Appena chiusa la bellissima mostra curata da Thomas Demand,L’image Volée, la Fondazione Prada inaugura Uneasy Dancer di Betye Saar, una delle artiste afroamericane più interessanti sulla scena. In teoria non ci sarebbe nessuna necessità di specificare “afroamericana”, perché Betye Saar è una grande artista e basta, ma non viviamo nel paese dei balocchi, e quella in corso è una battaglia mascherata dalle cerimonie controllate del mondo dell’arte. Se si guardano i numeri, le percentuali di artisti neri musealizzati, le cifre pagate per le loro opere o il numero di curatori neri nei posti di potere internazionale sono ancora parecchio scarsi, così come quello delle donne. Non funziona così solo per la politica, ma dovunque ci siano soldi e influenza, e l’arte non fa eccezione. Negli Usa, almeno, ne sono tutti pienamente consapevoli, e non cascano dal pero come dalle nostre parti.
E così se Prada decide di affidare tre mostre contemporaneamente a una curatrice afroamericana del livello di Elvira Dyangani Ose (curatrice alla Tate Modern di Londra e al Centro Andaluz de Arte Contemporáneo di Siviglia, e poi direttrice di GIBCA 2015, la Biennale di Göteborg), la quale a sua volta seleziona tre artisti come Theaster Gates, Nastio Mosquito e Betye Saar, allora ignorare il segno in nome dell’understatement sarebbe prova di fiacchezza morale e intellettuale.
Il caso non c’entra niente – e neanche Dio, come dice giustamente Benicio del Toro nei panni di Pablo Escobar al candido surfista canadese -: la ruota gira, e sta ingranando.
Dopo avere ricevuto nel 2014 l’ambitissima Edward MacDowell Medal e dopo che le sue opere sono state acquisite dai maggiori musei mondiali, dal Whitney al Los Angeles County Museum, con i suoi 80 anni e la fiera acconciatura Betye Saar arriva a Milano sotto le spoglie di una danzatrice incerta, portando con sé un universo di oggetti assemblati, trasformati, plasmati per tradurre un pensiero umanista, lontano oceani dalla stolidità della visione maschia e prometeica.
Scritto da Lucia Tozzi