In quest’epoca in cui la musica registrata ha perso la sua importanza nell’economia di una band (e parlo proprio di economia, denaro), è difficile districarsi nella discografia intricata dei Wolf Eyes. Mi risultano a oggi 108 album (in 20 anni!), più una quarantina di live e circa 30 ep: certo, molti sono autoproduzioni che trovate solo ai concerti, ma la scelta di inondare il mercato (?) di uscite rende ostico dare un senso al loro percorso. L’ultima pubblicazione per un’etichetta “ufficiale” (la Third Man di Jack White) risale allo scorso anno, si intitola I Am A Problem: Mind In Pieces e sembra un disco storico dei compaesani Stooges reinterpretato tramite kraut e noise; niente male, ma nel 2016 compare Strange Days, un cd-r dalle atmosfere più dilatate ed elettroniche – sembra una passeggiata tra le macerie di una zona industriale devastata – giusto per non far sapere cosa aspettarsi da un loro concerto. Il trio capitanato da Nate Young porta sul palco la storia di Detroit, come la si potrebbe interpretare da una vhs scassata salvata da una discarica, un montaggio random dove convivono istanze rock, noise, elettronica, jazz, industrial e tanto disagio esistenziale.
Scritto da Andrea Cazzani