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ven 08.03 2019 – sab 09.03 2019

Winterreise

Dove

Teatro alla Scala
Via Filodrammatici 2, 20121 Milano

Quando

venerdì 08 marzo 2019 – sabato 09 marzo 2019
H 20:00

Quanto

da € 21,50

Contatti

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“Il nitore di un diamante nero”. Con questa immagine ineguagliata, un grande critico che ci è caro commentava uno spettacolo di cui abbiamo perso la memoria. Ma proprio questo ha, di bello, il Winterreise di Angelin Preljocaj, su musica di Schubert, in scena al Teatro alla Scala: il nitore di un diamante nero.
E non solo perché la neve del Viaggio d’Inverno (Winterreise in tedesco) è appunto nera, e non bianca, ma perché lo spettacolo è nitido, messo a fuoco, cristallino come un diamante, eppure scuro scuro, come il gorgo dell’anima in cui precipita il viandante, protagonista suo malgrado per via dell’amore respinto da una ragazza di cui respiriamo solo l’assenza.
Un wanderer che, nella scelta di Preljocaj, non è tradotto in scena da un unico danzatore: il suo gramo vagare si riflette nei gesti e nei passi dell’intero corpo di ballo, mentre al solo cantante è affidata la linea più propriamente narrativa.

Una black box insondabile, in cui maschile e femminile si confondono e la gamma cromatica dei costumi, disegnati dallo stesso Preljocaj, vira all’acido e al cangiante del manierismo, per dare solo l’illusione del colore, quasi a suggerire un autunno del timore che sta ineluttabilmente lasciando il posto all’inverno dello scontento, e della morte.
Una morte cercata seguendo una pulsione profonda, anche se di suicidio, a differenza che nel Werther goethiano, cui Schubert non poteva non pensare essendo stato il più grande “caso” letterario europeo del secolo, nel Winterreise non si parla mai esplicitamente.
Attraverso il viandante infelice e consumato, Preljocaj vuole ricordarci come Schubert sia morto a soli 32 anni tra i tormenti della febbre tifoide e della sifilide, l’AIDS del secolo romantico. L’AIDS, un altro Male nato dall’Amore, che negli Anni 90 del ‘900 ha falcidiato, mutate le forme ma non la sostanza, una generazione di coreografi e di danzatori eccelsi, in una macabra equazione tra morte e petit mort, l’orgasmo.

Preljocai, che ha portato in scena il bacio più lungo della storia della danza (tra Aurelie Dupont e Massimo Murru ne Le Parc) ma anche la nudità totale, ancestrale, brutale e tellurica de Le Sacre du Printemps, non è un cuore tenero, e forse l’unico appunto che si può fare a questa novità concepita appositamente per la Scala è proprio d’esser troppo “di testa”.
Ma il suo gesto preciso, perfetto, annotato e trasmesso al corpo di ballo fin nei minimi dettagli attraverso un contatto fisico in sala prove che immaginiamo simile a quello di uno scultore che plasma e forgia i suoi duttili materiali, resterà immortale grazie a sistemi di codifica e trascrizione affascinanti che valgono, da soli, l’acquisto del bel programma di sala scaligero.

Significativo è, a tal proposito, il lavoro che Preljocai ha fatto in sala prova con una selezione d’elite del corpo di ballo scaligero: non sulla musica di Schubert, che ha chiesto sì di studiare a fondo nella sua essenza, ma sul gesto puro legato a musica “altra”. Solo all’ultimo ha introdotto, quando la coreografia era ben sedimentata nelle gambe e nelle mani, la potenza del capolavoro Schubertiano, qui stupendamente riproposto non nella sua forma orchestrale, ma in quella di Lied per Basso-Baritono (Thomas Tatzl) e pianoforte (il bravissimo James Vaughan), secondo la bella intuizione del Sovrintendente Pereira che ha fortemente voluto un ciclo di balletti su partiture da camera.
Nel percorso musicale, che Schubert ha affiancato poco prima di spegnersi all’opera poetica di Willhelm Müller, proprio grazie ai vuoti del pianoforte, ai silenzi ma anche agli accordi che si sfrangiano per diventare sempre più vuoti, ossessivi e inani bicordi, sentiamo, molto di più che nel corposo e vitale modus orchestrale, la morte che arriva, l’amore che non c’è, come non c’è nulla sui bianchi fogli che i danzatori mostrano al pubblico per rendere in un’immagine icastica l’assordante silenzio dell’amata, stereotipo della “belle dame sans merci” che ci rimanda a Keats.

Bravo, molto, il corpo di ballo scaligero, cui Preljocai, che è un coreografo tra i più esigenti e solo in rare eccezioni si confronta con danzatori esterni alla propria compagnia, attinge a piene mani da tutti i livelli dell’organico, prime ballerine/i, solisti, artisti del corpo di ballo vero e proprio e innesti ospiti. Merita quindi grande apprezzamento la visione del direttore Frédéric Olivieri che da tempo, pur mantenendo vivo il repertorio sulle punte, sfida sempre più i suoi artisti nel cimento del contemporaneo.
Nei passi a due, a tre, e nelle scene di gruppo, l’energia, la precisione e l’equilibrio di tutti sono da applausi, e bravi sono gli uomini a dosare la forza cercando la sinuosità e le interpreti femminili a energizzare la grazia per commisurarsi gli uni agli altri fino a diventare virtualmente intercambiabili, perché il male d’amore non ha sesso e non ha epoca, è di chi ce l’ha, è di chi lo sa.
Una menzione speciale, nonostante qualche trascurabile sbavatura tecnica, per Alessandra Vassallo, solista la cui mirabile presenza scenica torreggia, rendendola magnetica. In alcuni momenti è impossibile distogliere da lei lo sguardo, come se il viandante infelice fosse riflesso in tutti gli artisti sul palco, mentre fosse proprio lei la ragazza bella e altera per cui il giovane protagonista voleva vivere e dovrà invece morire.

Scritto da Mario Macchitella