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dom 19.03 2017

Le Domeniche dei Pomeriggi: una mattina all'opera

Dove

Teatro Dal Verme
Via S. Giovanni Sul Muro 2, 20121 Milano

Quando

domenica 19 marzo 2017
H 11:00

Quanto

€ 12 + d.p.

Il 19 marzo alle 11 l’appuntamento è al Teatro Dal Verme con “Una mattina all’opera”: uno dei concerti de “Le domeniche dei pomeriggi”, con musiche di Verdi, Rossini, Bellini e altri grandi compositori che hanno contribuito alla leggenda del melodramma. Per avvicinarci a un genere ritenuto inaccessibile, anche se forse più vicino di quanto si creda, abbiamo provato a tracciare un parallelo (insospettabile) tra l’opera e uno dei generi attualmente più popolari: l’hip hop.

video tratto da “Carmen: A Hip Hopera”

L’opera e l’hip hop: «notte e giorno, giorno e notte». Niente di più lontano tra una serata di gala all’opera, fonte di disagio sociale per chiunque, dai Fratelli Marx alla pretty Julia Roberts, e una jam session con battaglie di freestyle in localacci alla 8 Mile, in cui era Eminem a sembrare il ragazzo più a modo. Da una parte un linguaggio dépassé, con voce impostata che segue libretti spesso al di là del bene e del male, dall’altra una modalità tutta beatbox e feat., la più giovane e trasgressiva possibile, ora alle prese con un’impietosa mezza età che davvero nessuno si aspettava, J-AX in testa.

Crisi del rap, crisi dell’opera: una cosa in comune cominciamo già a trovarla. Ma di crisi non ha senso parlare in nessuno dei due casi. Due generi nati per invecchiare fin da subito, che invece resistono e si autorinnovano grazie alle provvide lagne dei rispettivi pubblici. Si tratta di lamentele tanto perpetue da violare qualsiasi principio fisico con i «com’era meglio prima» seguito da un «signora mia» o «fratello» a seconda del contesto, che si rimpianga la Callas o Joe Cassano. Chiunque pensi che l’opera sia un genere snob che tende al passatismo, non ha idea di quanto possa esserlo il rap. Da una parte ci sono i loggionisti che ci rimettono la salute a furia di fischiare il moderno – ma anche il non moderno, in fondo basta fischiare. Dall’altra i rapper che oggi devono fare i conti con l’ondata di youtuber e “comunisti col Rolex” che un ghetto l’avranno visto sì e no per imboccare l’autostrada.

https://www.youtube.com/watch?v=JI1_B61BSr4

In entrambi i casi la linfa vitale è data da uno zoccolo duro estremamente elitario, che con finissimo sguardo critico mal sopporta un pubblico che si allarga senza essere invitato: gli inconsapevoli nuovi adepti che si convincono di amare il genere al primo ascolto di una canzone de Il volo in un caso, di Fedez nell’altro. Ma che sia opera di strada o opera in senso proprio bisogna meritarsela: è solo «per i veri kings». Sono due linguaggi complessi, che richiedono agli ascoltatori convenzioni ingombranti e ben precise da accettare: che si tratti di una storia raccontata tra arie e recitativi in alternanza o di rime obbligate su una base martellante, il lavoro dell’ascoltatore su se stesso è e deve essere notevole.

Senza forzare nemmeno tanto si può trovare qualcosa in comune persino per aspetti più specifici, come per l’abitudine comune all’improvvisazione, che può essere sfoggio di strabilianti colorature per un soprano o inventiva nella ricerca di rime per un MC con la sua base, maestro di cerimonia come un iniziato del Flauto magico. O ancora il gusto per la sillabazione, per l’allitterazione, per giochi e divertimenti verbali che stanno bene nei concertati di Rossini tanto quanto nei testi di Nesli. Infine se da una parte serve il «diavolo in corpo», spiegava Verdi, l’indicibile e incommensurabile quid che può rendere teatrale il canto, dall’altra occorre un misterioso flow per trascinare il pubblico, caratteristica che c’è e non c’è senza spiegazione alcuna, ma che può sancire chi funziona e chi no, «flow dopo flow».

A sorpresa non mancano nemmeno esperimenti di crossover tra i due generi, più o meno riusciti, con l’opera che si apre al rap e viceversa. Come Lo specchio magico di Fabio Vacchi, titolo presentato al Maggio Musicale Fiorentino la scorsa stagione, con il rapper Millelemmi che fa da cantastorie – forse discutibile – di passato e futuro del pianeta intero. Invece sono entusiasmanti alcuni esempi di “hip hopera”, su cui si erge senza rivali una Carmen prodotta da MTV nel 2001 con protagonista niente meno che Beyoncé, citata allora solo come una delle Destiny’s Child: e qui altro che diavolo in corpo.

Ecco che quindi il gioco si chiude: «Tutti gabbati», direbbe Falstaff, e gabbato pure il sottoscritto, nel superfluo ma divertente compito di trovare strane affinità tra questi due linguaggi, che sono universi musicali separati e non comunicanti. Ci sono ovviamente ragioni storiche ed estetiche che smantellerebbero in partenza ogni tentativo serio di avvicinamento tra opera e rap, eppure il breve incontro qui descritto può aggiungere qualcosa a quanto è già stato detto sulla versatilità di ogni fenomeno musicale.

E se da una parte esistono album rap con tinte talmente precise da descrivere il disagio di generazioni intere, dall’altra viene da pensare alle confusioni di sentimenti, ad esempio di un finale d’opera. Pagine che attraverso il loro significato musicale riescono ad andare oltre il significante di una trama, fino a uno sfogo catartico simile a quello che forse prova anche un fan di Mr. Simpatia.

Scritto da Mattia Palma