La storia di Radwan Ghazi Moumneh è una delle più affascinanti raccontate dal 2015. Di quelle in cui tutto è un po’ diverso da come appare, almeno all’inizio. Nato nel 1975 in Libano, con la famiglia lascia la sua terra rivoltata dalla guerra civile per trasferirsi prima in Oman e poi in Canada: qui, i suoi primi esperimenti musicali sono con il punk e l’hardcore, agli antipodi di ciò che avrebbe suonato di lì a qualche anno; le prime interazioni con la cultura occidentale si rivelano pessime, a dispetto degli esiti spiazzanti ed evocativi che avrebbe ottenuto in futuro con Jerusalem In My Heart, facendo incontrare musica tradizionale araba ed elettronica contemporanea. JIMH, formazione che condivide con il filmmaker Charles-André Coderre, non è una band o un progetto audio/video, ma un’installazione cerebrale, un’esperienza immersiva e visionaria, soprattutto dal vivo. Al primo ascolto, un orecchio occidentale è portato a credere che le composizioni di Moumneh abbiano la forma di una preghiera islamica, eppure Radwan è ateo e i suoi testi parlano, piuttosto, delle conflittualità sociali e politiche del Medio Oriente. Al secondo, sembrerebbe musica etnica, ma qui non ci sono paesaggi esotici, piuttosto una world music disturbata e autentica. Jerusalem In My Heart, in realtà, è un progetto attivo ormai da anni, con una lunga gavetta live alle spalle, l’esperienza di Moumneh come tecnico del suono del giro Constellation e un esordio datato 2013. Poi però, lo scorso anno sono arrivate la collaborazione spaziale con i Suuns e il “cannibalismo culturale” di If He Dies, If If If If If If: due degli album più affascinanti ascoltati nel 2015.
Scritto da Chiara Colli