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Consigli per gli ascolti #7

Scoperte, novità, dischi oscuri e colonne sonore del 'lockdown' scelti e commentati per noi da musicisti, direttori artistici, negozi di dischi, etichette e radio indipendenti

Scritto da Chiara Colli il 12 maggio 2020
Aggiornato il 13 maggio 2020

Henry Rollins in quarantena nel suo basement

ALESSIO POMPONI


Tutto ha inizio nel 2005 quando, colpito dagli mp3 blog americani, fonda la webzine IndieForBunnies. Anni dopo, nel tentativo di dare libero sfogo alla sua passione per la musica anche al di fuori della “rete”, fonda insieme a Emanuele Minuz Unplugged in Monti, format dal respiro internazionale con concerti intimi e acustici nel cuore di Roma. A seguire UIM trova una sua declinazione alternativa con le Church Sessions, con cui le chitarre fanno ingresso nelle chiese. L’ultima creazione è la piccola label indipendente A Modest Proposal, condivisa con Emanuele e Francesco Amoroso, con cui hanno pubblicato, tra gli altri, dischi di Barbarism e Old Fashioned Lover Boy.


Midwife ‎– “Forever” (Flenser Records, 2020)
This is really happening to me / Get the fuck away from me 2018
Il 2018, che Madeline Johnstone nel brano d’apertura del suo nuovo lavoro come Midwife invita “gentilmente” a farsi fottere, è l’anno nel quale la musicista di Denver perde in modo del tutto inaspettato l’amico e coinquilino Colin Ward. In quei giorni inizia a prendere forma “Forever”, un album che per la Johnstone rappresenta l’elaborazione attraverso la musica di un lutto particolarmente doloroso mentre per me diventa, in maniera del tutto involontaria, la colonna sonora ideale di questi tempi dal sapore distopico. L’iniziale negazione (“2018”), la ricerca di conforto (“I will never forget you” chiosa svanendo tra i synth “Language”) e l’accettazione (“death is not violent” recita lo stesso Ward nella toccante “C.R.F.W.”), la voglia di voltare pagina nonostante tutto (“S.W.I.M.”): tra atmosfere cupe, derive sognanti e slanci melodici i 35 minuti scarsi di “Forever” attraversano tutte le fasi emotive che un evento improvviso e destabilizzante ci costringe nostro malgrado ad affrontare. Slowcore, drone, dream-pop o più semplicemente, come lei stessa ama definirsi, “heaven metal”, in Midwife sembra di ascoltare gli Slowdive condotti per mano in territori ambient da Grouper e sinceramente non riesco a immaginare migliore “orchestra” per sonorizzare questa quarantena delle infinite fasi.

CARLOTTA DEL GIUDICE


Fotografa e artista visiva, vive e lavora a Torino dove nel 2017 raccoglie la sfida dell’Unione culturale Franco Antonicelli: riportare la musica di ricerca negli storici teatri di Carmelo Bene, gli Infernotti, nei sotterranei di Palazzo Carignano. Nasce Living Room: né un club né un bar, ma semplicemente una stanza, un contenitore attento al processo di ricerca dietro alla musica. L’eterogeneità è il filo rosso per costruire una situazione il più lontano possibile dalla logica schiacciante dell’evento. A fine 2019 lancia insieme a Chiara Lee (ex Father Murphy) la label Commando Vanessa, uscite su nastro frutto di collaborazioni tra musiciste donne legate alla musica contemporanea.


