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Delfino Sisto Legnani

DSL, il Figaro della fotografia di architettura e design, apre una casa editrice: AAA Books

Scritto da Lucia Tozzi il 11 aprile 2018
Aggiornato il 13 aprile 2018

Luogo di residenza

Milano

Lo studio DSL è un minuscolo affaccio a piano terra su Piazza Vetra che corrisponde a MEGA, lo spazio fondato quasi due anni fa da Delfino insieme a Davide Giannella e Giovanna Silva. Ma sfogliando giornali, riviste, cataloghi di design, libri di architettura e fotografia italiani e internazionali il suo nome ricorre con una tale frequenza che è facile pensare a un trasloco imminente, in una struttura in grado di ospitare più collaboratori. Delfino Sisto Legnani è un personaggio solare, entusiasta, ma assolutamente privo di quell’esibizionismo, di quella foga comunicativa comune a tanti del giro. Lui fa e va, praticamente ovunque. In un equilibrio praticamente perfetto tra lavori professionali e ricerca appassionata, riesce a guadagnare, a intrufolarsi senza troppi problemi nei luoghi che vuole guardare, anche quelli più difficili come i magazzini Amazon o la Libia fresca di rivoluzione, e a mantenere il lato umano. Tra i mille progetti che ha per le mani, il più importante è una nuova casa editrice, AAA Books, che sta aprendo insieme a Louis De Belle.

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ZERO: Cominciamo dalle cose triviali: il Salone
Delfino Sisto Legnani:
Ecco! Partiamo ex abrupto. Dunque: parteciperò a un progetto dei Raumplan a BASE sul City making, intitolato Trouble Making. Abbiamo appena scattato la campagna. Una bomba! Ci saranno cinque sezioni affidate a cinque artisti che collaboreranno con pensatori, una delle quali sarà un mio progetto. Il progetto vuole esporre l’assurdità di tutti quei dispositivi che silenziosamente ma inesorabilmente stanno infestando i nostri spazi privati rendendoli non più privati. Sono partito dai bottoni di Amazon. Si tratta di dispositivi per fare acquisti semplicemente premendo il bottone: uno con sopra scritto Dash, che attacchi sulla lavatrice, un altro con lo yogurt Nestlè o delle birre da attaccare al frigo, un altro per i preservativi da attaccare al comodino, e così via, uno per prodotto. Quando finisce la scorta si schiaccia il bottone ed Amazon fa scattare il rifornimento. Se ti addormenti con la mano sul comodino, ti svegli la mattina con venti scatoloni di preservativi che ti suonano alla porta di casa!
Poi ci sono i robot aspirapolvere che mappano casa e la trasmettono. Oppure la serratura di Amazon, che sostituisci a quella esistente e si apre per far entrare il personale mandato da Amazon che ti porta la spesa, la mette in frigo e ti fa le pulizie in casa. Follia!
Sono elementi fortemente intrusivi che si insediano nell’ambiente domestico, come scarafaggi, mappano, rilevano, vedono, ascoltano e lo comunicano all’esterno.

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Resto sempre colpita da quanto poco la gente sia allarmata da queste cose
Infatti, anzi le persone sono generalmente entusiaste, di rendere il proprio spazio privato quasi pubblico

Se ti addormenti con la mano sul comodino, ti svegli la mattina con venti scatoloni di preservativi che ti suonano alla porta di casa!

Beh, pubblico ma solo ad altri privati inquietanti. Ma farai quindi un lavoro fotografico? O un’installazione?
Sicuramente fotografico, poi l’output installativo è in via di definizione e potrebbe avere elementi interattivi.

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Che altro farai al Salone? A parte il fatto che fotograferai metà delle cose, dei progetti e dei designer che esporranno al Salone, come ogni anno.
Beh, si, diciamo che per noi il Salone è un po’ il momento clou dell’anno professionale: il nostro anno si divide in prima e dopo il Salone. Tutti i clienti con i quali lavoriamo, aziende, studi di progettazione presentano nuovi progetti ed i nuovi cataloghi, il che significa che da molti mesi prima si lavora alla loro rappresentazione. E anche tutti i magazine a ruota vogliono le anteprime ed esclusive. Poi durante il salone confluiscono tutti i nostri clienti esteri… Art director, progettisti, editori etc. tutti contemporaneamente e tutti con richieste, proposte di lavori vari. Fortunatamente non tutte si concretizzano, ma sono frutto dell’euforia del salone! Dico nostri perché siamo uno studio, con il mio socio Marco Cappelletti e altre due persone fisse, Melania Dalle Grave e Alessandro Saletta e altri in aggiunta su progetti specifici.

