Avevo sei anni quando decisi fermamente che, un giorno, avrei cantato anch’io nel coro degli studenti ribelli di Another Brick In The Wall. Sono passati 25 anni da questa personale epifania, ben 50 candeline dal loro primo lp, mezzo secolo di storia di una delle più grandi band di sempre, i Pink Floyd. “The sun is the same in a relative way, but you’re older”, canta Gilmour in Time. Il tempo, così vitale e rigoroso come un battito cardiaco, lo stesso che apre The Dark Side of The Moon. Ma in fondo così relativo, quando ci si rende conto che non siamo poi tanto lontani da quei testi che urlavano disgusto per il degrado sociale, morale, politico e la rabbia contro una società disgregante e piena di disparità. Menti profetiche, atmosfere oniriche e spaziali che riescono a distanza di tempo a farci entrare nel lato oscuro dell’animo umano che solo l’arte riesce a raccontare, e che resta un’esigenza immortale. A celebrare tutto questo, dopo i 400.000 visitatori di Londra, The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains arriva a Roma. Una monumentale retrospettiva che accompagna il visitatore munito di cuffie in un viaggio multisensoriale nel tempo, toccando in ordine cronologico le tappe della loro carriera fra cimeli, bozzetti, ricostruzioni, manoscritti e interviste. Passeremo dalle locandine dell’Ufo Club, alla lettera che Gilmour scrisse ai genitori per informarli di essere entrato a far parte della band; potremo intervenire sui canali di un mixer per produrre una versione personale di Money, rimanere ipnotizzati da un enorme ologramma del celebre prisma, camminare sotto il maiale volante e osservare gli scatti dello stuntman che prese fuoco per realizzare la cover di Wish You Were Here. Scopriremo anche che nel 2010 un astronauta della Nasa portò sulla stazione spaziale una copia di The Dark Side of The Moon. E forse in fondo è lì che tutto questo rimarrà, continuando per sempre a brillare.