Hess ‎– “Foulée” (Synesthetic Alchemy, 2019)
C’è una cosa che faccio negli ultimi quaranta giorni, oltre fare silenzio, ed è ascoltare Foulée, ultimo disco di Hess, novembre 2019, 213 Records; ascoltarlo come se non ci fosse un domani – che infatti non c’è, ogni giorno è adesso. Un percorso inviluppato di rassegnazione e perseveranza. Loop di sirene lontane accolgono continue variazioni, una dentro l’altra in una serie infinita di aperture e intensità. Diario emotivo di un cambiamento:
• “The Dream Itself Was the Cure”. Ti lamenti
• “All the Little Stars that Fart Around the Sun”. Parli / Rifiuti
• “The Death I Smell”. Guardi / Dormi
• “(Inside) Eyelids Music”. Ti interroghi
• “So Sexy It Becomes Hostile”. Aspetti
• “On ne craint la mort que quand on pense avoir un avenir”. Capisci
• “Un jour, on ne se verra plus”. Ricordi
E poi arriva “I’ve Been on this Street a Thousand Times” e a un tratto è primavera inoltrata, rondini ovunque, pomeriggio tardo. L’aria è tiepida e tu sei per strada. Stai raggiungendo qualcuno? Tutto sembra possibile e ti viene da ridere. Ed ecco che improvvisamente puoi fare la cosa più sconcia, oggi… Camminare senza una meta.

ENRICO LAZZERI


Definirlo un dj è riduttivo. Divulgatore e agitatore culturale, piuttosto. Appassionato e profondo conoscitore dell’underground – che si tratti di musica ma pure di calcio balcanico, altra sua passione – Enrico Lazzeri alias DJ Herny è un’istituzione a Milano – nella cultura mod, ma anche di un’ampia fetta di popular music che va dagli anni 60 ai giorni nostri. Shanty Town, Milano Mods, Rollin’and’Tumblin, La Società Psychedelica: difficile non abbiate mai sentito il fruscio di un suo 45 giri se frequentate concerti e serate a Milano.


Terry Allen & The Panhandle Mystery Band ‎– “Just Like Moby Dick” (Paradise Of Bachelors, 2020)
Chi meglio di Terry Allen, texano di adozione, può in questo momento drammatico, surreale, sospeso, condividere con noi l’isolamento forzato? Sì perché il mordace cronista delle piccole cose quotidiane, degli aneddoti, dei personaggi borderline delle sue storie, si crogiola sovente in una solitudine che fa dei grandi spazi della sua terra adottiva – sebbene lui sia nativo di Wichita, Kansas – il punto di osservazione di una clausura spazio/temporale che ne ha sempre contraddistinto la scrittura. Il suo nuovo album, citando il grande cetaceo di Melville, ci pone di fronte al mistero della natura che l’uomo non può domare o sfidare. E Moby Dick, seppur in queste dimensioni nanometriche, è la metafora del Covid-19, dove la natura fa il suo e l’uomo cerca di arginarla trincerandosi; per ora, l’unico arpione possibile è la solitudine nel distanziamento, che diventa come una sorta di riflessione sul fine ultimo dell’esistenza. Se l’ascoltatore è un profondo individualista si troverà a braccetto con Allen: le sue tematiche, sviluppatesi nella forma sonora di un classico songwriting americano delle origini e dal piglio fortemente narrativo, lo portano ad affrontare il disagio odierno con l’arguzia dialettica di un soliloquio cinico, amaro, irriverente ma anche ironico. In fondo di questa Moby Dick virale non sappiamo nulla, possiamo solo elucubrare e cercare di fare un resoconto della nostra vita, che ora non può spingersi troppo al di là del balcone. Il Texas è un posto per loner, esattamente come il nostro isolamento che non consente nemmeno di vivere i lutti di chi non c’è più nella condivisione di abbracci, e il gospel laico di “Abandonitis” descrive una sensazione precisa, toccante e in tal senso affine. Concentriamoci anche sullo sguardo beffardo di “Houdini Didn’t Like The Spiritualists” o sull’amarezza cinica di “Death Of The Last Stripper”, sorta di quadro malinconico di un mondo in disfacimento. Terry Allen non ha abbandonato l’ispirazione che lo portò a un grande capolavoro del songwriting americano come “Lubbock” e la sua maturità di artista, mescolata alla sua nota passione per le arti visive, ci consegna un disco adatto alla riflessioni della catastrofe mondiale a cui stiamo assistendo. E ci conduce verso un viatico di (laiche) escatologiche traiettorie sul futuro incerto e molliccio.