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Gli assistenti lavorano anche alla pulizia delle immagini?
Ahah, beh si, la postproduzione è in gran parte fatta di pulizia! Alla fine si tratta di raccogliere carte per terra, spolverare mobili, spostare bidoni. Di fatto siamo a tutti gli effetti un’impresa di pulizie! L’obiettivo comunque è quello di delegare il più possibile la post, così da poterci concentrare sullo sviluppo di progetti e sullo scatto. Melania, che lavora da più tempo con noi, sa perfettamente in che direzione andare quando le diamo i raw. Basta un breve brief e poi non ha praticamente bisogno di indicazioni, lavora in autonomia anche perché segue anche la parte di pre-produzione spesso partecipando alle riunioni. Di fatto lo studio sta crescendo molto ogni anno e richiede un’organizzazione sempre migliore ed un ampliamento dell’organico. Ci troviamo sempre più spesso a dover rifiutare lavori, o a passarli ad altri: sarebbe intelligente fare una sorta di agenzia.

Ci stai pensando?
Bah di fatto già lo stiamo già facendo, passando lavori ai nostri assistenti o ad altri fotografi dei quali ci fidiamo e con i quali si condivide la sensibilità e con cui c’è un affinità professionale.

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Per esempio chi sono le persone che coinvolgi?
Amici, come Gaia Cambiaggi, Fabrizio Vatieri, fotografi- amici che stimo molto.

Il design dovrebbe provare a migliorare la vita delle persone, ma al Salone del Mobile vedo pochissime cose che ragionano in quest’ottica. Mi sembra sempre di più un grande circo a cielo aperto dove solo poche cose ti fanno pensare o almeno sorridere, ed ancora meno ti fanno pensare a uno sviluppo potenzialmente interessante, e poi il resto è tutto un cumulo di plastica che inquina

In che proporzione il tuo lavoro si divide tra la parte più propriamente commerciale e quella editoriale?
All’interno dello studio in genere io mi occupo più di progetti editoriali rispetto ai lavori “commerciali”, quindi personalmente mi occupo per il 70% di progetti editoriali o di collaborazioni con artisti. Il restante 30% sono campagne, cataloghi, commissioni da parte di architeti o designer etc. Mentre lo studio si attesta in maniera inversamente proporzionale su un 30% – 70% . Ma è difficile tracciare un confine netto tra le due: esiste una zona ambigua, per esempio quei casi in cui un ci vengono commissionati reportage autoriali che poi le riviste pubblicano come pubbliredazionali.
I compensi poi variano moltissimo, per un giorno in trasferta una rivista paga ciò che un’azienda è disposta a pagare cinque volte tanto. Diciamo che il grado di liberta ed autorialità diminuisce all’aumentare del nostro fee. Per questo preferisco guadagnare meno ma lavorare con maggiore libertà.

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Non me ne parlare, mi sento come Nanni Moretti in Io sono un autarchico, con la bava verde, quando sento queste cifre. Noi che scriviamo becchiamo 50 euro per un pezzo da 8000 battute, che richiede giorni di lavoro.
Lo so e davvero è una cosa che non capisco… Spesso viaggio insieme a giornalisti, gente molto brava che ama il proprio lavoro e che viene retribuita circa un quarto di quanto prendiamo noi fotografi. Immagino che in termini di marketing nei magazine il peso delle foto sia molto maggiore rispetto allo scritto. Non tutti leggono le riviste, molti le sfogliano e basta… È un po’ triste, perché temo ciò possa portare ad un circolo vizioso per cui i contenuti scritti alla fine perdano di qualità.

