Gian Maria Tosatti, reduce dalla vittoria del Premio Fondazione Ettore Fico alla recente Artissima a Torino e attualmente stabile a New York, tornerà a Napoli dopo un percorso triennale per realizzare il ciclo Sette Stagioni dello Spirito, promosso e organizzato dalla Fondazione Morra, con il sostegno della Galleria Lia Rumma e la collaborazione di un incredibile numero di realtà del territorio. L’occasione sarà la grande mostra a chiusura del progetto, curata da Eugenio Viola, che aprirà al museo MADRE il 17 Dicembre: abbiamo voluto incontrarlo per parlare con lui di tutto, del suo lavoro, delle grandi narrazioni e delle utopie, della città di Napoli, della passione per la cucina e di Gianfranco Zola e il Parma Calcio.
Zero: Sta per aprire al MADRE la tua mostra Sette Stagioni dello Spirito. Come racconteresti la tua residenza a Napoli, e che rapporto ha con questa mostra il progetto omonimo che hai portato avanti nella città per tre anni?
Gian Maria Tosatti: La mostra di Napoli nasce appunto dal progetto triennale, Sette Stagioni dello Spirito, che è stato un grande romanzo visivo scritto a partire dal 2013 insieme alle persone della città, circa 25.000 napoletani che hanno seguito questo ciclo e hanno visitato gli spazi. Un progetto enorme, che ha riaperto sette grandi edifici della città in cui sono stati installati i sette capitoli, una storia che ha richiesto molto tempo e molto impegno, una grande costanza per poterla seguire e sentircisi all’interno come protagonisti, personaggi di questo racconto.
Tantissime persone però non sono riuscite a seguire con costanza tutte le tappe, e abbiamo quindi pensato di fare una mostra che racconti questo ciclo. L’idea in parte era nata in precedenza: volevamo fare una mostra nello studio, poi Andrea Viliani, direttore del MADRE, mi ha chiesto di fare qualcosa nel museo, e fin dall’inizio gli dissi che era impossibile fare qualcosa al suo interno perché il lavoro era pensato per stare per strada, fra le strade e in mezzo alla gente. Quindi pensai che l’unica cosa che potevo portare in un museo era la mostra dello studio, portando lo studio stesso nel museo!
Questo sarà la mostra: un modo per ripercorrere i tre anni dalla prospettiva dello studio dell’artista. Ci saranno delle sale, ognuna delle quali riprodurrà – ovviamente non in maniera iperrealista – ciò che si è raccolto nello studio tra disegni, immagini, fotografie, resti… Nello studio l’opera si faceva e l’opera poi tornava, quando tutto finiva e si smontava l’installazione. Ogni sala sarà una declinazione dello studio presa nel tempo, e ci sarà poi un prologo, che consisterà in una parte “vera” dello studio trasportata per l’occasione, come opera d’ingresso.
Il tuo lavoro si è spesso focalizzato sull’identità, sul ruolo dello spazio e dell’architettura. In questi tre anni come hai costruito il rapporto con la città di Napoli?
Napoli è una città dove tutto è possibile. È raro trovare un divieto, entri nei luoghi… Poi ovviamente abbiamo dovuto chiedere i permessi, però è stato tutto abbastanza semplice, ovviamente rispetto ad altre realtà. Ci sono voluti mesi per le autorizzazioni, ma in altre città italiane sarebbe stato difficile, e a New York, dove vivo ora, ancora di più: è la differenza tra investirci del tempo e non poterlo fare proprio!
A Napoli abbiamo trovato persone in ascolto e un entusiasmo che ci ha permesso di poter lavorare, e di contro abbiamo trovato anche un pubblico che non ha avuto bisogno di essere incanalato o indirizzato: noi abbiamo aperto delle porte in mezzo allo spazio urbano e in un tessuto sensibile – quale è quello napoletano – le persone hanno risposto immediatamente, si sono intrufolate negli spazi, hanno fatto domande, e da qui hanno dato corpo loro stessi a quest’epica di Sette Stagioni dello Spirito, che alla fine era diventata una sorta di intento latente nella città che faceva in modo che ogni volta che un nuovo numero – perché ogni installazione era contraddistinta dal numero corrispondente all’ingresso – compariva in una via subito iniziava il passaparola. Questo portava migliaia di persone a vederlo, leggere il capitolo nuovo del romanzo. Proprio come un romanzo a puntate insomma, o come una serie televisiva: quando esce la nuova puntata di Game of Thrones subito tutti corrono a scaricarla…
Adesso sei tornato a vivere New York. Come pensi che questa pratica e questa dimensione progettuale possa essere messa in atto in un contesto così differente, e su una scala così diversa?