MARCO LIGURGO


La sua storia bolognese inizia nei 90 quando, studente emigrato dalla Puglia e dj a tempo perso, forma con Antonio Puglisi gli Unzip Project, progetto di musica da decompressione e dj resident del mercoledì al Link di via Fioravanti. Ma il suo nome, oltre alla Playhouse, mitica serata al Kindergarten di riferimento per gli amanti della minimal tedesca, si lega soprattutto al roBOt festival, di cui è fondatore e direttore artistico dal 2008. Va da sé la sua passione per i suoni elettronici “suonati” e per le nuove frontiere analogiche e digitali con un riflesso anche sul dancefloor. Nei club di Bologna, lo trovate spesso in consolle con il suo carico di ottimi vinili.


Connan Mockasin ‎– “Caramel” (Phantasy Sound, 2013)
Mi sono innamorato di Connan Tant Hosford una decina di anni fa a Berlino, era da poco uscito il suo album di esordio “Forever Dolphin Love” e una mia amica di origini turche mi stava portando a conoscere Neukoln per “baretti” – uno dei miei sport preferiti – quando a un certo punto finiamo a bere in un locale dove c’era un dj superfreak, con capelli biondi e occhiali bizzarri, che tira fuori questo disco: una voce strana e accattivante che mi ricordava Perry Farrell dei Porno for Pyros, ma anche Prince e un’atmosfera psichedelica, sospesa, a volte melanconica, a volte supersexy, a cui abbandonarsi perdutamente come l’amore per i delfini. A questo punto lascio la mia amica parlare con tutto il locale e corro dal dj, «Di chi è questo disco??» «È Connan Mockasin», mi risponde il dj australiano, e da lì entro nel magico mondo di CM, il mio neozelandese del cuore. Ogni volta che lo ascolto mi trasporta in un’atmosfera ipnotica e visionaria: la sua chitarra, la sua voce, le improvvise variazioni ed evoluzioni dei suoi brani. Ogni volta un viaggione mistico, come quando parte “Fools Gold” degli Stone Roses o la parte di “This is the End” in cui Jim Morisson dice alla madre che vuole scoparla e al padre che vuole ucciderlo, ma anche con quel sapore un po’ rétro come in una colonna sonora di un film di Lynch, ma anche di un porno anni ‘70. Quando esce “Caramel” sono pronto! Io lo amo, lo ascolto da sette anni senza mai stufarmi, mi piace tutto, anche quando si perde per poi ritrovarsi, anche quando geme, anche quando i suoni sembrano allontanarsi per poi ritornare. Ho concluso che mi faccio violentare volentieri dal disco, sì finalmente senza opporre resistenza, totalmente abbandonato ai suoi percorsi mentali, psichedelici, ammalianti e seducenti fino a piangere come in “Why Are You Crying?”. Come definirlo? Dream Pop, psichedelia sgocciolante, soul da eunuchi, elettronica senza ogm? Io direi semplicemente CONNAN. Due anni fa è uscito il suo terzo album “Jassbusters” e proprio l’anno scorso ho coronato il sogno di vederlo dal vivo. Ahimè in Italia sono state rarissime le sue presenze e nessuna data per questo tour, per questo, grazie a un bellissimo regalo di compleanno della mia compagna, sono andato a vederlo a Praga al MeetFactory: strepitoso, se vi capita non perdetevelo, dal vivo è ancora più incredibile, è come assistere a un rito sciamanico in cui CM porta il suo pubblico dove vuole. A fine concerto, da buon groupie sono riuscito ad abbracciarlo e a scambiarci due chiacchiere, ama la musica e i concerti ma anche la famiglia per cui alterna periodi di tour a lunghe pause, speriamo che presto torni con un nuovo disco.