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E quindi, tornando al Salone, oltre a tutti i designer e ai clienti commerciali, sei anche sommerso dalle richieste delle riviste.
Ah si, ai tempi di Joseph Grima avevo l’esclusiva con Domus, adesso principalmente con Icon Design di Michele Lupi e Davies Costacurta, ma le richieste sono molte di più comunque di quelle che potrei accettare. C’è un calendario folle, per riuscire a beccare il massimo numero di eventi le riviste mi mandavano in giro con la macchina con autista. Oggi devo dire che tento di evitare, anche perché non m’interessa più molto. Inizialmente mi divertiva parecchio, ora preferisco vedere poche cose attentamente selezionate con gli amici, per il resto bisogna stare attenti a non occupare troppo spazio mentale: c’è troppo “inquinamento” di contenuti inutili. È abbastanza triste vedere la quantità di tempo ed energie investiti in progetti inutili: il design dovrebbe provare a migliorare la vita delle persone, ma al Salone del Mobile vedo pochissime cose che ragionano in quest’ottica. Mi sembra sempre di più un grande circo a cielo aperto dove solo poche cose ti fanno pensare o almeno sorridere, ed ancora meno ti fanno pensare a uno sviluppo potenzialmente interessante, e poi il resto è tutto un cumulo di plastica che inquina. Quando mi chiedono: “Com’è quest’anno il salone?” non so mai cosa dire, ci sono mille aziende che si rincorrono sull’estetica del momento o fanno greenwashing. Un po’ come Expo, dove tutti parlavano di cibo ma era comunicazione fine a se stessa.
Poi non voglio essere ipocrita: di fatto il mio lavoro è produrre la materia prima per la comunicazione. Dico solo che sarei molto felice di potermi occupare di meno cose ma migliori.

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In effetti anche le sezioni delle scuole sono la stessa cosa, e gli spazi sperimentali sembrano essere tutti orientati a quel design/arte costosissimo fondato sulle edizioni limitate.
Il trend è quello. Una delle cose che meglio ricordo delle annate del Salone era il progetto di Atelier Clerici sul design open source, con le stampanti digitali: la prospettiva di consentire a chiunque di produrre a basso costo in qualsiasi luogo un oggetto utile, ingegnoso, progettato bene, mi sembrava molto interessante, una potenziale rivoluzione, ma non mi pare che poi ci siano stati molti sviluppi…

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Si era interessantissima anche la RAM House, il prototipo di casa antiradiazioni che impediva l’intrusione della rete e dell’iperconnessione, il che si collega al tuo progetto per Trouble Making a Base. Ma invece con Joseph Grima non hai progetti specifici per questo anno?
Seguo sempre Joseph dal punto di vista fotografico, quest’anno ci sarà un nuovo progetto con un nuovo nome, Alcova.

Lo scopo della ricerca era proprio vedere cosa lascia una rivoluzione dal punto di vista urbanistico e architettonico, cosa resta delle architetture del regime.

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In autunno hai fatto quella mostra bellissima sulla Libia immediatamente dopo la rivoluzione, Troppo freddo per te qui, da Campo a Roma, come è nata?
Loro di Campo sono fichissimi, e la cura è di Emilia Giorgi. Nasce da una campagna fatta con Giovanna Silva. Ci siamo fatti ospitare nel 2012 da due amici di famiglia, ai tempi ancora residenti in Libia grazie ai quali abbiamo potuto girare (scortati dai ribelli) tutti i luoghi della rivoluzione partendo da Bengasi, Misurata arrivando a Tripoli, culmine del nostro “viaggio” conclusosi nel palazzo devastato di Gheddafi.

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Siete entrati?
Siamo entrati dentro il palazzo, c’era il salotto di Gheddafi completamente brutalizzato, fino alla camera da letto. Ho anche poi stampato la storia del compound di Gheddafi vista dal satellite Google Earth: come si espande negli anni fino a diventare enorme, e poi cominciano a comparire camion, mezzi blindati, fino alla demolizione progressiva e alla tabula rasa. Impressionante!
Lo scopo della ricerca era proprio vedere cosa lascia una rivoluzione dal punto di vista urbanistico e architettonico, cosa resta delle architetture del regime. In alcuni casi i rivoluzionari si appropriano degli spazi, mentre in Libia hanno cancellato tutto, non è rimasta più una singola effigie.

E dopo sei più tornato?
No, mai più, anche perché nel frattempo il paese è diventato totalmente off-limits, non visitabile come lo Yemen.

