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mar 23.01 2018 – dom 11.03 2018

Freud o l'interpretazione dei sogni

Dove

Piccolo Teatro Strehler
Largo Greppi 1, Milano

Quando

martedì 23 gennaio 2018 – domenica 11 marzo 2018

Quanto

€ 33-18

Una recensione non è una seduta di psicoterapia. Ha sì una domanda a cui rispondere, ben precisa, ma in fretta, la più ovvia delle domande che il lettore immaginiamo si ponga. Vado a vederlo o no, questo spettacolo? La nostra risposta è assolutamente sì, Freud o l’interpretazione dei Sogni, di Stefano Massini per la regia di Federico Tiezzi, in scena al Piccolo Teatro Strehler fino all’11 marzo è uno spettacolo che va visto. E qui la faccenda inizia a complicarsi, perché la seconda domanda sarà: è bello? Perché dovrei vederlo? Cosa ha funzionato, che cosa no?
Se volessimo giocare col paradosso insito nelle parole, diremmo che questo spettacolo teatrale incentrato sull’analisi è, quasi per beffa della sorte, piuttosto resistente a ogni tentativo di analisi lineare. Forse perché è un po’ incerto nella pur ambiziosa drammaturgia, ma non se ne può fargliene una colpa. E non resta allora che procedere per tentativi: affidiamoci alle sensazioni e rimettiamo insieme i pezzi, proprio come ci mostra di fare lui, il dr. Freud.
Cominciamo dalle cose che non abbiamo apprezzato a fondo, o che non ci sono arrivate secondo le intenzioni (ampiamente) annunciate da drammaturgo e regista. In questo spettacolo, per noi, manca purtroppo il senso della scoperta epocale, della rivoluzione copernicana che ha cambiato tutto il nostro modo di guardare dentro noi stessi e dunque agli altri, manca l’idea che esista un prima e un dopo la psicanalisi, e che una volta rotto quel vaso di Pandora di desideri, pulsioni e paure, vaso che era rimasto sostanzialmente integro per duemila anni nonostante lo avessero maneggiato le mani di mille filosofi, poeti o profeti dell’eresia, bene una volta rotto quel vaso c’è solo un grande e generale “si salvi chi può”. E potrà solo chi nell’abisso del caos decida di calarsi per ri-uscirne vivo, per la prima volta, vivo.
Tutto questo è stata la nascita della psicanalisi, in un salotto di Vienna tra chaise longue e cimeli di grecità, ma nello spettacolo fatichiamo a tastare sotto le dita questa forza tellurica e dirompente, questo tremore sordo e ineludibile: è un po’ come se le conseguenze di ciò che è stato, e che già sappiamo, fossero date per assodate, e assistessimo così a una processione rituale di pazienti e casi, essendo già abituati all’idea che esistano, appunto, pazienti e casi. Ci aspettavamo invece l’emozione naïve, primigenia, quella, per dire, di chi ha visto il cinema per la prima volta coi Lumiére, volevamo la frenesia di correre dietro lo schermo e guardare cosa c’è. Ma forse, semplicemente, ci aspettavamo troppo, da un tentativo comunque oggettivamente titanico.
Eppure, dopo un primo (e lungo) atto un po’ faticoso, nonostante l’indubbia qualità interpretativa di tutto il cast (una menzione speciale va a Marco Foschi, eccezionale isterico “sano”), l’impianto scenico pulito e funzionale (ma dispersivo nei suoi troppi vuoti non sempre giustificati), l’eleganza di luci opache, sempre sobrie pur nell’uso moderno di led e proiezioni, e di costumi appropriati nei loro colori polverosi e nei trucchi carichi, che richiamano a tratti il mondo di Bob Wilson o di Alice in the Wonderland,… finalmente nel secondo atto lo spettacolo decolla.
Cambia e non poco la volumetria degli spazi scenici, che assumono una dimensione più raccolta e scansionata su campi e controcampi, sapientemente cinematografica, cambia, verrebbe quasi da dire di conseguenza, la modalità recitativa, in primis quella di Gifuni-Freud, abbandonando modulazioni frante, pausate e accelerazioni isteriche di stampo (sterilmente?) neo-ronconiano, per approdare a una maggiore naturalezza mimetica, che finalmente fa affiorare l’emozione latitante, l’emozione che però da qualche parte doveva pur essere, e a tratti con essa il potente grimaldello dell’ironia (magistrale la scena del sogno “rewind” con la moglie Martha, interpretata da Debora Zuin)
Si sente molto di più la mano sicura, indispensabile, della regia di Tiezzi nel secondo atto: e quando finalmente i sogni dei pazienti vengono dipanati, quando finalmente la forza dell’alleanza terapeutica traspare, perché anche il dr. Freud accetta di mettersi a nudo (non fisicamente, come accade invece nel primo atto, in una scena non particolarmente necessaria), quando viene incalzato e sbattuto al muro, o meglio allo specchio, dal suo paziente-non paziente, un temutissimo “doppio” suo simile, che lo porta, per paura, ad interrompere un rapporto che non può più sopportare, perché non lo può più guidare e controllare, solo a quel punto ci arriva l’Empatia. Ci arriva la Com-Passione.

E sentiamo il dolore silenzioso di una madre per un figlio morto e per avere accanto un marito orrendo. Di una ragazza per una vita buttata via senza un amore, che pure era a due passi, e per giunta buttata via di sua stessa mano. Di un uomo schiacciato dal senso di colpa di essere l’unico sopravvissuto ai suo fratelli. Di un ragazzo acceso da un inaccettabile amore incestuoso ed omosessuale per il fratello. Di una donna stuprata da bambina (un’intensa Elena Ghiaurov), in un bosco, costretta a strisciare come una cagna dal suo carnefice. Di un medico che comprende il proprio sadismo vorace, apparentemente inappuntabile perché mascherato da nobile missione, la brama egosintonica, presunta portatrice di vita e di morte, dell’usare i propri pazienti e i loro dolori per vincere la propria personale partita a scacchi con un ego irrimediabilmente ferito da un padre incapace di riconoscere e di amare a fondo. Di amare un figlio per ciò che è. Quest’ultimo però non è un paziente. È Freud, in persona.
Solo in quel momento, sentiamo la favilla nel buio, vediamo lo schiocco da cui l’incendio divampò. E ancora, forte, brucia. Solo in quel momento è grande Teatro, ma anche un solo momento di grande Teatro non è per niente poco.

Con Fabrizio Gifuni nel ruolo di Freud e Elena Ghiaurov, Marco Foschi, Giovanni Franzoni, Sandra Toffolatti, Bruna Rossi, Debora Zuin.

Scritto da Mario Macchitella