Boards Of Canada ‎– “Hi Scores” (Skam, 1996)
I BOC sono il mio gruppo di musica elettronica preferito da oltre vent’anni. Non credo sia necessario presentarli o descriverli, ma mai come in questo momento “particolare” che stiamo vivendo a causa dell’emergenza Covid-19, chi non li conoscesse ha il diritto e dovere di farlo. I mondi nei quali è in grado di trasportarvi il loro suono sono infiniti e toccano il lato più profondo dellanima. Amo quasi tutti i dischi dei fratelli scozzesi Sandisan in maniera assoluta, ma se dovessi sceglierne uno non ho dubbi, è questo: “Hi Scores” del 1996, e se dovessi scegliere una traccia che mi accompagni all’infinito dopo la vita terrena è “Everything You Do Is A Ballon”, che conclude questo capolavoro uscito su Skam Records. Fantastico l’accoppiamento video che si trova su Youtube al corto “One Got Fat: Bicycle Safety” del 1963.

NICOLA ROMANI


Forse non avete presente la sua faccia, ma con tutta probabilità siete stati a un concerto che ha organizzato – più o meno in mezzo Stivale. Da Fano a Roma (via Urbino, qualcuno ricorderà pure il mitico Frequenze Disturbate), Nicola Romani è una delle colonne portanti di DNA Concerti, agenzia che negli anni ha portato in Italia gente tipo Sonic Youth, Kraftwerk, Nick Cave e Wilco e organizzato per cinque edizioni un festival ambizioso come il Siren di Vasto. Se invece avete presente la sua faccia, forse lo avete visto con un’espressione allucinata dietro le pelli degli Edible Woman.


Van Dyke Parks ‎– “Discover America” (Warner Bros. Records, 1972)
Il disco che ho deciso di farvi ascoltare è un disco per me fondamentale, perché mi fa stare bene. È un disco che non riesco a non ascoltare senza ridere da solo, ballare e cantare; ecco perché ve lo consiglio in questi giorni d’isolamento forzato, magari avrà lo stesso effetto su di voi, ne sarei davvero felice. Si tratta di “Discover America”, secondo album di Van Dyke Parks, pubblicato nel 1972 (e in seguito ristampato da Bella Union); per chi non lo conoscesse, Van Dyke Parks è musicista, arrangiatore e autore di testi – oltre ad avere curato svariate colonne sonore – e:
• Ha lavorato (tra gli altri) con: Beach Boys, Ry Cooder, Donovan, The Byrds, Silverchair, The Mighty Sparrow, Randy Newman, The Mothers Of Invention, Joanna Newsom, Ringo Starr, U2, Grizzly Bear e… Skrillex;
• Ha avuto il compito di curare testi e arrangiamenti di “Smile” per i Beach Boys, ovvero il disco “mai” pubblicato (almeno fino al 2004) perché troppo strano, impubblicabile per l’etichetta e per la band (che arrivava dal successo mondiale di “Pet Sounds”) e che diventerà anche la testimonianza musicale del crollo nervoso di Brian Wilson;
• Il suo primo lavoro da autore, “Song Cycle” del 1968, acclamato dalla critica (solo a distanza di anni) e ritenuto fondamentale nella storia della musica americana da moltissimi musicisti, fu un flop colossale, sia a livello di ricezione da parte del pubblico, sia perché costò alla Warner Records una fortuna e segnò per sempre (in negativo, ovviamente) il resto della carriera di Parks artista.
“Discover America” è composto da riletture, arrangiamenti ed esecuzioni orchestrali di standard di calypso (la vera ossessione di Van Dyke) risalenti agli anni tra il il 1920 e il 1940. A mio avviso, in realtà questo disco è più una scusa per esplorare senza alcun tipo di limite una (forse piccola, ma molto divertente) parte dell’universo musicale presente nel cervello di una delle menti più brillanti e naïf della musica americana del Novecento: si viaggia in una specie di capsula del tempo tra suoni di marimba, pianoforti da saloon e steel guitar, testi che parlano di Ammiragli diventati pirati e di Bing Crosby, di Edgar J. Hoover e Franklin Delano Roosewelt, di Trinidad e Tobago e dei primi gruppi vocali jazz, senza alcun tipo di limite. Un disco che è anche un ottimo punto di partenza per riflettere (per chi fosse interessato a farlo) sull’importanza delle figure musicali che stanno “accanto” (e non dietro, per citare Parks) ai grandi musicisti e che spesso hanno un ruolo fondamentale nel definire quei suoni e quelle parole che poi diventeranno la colonna sonora dei nostri sogni (o incubi) e come dice ancora Parks a creare la magia della musica che è la forma d’arte più democratica (tutti possono fischiettare una melodia) e pervasiva (si può fischiettare una melodia dappertutto o anche solo cantarla nella propria testa) fin qui creata dall’uomo.
P.S. la verità è che non faccio altro che pensare a lui da quando ho scoperto che ha anche scritto questo capolavoro.