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Hai altri progetti?
La cosa più ambiziosa è il progetto di una nuova casa editrice di fotografia, insieme a Louis De Belle.

Il nome?
AAA Books. Faremo libri fotografici in edizione limitata e con qualità di stampa sopraffina. Ci siamo resi conto che l’editoria fotografica italiana tende a pubblicare principalmente gli autori legati alla scuola di Ghirri o Guidi, ignorano invece tutta una serie di autori di grande talento e anche molto apprezzati all’estero. Con ciò non voglio dire che non esista in italia ricerca o sperimentazione di qualità anzi curatori come Selva Barni, Francesco Zanot e Massimo Torrigiani, che hanno lavorato tanto con Viasaterna, indagano a fondo l’universo della fotografia locale con un punto di visto internazionale, o Benedetta Pomini ed Ilaria Speri che collaborano con noi in questo progetto o Luigi Alberto Cippini.

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Qualche nome?
Per esempio Vittoria Mentasti e Mattia Balsamini, amico e grande professionista. Poi autori stranieri poco conosciuti in italia come Daniel Stier o Andrea Gruetzner.

Il vostro piano è legato a generi particolari, a formati specifici?
No, essenzialmente al punto di vista, da qua verso l’esterno e anche in senso inverso, un punto di vista che rompe quella calotta di autoreferenzialità che regna abbastanza sovrana in questo circuito italiano. Il primo grande libro è su Ramak Fazel, curato con Benedetta Pomini e Gaia Cambiaggi, sul grande archivio Milan Unit.
Avremo due collane: una quasi senza testo, giusto una piccola introduzione, monografiche sui fotografi più giovani con un layout grafico fisso, ed un’altra collana più variabile, con formato e layout differente.
Ci sarà un libro di Vittoria Mentasti e Daniel Tepper, una duo di fotografi giovani che vivono tra Italia, India e USA. Il titolo è Drone Nation, un progetto sui droni nella striscia di Gaza. Sono riusciti ad infiltrarsi nei luoghi di produzione e pilotaggio dei droni, e poi a restituire la realtà inquietante dei cieli palestinesi, continuamente solcati da droni che non si sa che fanno: potrebbero sganciare bombe oppure cibo e aiuti, o fotografare, controllare.

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E libri tuoi?
Ce ne sono parecchi in cantiere. Uscirà a breve l’Atlas di Palermo in occasione di Manifesta. Un documento interessantissimo ideato e sviluppato da OMA, nella persona di Ippolito Pestellini Laparelli, che restituisce un ritratto inedito sulla città, al quale sono stato invitato a partecipare fotografando luoghi incredibili. Poi sempre con OMA ed Irma Boom un libro sul loro intervento a Doha in Qatar. Poi un altro, al quale tengo molto, è su una campagna fatta in campo profughi in Grecia, a Ritsona, 50 km a nord di Atene un ex base militare. Inizialmente una distesa di tende bianche tutte uguali che in sei mesi è diventata uno spazio psichedelico, una specie di trionfo dell’autocostruzione – o della resilienza, per usare una parola di moda. Sono stato lì prima che radessero tutto al suolo, come a Calais, per metterli in quegli orribili container bianchi chiamati Isobox, non trasformabili, alienanti: hanno ucciso gli spazi comuni, la vita comunitaria, la cultura manifesta.

Magari però offrivano anche qualche comfort in più, no?
Mah, si, l’aria condizionata d’estate forse. Loro però non erano contenti, si erano autocostruiti delle specie di regge e si sono ritrovati nelle scatolone

Immagino, se uno ha investito tempo e magari un po’ di denaro nell’espansione non vuole essere di nuovo compresso: però magari il malcontento per essere ricondotti all’uniformità può dipendere non solo dal desiderio di esprimere le differenze culturali, ma anche dalla soppressione di una serie di privilegi, di rapporti di forza non necessariamente positivi, no? Comunque,con chi pubblichi questo progetto?
Da solo, in edizione limitata

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Che fate a Mega?
Presentiamo un LP prodotto da Gabber Eleganza con relativo after, poi durante Miart ci sarà un installazione con performance dei Zapruder. Poi saremo a Palermo a Manifesta con un progetto matto!