Questa specifica è chiaramente un po’ più difficile. Napoli è una città dove si vive per strada, e in questo senso sarebbe più difficile metterla in atto anche in qualsiasi altra città italiana: ero andato lì per fare un progetto specifico, avevo preso un aereo contromano – perché ero tornato in Italia mentre già vivevo a New York, e questo è sotto tutti i punti di vista andare contromano! – perché era l’unica città che mi avrebbe permesso di fare questo tipo di ricerca in maniera così radicale.
A New York poi non fai cose tanto diverse, anche perché lì c’è più vicinanza tre il mondo dell’arte e la vita quotidiana delle persone, anche se non di tutte ovviamente visto che stiamo parlando di una città enorme con tantissime comunità differenti. L’arte contemporanea fa parte del ricco discorso collettivo, per cui trovare la partecipazione non è poi così difficile, devi lavorare sul progetto giusto.
A proposito di partecipazione, vorrei chiederti di raccontare il primo lavoro tuo in cui mi era capitato alcuni anni fa di imbattermi, e che ritengo ancora paradigmatico: il “telescopio” sul tetto del MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia, a Roma.
È una storia molto semplice. A Bologna volevo fare un lavoro ricostruendo una specie di chiesa vuota, occupata da migranti che stavano costruendo un’astronave per emigrare sulla luna. La luna in fondo è un simbolo dell’utopia, dello spazio libero… Il progetto prevedeva una chiesa a due piani, con al piano terreno questa astronave, e al primo piano uno sfondamento del tetto con un grande telescopio che guardava la luna. Tutto questo – astronave e telescopio – realizzati con materiali di recupero, dalle discariche: in fondo i migranti cosa potrebbero trovare, i materiali della NASA? Possibilmente il telescopio avrebbe dovuto essere fatto con i barili del petrolio, in quanto simbolo del potere e della sua caducità: è un elemento che guida ancora parte dell’economia mondiale e che attraverso l’inquinamento miete milioni di vittime ogni anno, un potere terribile e nero i cui simboli però ritrovi nella monnezza. Purtroppo non riuscimmo a realizzare questo progetto, ma un giorno mi chiamò un amico antropologo – Giorgio de Finis – che aveva appena iniziato a dare vita a quello che poi sarebbe diventato il MAAM con questo progetto che si chiama Space Metropoliz. Mi disse appunto che voleva fare un film, una specie di remake di Le Voyage dans la lune di Georges Méliès, in cui insegnavano ai migranti ad andare sulla luna, coinvolgendo artisti, facendo opere negli spazi della fabbrica ex Fiorucci sulla Prenestina, e io fui il primo a essere chiamato appunto come artista. Io risposi subito che avevo un’opera da dargli, il telescopio, perché l’astronave avrebbero dovuto costruirla loro (e in effetti l’hanno costruita!).
Così ho iniziato a lavorare, però sempre con loro: il primo giorno arrivai in questa ex fabbrica abbandonata, nella peggiore periferia di Roma, e non venne nessuno. Cercai di andare via la sera e trovai il blocchetto del motorino forzato. Il secondo giorno ritornai – con il blocchetto del motorino distrutto, ancora oggi potete ritrovarlo lì! – e solo alle cinque arrivò una persona, Daniel, che però rimandò l’inizio dei lavori alla mattina successiva, ormai era tardi… Anche il giorno dopo nulla, ma finalmente al mio ritorno Daniel si presentò la mattina e iniziammo a cercare di capire cosa recuperare dalla fabbrica dismessa, come realizzare il telescopio insomma. In poco tempo si creò una squadretta di lavoro, e questo per me era fondamentale: con due operai avrei potuto realizzarlo in pochi giorni, invece ci è voluto un mese e una settimana, però era un progetto da fare con loro.
A metà lavorazione poi – io avevo pensato inizialmente di posizionare il telescopio nel cortile della fabbrica – uno della squadra mi disse che avrebbero voluto metterlo in cima alla torre. Era una torre di quaranta metri, senza scale se non quelle esterne di ferro alla marinara, e il telescopio è lungo quattro metri e alto più di due! Risposi che era praticamente impossibile, non avevamo i mezzi, e gli chiesi perché volevano farlo: «Anche in questa periferia la gente non ci vuole vedere, finché siamo dietro queste mura del ghetto, della fabbrica va bene, ma come usciamo lo noti subito. Vorremmo mettere questo telescopio come un simbolo sulla cima della torre, per fa capire a tutti che noi siamo qui perché abbiamo dei sogni, sogniamo una vita migliore»
Cosa gli potevo dire? No, non si può? Quindi ci siamo in pratica ammazzati per tirarlo su a mano con le corde, abbiamo rischiato la vita, e c’è il film Space Metropoliz che lo documenta.