RUGGERO PIETROMARCHI


È la mente e il direttore artistico del festival che in Italia più di tutti unisce sensibilità “green” e ricerca musicale, Terraforma, nonché fondatore di Threes, agenzia devota alla realizzazione di eventi che creano connessioni tra ricerca artistica e contesto/sostenibilità ambientale, con cui ha curato numerosi e notevoli progetti ed eventi site specific, non solo a Milano (tra cui, nella scorsa edizione, Nextones). Dal 2015 segue, in collaborazione a Lorenzo Senni, anche l’etichetta discografica Presto!? Records.


Urban Tribe ‎– “The Collapse Of Modern Culture” (Mo’Wax, 1998)
Non è chiaro quanto Urban Tribe sia un progetto collettivo ovvero un acronimo di Sherard Ingram aka Dj Stingray con una serie di illustri partecipazioni. Sicuramente in “The Collapse of Modern Culture” i contributi si fanno sentire più che negli altri album Urban Tribe: Carl Craig, Anthony “Shake” Shakir e Kenny Dikon Jr. aka Moodymann collaborano singolarmente con Ingram e contribuiscono alla realizzazione di uno dei dischi più importanti e forse meno considerati della scena elettronica. Eppure poco importa, perché la musica di “The Collapse of Modern Culture” parla da sola anche oggi a più di vent’anni dalla sua pubblicazione per l’inglese Mo’Wax. Il disco scivola tra scenari epici, a volte quasi mistici e altre volte invece frenetici, ma nel complesso senza dare veri e propri punti di riferimento – e per questo da considerarsi timeless music, a parer mio. Alcune atmosfere possono portare su una highway della Motor City, altre fanno pensare a un laboratorio di biotecnologia. Detroit techno, senz’altro, ma nella forma meno di genere e più raffinata che sia stata prodotta. Tant’è vero che in quegli anni Mo’Wax parallelamente a “The Collapse of Modern Culture” faceva uscire i migliori album di Dj Shadow e Dj Krush, e non per nulla, dopo questo disco, su Mo’Wax è arrivato niente di meno che Richard D. James a pubblicare i due successivi album di Urban Tribe per la Rephlex. Per chi volesse ancora approfondire, suggerisco uno tra i miei brani preferiti da sempre: “Her” dall’EP “Social Engineering”, uscito nel 2009 per l’etichetta viennese TRUST. Infine, un accenno al design del disco, opera d’autore di Will Bankhead (Honest Jons, Trilogy Tapes) con un design minimalista all’insegna dell’ipnotico sulla copertina e sui centrini, mentre sulle sleeve interne troviamo una serie di scatti fotografici a opera dell’autore, in grado di elevare a un ulteriore livello espressivo la musica incisa sui dischi. Buon ascolto.

I CONSIGLI PRECEDENTI

  1. Puntata #1
  2. Puntata #2
  3. Puntata #3
  4. Puntata #4
  5. Puntata #5

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