Era almeno una decina di anni che non mi si focalizzava l’interesse sulla parola “hamburger”.
Un decennio con centinaia di aperture milanesi di burgherie tutte uguali (salvo pochissime eccezioni) specializzate in sandwich “gourmet”, serviti con pezzi di carne al sangue gocciolanti su pane sempre più imbevuto di sangue ai sette cereali lievitato naturalmente, cipolle caramellate, salse fatte in casa ma non ketchup e mayo o senape, formaggi blu anche di capra ma non italiani, insalatine dell’orto dello zio e patatine fritte ma non tagliate a bastoncino.
Insomma, una noia totale, il progressivo e forse irreversibile allontanamento dalla tradizione e dalla semplicità persino di un piatto che in Italia tradizionale non è; quello che sta succedendo/è successo anche alle nostre e care vecchie trattorie italiane.

Così mi ritrovavo e mi ritrovo ancora ogni tanto a passare da Margy: non certo il migliore burger della mia vita, ma almeno vero: gente che ci viene perché ha fame e non perché va di moda, personale che ti fa un panino e non ti vende un concetto, conto più che accettabile.
Non si arriva a 50 anni per caso, ed essere nato una quindicina di anni prima dei paninari nella città dei paninari dà a Margy una connotazione storica e culturale notevole. Non so come fosse Ciardi (l’ho sempre chiamato così) nel 1968 (il ’68!), sono nato dieci anni dopo e ci sono stato la prima volta che aveva già trentanni: quello che so per certo è che nessuna nuova burgeria gourmet raggiungerà mai la metà dei suoi anni, e ne sono anche felice.

Stasera si festeggia mezzo secolo con birra media a 3 € – se hai il fegato di bertela in 9 secondi non la paghi (non garantisco sul fegato) – e menu Margy a 10 €.
Per me un doppio cheese bacon e rossa alla spina, grazie.