Parlo degli artisti degli anni Novanta.
A livello lavorativo eravamo molto indipendenti, ognuno lavorava e pensava per sé stesso. Però sono nate delle amicizie. La prima nostra mostra da Guenzani era molto scombinata, impersonale: ogni pezzo sembrava realizzato da un artista diverso. Questo è stato un momento di svolta personale per noi, ma anche in generale.
In effetti quello è stato un momento di svolta, a un certo punto gli artisti sono diventati come una sorta di brand, gli veniva chiesto di rifare sempre la stessa cosa che funzionava. Un effetto terribile anche su grandi mostri dell’arte come Joseph Kosuth. Scompaginare quel genere di aspettativa è interessante.
Questa cosa col passare del tempo si è sviluppata sempre di più, fino ad arrivare a giovani che già dall’inizio diventano così, non sperimentano più. Hanno iniziato con un lavoro e hanno proseguito su quello.
Simeone: Stella ricordati che la sperimentazione è la morte dell’artista.
Stella: ma in questo contesto questa parola funziona. Si è accorciato sempre di più quel percorso li oggi. Ci sono ragazzi di 22 anni che hanno già un lavoro riconoscibilissimo.
Comunque ci è stato detto che quella famosa mostra non era fatta di pezzi diversi, ma di punti di vista diversi. Anche Paolo Consolandi a una fiera disse: quando non sai di chi è il pezzo è di Vedovamazzei.
E invece a proposito della casetta, a Basilea, Samuel Keller disse che «I Vedovamazzei non hanno fatto la casa di Buster Keaton, ma è stato Keaton, preventivamente, a fare la casa per i Vedovamazzei».
Possiamo ricostruire in quali collezioni pubbliche e private sono presenti le vostre opere?
In Italia siamo alla GAM di Torino, dove hanno tre lavori: lo specchio rotante, una sedia e il neon delle cicogne; alla Gamec di Bergamo, con i dischi e degli acquerelli di Galileo; Il MAXXI ha Climbing; il Mambo ha i neon con i numeri telefonici di tutti gli artisti della collezione, scritti a mano dagli artisti; e infine al Madre, con cui faremo un progetto a ottobre. In Francia siamo al FRAC Languedoc Roussillon, e poi più che altro in collezioni private della Francia, del Belgio, a Londra. In Italia a La Gaia, al cimitero; all’ALT di Bergamo; a Montemarcello, Collezione Pavanello…
Invece United Nothing è di privati?
Si, l’ha presa un privato di Milano ad Art Miami Basel. Su The Art Newspaper hanno scritto che avevamo reso la fiera un po’ più seria con un tema politico. Ora è in giro la seconda edizione.
Ma infatti, vi siete sempre dichiarati non politici, quando di fatto un po’ lo siete. Non vi siete mai buttati in questo calderone che oggi risulterebbe conveniente, le mostre a tema sociale o politico. Avete sempre detto che questa cosa non vi interessava. Però fin da opere lontanissime nel tempo si capisce che avete una passione politica.
Il lavoro più politico che abbiamo fatto era la palla di neve, quella con la manifestazione all’interno: Vedovamazzei non ci fai paura, abbiamo un colpo in canna con la sicura. Giacinto di Pietrantonio scrisse che era un lavoro di chiusura nei confronti di quel mondo ideologico degli anni Settanta. In effetti noi abbiamo congelato quel momento storico, diventa un gadget da stazione turistica. Diciamo che si: non ci interessano l’arte sociale e quella politica. Ma non significa che non la facciamo. Non ci interessa quella didascalica, l’opera di denuncia non ci ha mai interessato. Non è né arte, né interessante per noi. Non siamo artisti sociali. Rossana Campo disse che noi ci interessiamo della morte. Un po’ tutta la nostra generazione ha lavorato sul tema della morte: da Damien Hirst a Cattelan. In effetti il camion è un riferimento a una tragica esondazione che avvenne a fine ‘400, dove è morta tanta gente. La giacca del padre di Simeone ha a che fare con il lascito ereditario. Come i Coma paintings, sono drammatici: sono questi tunnel colorati, sembra quasi positivo. Ma in realtà abbiamo cercato di realizzare quello che, secondo le ricerche, vedono le persone in coma. Noi diamo una chiave che pensiamo accattivante per trattare temi forti. Rob Pruitt ha fatto i pannelli dei Suicide Paintings, noi i Coma e Nate Lowman i Paradise… dovremmo fare una mostra.
United Nothing ci è venuto in mente dopo aver letto una scritta fatta da un militare olandese diciottenne che faceva parte delle forze delle Nazioni Unite, prima di morire. Questo si, tratta di morte, ma è anche il lavoro politico più evidente.
Da Charmant che è il migliore ristorante di pesce della città. E a Simeone piace molto Vietnam Mon Amour. Invece di giapponese Yoshi a via Parini. E poi Iyo in Piero della Francesca.
E a bere?
Il Radetzky è sempre tra i migliori. Eccellente sull’Americano, il Bloody Mary e lo sbagliato. Di giorno è meglio. Poi il Botanical, eccellente anche lui, il gin è pazzesco. Anche il Bloody Mary sbagliato. Il Wasabi anche non è male qui in Isola. Il Bar Basso, poi il Colorificio in piazza Cesariano.
E tra Hangar Bicocca e Fondazione Prada quali preferite?
Entrambe. A Stella piace la Fondazione, come hanno ristrutturato quel building è bellissimo, sembra un quadro di De Chirico. Per le mostre sono più efficaci nell’Hangar, pensate a Philippe Parreno. Anche il bar è bello. Comunque sono entrambi posti pazzeschi, agli antipodi della città, luoghi dove poter stare.