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Finalone: dove vai a mangiare e a bere?
A casa. La Latteria di San Marco è il mio posto preferito perché è ciò che più si avvicina alla cucina casalinga. Per bere vado al bar Anny, in via De Togni, un posto eccezionale, anzi avremmo dovuto fare là l’intervista. Se voglio sentire musica vado al Santeria Social Club, al Biko o al Torchiera

So che collezioni vinili, ci racconti in base a che cosa li scegli e dove li recuperi? Ci sono dei negozi che ti piacciono o vai solo su internet? Prediligi le copertine, le edizioni rare, cosa cerchi? Ha cambiato il tuo modo di ascoltare musica?
Colleziono vinili principalmente di Reggae, Roots, Dub, Rocksteady, Ska e musica africana degli anni 50-60-70. Non sono un collezionista radicale: non mi prendo particolare cura del vinile. Lo uso. Quando valuto un acquisto non m’interesso molto delle edizioni o dello stato estetico della copertina. Il disco deve suonare bene per il resto mi adatto alle condizioni in cui si trovano, anche perché gran parte sono dischi rari stampati in Jamaica molti anni fa e in poche copie dunque di difficile reperibilità.
La fonte di approvvigionamento principale è online su vari siti specializzati nel genere, poi ovviamente mi piace molto andare in negozi fisici. Durante i miei viaggi di lavoro tento sempre di ritagliarmi un po’ di tempo per sgrufolare nei negozi di vinili delle varie città: purtroppo qui a Milano sono pochi i negozi validi sull’usato, l’unico dove riesco a recuperare materiale è Serendipity (che comunque vende solo nuovo)

Ci faresti una playlist?
Yessa! Eccola, ho buttato dentro di tutto:

Collezioni anche altri oggetti? opere d’arte?
Beh, ho una propensione al collezionare certamente trasmessami dai miei genitori entrambi golosi di collezionismi più o meno improbabili. Mio papà collezionava, tra le altre cose, semi di piante, una collezione più volte esposta in varie mostre, più per la forma che per una valenza scientifica. Mia mamma qualsiasi tipo di materiale stampato: inviti di mostre e sfilate o cartoline, stampe antiche, mappe, buste, etc etc. Entrambi accomunati dall’acquisto compulsivo e costante di libri di ogni epoca e tema.
Io invece colleziono foto, libri fotografici, prime edizioni, edizioni limitate, firmate, dagli anni 70 al contemporaneo. A Milano c’è Micamera una meravigliosa libreria, dove trovare edizioni rare a prezzi umani e dove trovare sempre consigli appassionati.
Di opere d’arte o pezzi di design ormai inizio ad avere una piccola ma interessante collezione formatasi un po’ in cambio di lavori fatti per artisti ed un po’ acquistati durante raptus di follia.

Chi sono i grandi (noti o meno noti) fotografi che ti hanno colpito, a parte Ramak, e perché?
Quelli che più mi colpiscono sono quelli con i quali condivido un’estetica. Mi stupisce molto vedere in altri autori scelte simili a quelle che avrei potuto prendere io. Tra gli amici i già citati Louis De Belle, Mattia Balsamini o anche Lorenzo Vitturi. Per citare autori più storicizzati, gran parte della “gang” di Dusseldorf (Struth, Gursky, Demand) poi i new topographers ed i vari Moholy-Nagy e compagni della Bauhaus o gli autori del Neue Sachlichkeit (nuovo oggettivismo) come Albert Renger-Patzsch e Keld Helmer-Petersen

Che rapporto hai con la fotografia altrui?
Credo ottimo! Guardo con grande interesse e spesso ammirazione le foto di altri. Mi rende felice la fotografia. Credo che mi appaghi in sé a prescindere dall’autore. Spesso mi capita di vedere foto meravigliose realizzate da altri che magari avrei voluto scattare io, o che addirittura avevo pensato di scattare, ed il vederle manifestarsi davanti ai miei occhi ha un che di magico. Vedo a volte la fotografia come un elemento trascendente che si rivela indipendentemente da chi ha realizzato l’immagine. E questo è già bellissimo, forse ingenuo, ma lo stupore genuino nel vedere una cosa bella ed interessante è il movente forse in generale dell’arte, decidere di condividere punto di vista. Nel momento in cui intercetti la sensibilità che ti accomuna con l’autore, l’opera diventa in parte tua.