Non c’è modo di cantare un pezzo di Sufjan Stevens senza pregare. Anche distrattamente, i suoi versi salgono verso il cielo che neanche te ne accorgi; poi di colpo ti rendi conto che quella melodia piacevole che stavi fischiettando sotto la doccia racconta la morte di qualcuno a qualcun altro più in alto. L’effetto è destabilizzante: «Oh mamma, mi piace, eppure sono ateo». È un coming out spirituale che travolge, quindi o fai l’agnostico o gli rimani fedele. Abbandonata (forse) l’idea di dedicare a ogni stato degli States un disco e dopo l’esuberante freak pysch pop di The Age of Adz, Sufjan ci ha spiazzati ancora una volta con un lavoro completamente diverso dedicato alla madre Carrie, scomparsa nel 2012, e al compagno (di lei), Lowell. Qui l’elettronica, che nel precedente pogava con gli arrangiamenti orchestrali, fa raramente da contrappunto e lascia la scena a chitarra e banjo sorretti soltanto da voci celestiali e liriche sussurrate. Carrie & Lowell è una confessione talmente intima da creare imbarazzo, un’elaborazione esplicita del dolore piena di ricordi, riflessioni, rimpianti, senso della fine e amore. Il processo di sublimazione si ripete a ogni concerto, un dolce struggimento verso la resurrezione.