Adesso il telescopio è un simbolo importante di integrazione a Roma, tre anni fa nel quartiere di Tor Sapienza ci sono stati scontri, ronde a sfondo razziale, e il MAAM in mezzo a tutto questo è rimasto un’isola felice e nessuno l’ha toccato; e ancora oggi sempre grazie al MAAM hai un via vai continuo di persone dalla città che per nessun’altra ragione al mondo andrebbero in quel quartiere. Abbiamo trasformato un muro, una barricata in un ponte: gli abitanti di quella città, persone venute da tutto il mondo, emarginate da una società, sono diventati una comunità e ora gestiscono un museo con più di cinquecento opere, tutto grazie a Giorgio de Finis. Avesse fatto una cosa simile a New York, oggi stava al MoMA…
Fin dall’inizio la tua pratica artistica è stata costantemente affiancata dalla scrittura. Che rapporto c’è?
La stessa che aveva Pasolini con la sua attività di giornalista, di regista oppure di poeta. E non per fare un paragone con la figura ma per capire la meccanica: l’artista italiano per formazione, storia, tradizione è una figura che ha un ruolo nella società e lo esprime con tutti i mezzi possibili. Carlo Levi, che era un pittore, ha scritto un libro importantissimo, capitale, tantissimi lavori di narrativa e alcuni saggi bellissimi; Michelangelo era un poeta, un pittore, uno scultore, un architetto… L’artista italiano è una figura complessa per tradizione e io, in fondo nemmeno per volontà ma semplicemente per appartenenza a una tradizione, mi sono trovato a potermi muovere su più livelli: e non semplicemente tra più discipline artistiche, ma a poter usare più strumenti per fare quello che l’artista in fondo deve fare, comunicare con la sua comunità.
Ti sei trovato nei tuoi lavori ad affrontare anche una dimensione storica dello spazio?
In realtà mi è successo raramente di volermi confrontare con questa dimensione. È ovvio che lavorando su uno spazio che ha trecento anni te ne rendi conto, ma in fondo è questa una banalità. Di solito non mi interessa la storia dello spazio perché mi interessa di più la storia che lo spazio può raccontare, il sogno di quello spazio. Un po’ come una persona che lavora come assicuratore, ma sogna di fare il calciatore: io mi occupo del sogno – di che storia mi può quindi far raccontare uno spazio – la verità mi interessa poco. Anche nelle interviste, se si parla di sogni, possono venire fuori storie incredibili, quasi un romanzo, qualcosa insomma che valga la pena di leggere!
Gli ex magazzini del porto di Napoli possono avere una storia molto interessante, commerciale, in un contesto importante, ma per me questa è imparagonabile al fatto che con il terzo capitolo di Sette Stagioni dello Spirito abbia trasformato lo spazio in una doppia basilica – inferiore e superiore – dedicata alla figura di Lucifero, che era il carcere ma anche la cattedrale all’interno del quale sconta la sua condanna eterna. Entrando il visitatore trovava il deserto, oppure finestre verticali aperte nel pavimento che mostravano il cielo capovolto, proprio come nell’Inferno di Dante. Penso sia imparagonabile, così come lo è la chiesa dell’Ospedale Militare trasformata per il settimo, Terra dell’ultimo cielo, in una sorta di enorme voliera, un paradiso scavato in una roccia dove volano uccelli di tutti i colori e fioriscono alberi: quella chiesa secondo me non è mai stata così bella. In fondo era un’anonima cappella privata all’interno di un bellissimo complesso…
Adesso devo passare a un altro registro però. Tu sei tifoso del Parma Calcio, giusto? da dove nasce questa passione per la squadra della mia città?
Vero! Io sono cresciuto in una casa di donne, e il mio sogno rimane un po’ quello di Fellini… Ovviamente però il calcio non esisteva, e quindi sono arrivato all’età di dodici anni senza aver mai tifato una squadra. Quell’anno però iniziava ad essere famoso il Fantacalcio, e noi non giocavamo con le regole ufficiali: ognuno semplicemente si prese una squadra e visto che i miei amici erano praticamente tutti dell’AS Roma, qualcuno della Lazio o del Milan al limite, che all’epoca era forte, io scelsi il Parma perché sembrava interessante. Da quel momento iniziai a seguirlo e mi appassionai, perché era veramente una grande squadra! Poi come fai a non seguire una squadra che all’epoca aveva in campo Gianfranco Zola? Lui arrivò l’anno successivo, ad affiancare Sandro Melli, Faustino Asprilla e Tomas Brolin – e già poteva andare bene così! – e da quel momento non ci fu più storia: il più grande giocatore che la Serie A abbia mai visto.
In passato mi sono anche trovato a scambiare con te ricette d’artista, per il progetto personal foodonsale, e ho sempre seguito la tua passione per la cucina. Dopo Napoli, continua anche a New York?
A New York o cucini tu da solo o muori! Non è neppure una passione, è il desiderio di mantenersi in vita… Sono riuscito a conservare questa passione però, mi piace mangiare, e il non poter trovare quello che mi piace già cucinato – almeno a prezzi possibili – mi obbliga in un certo senso a continuare. Io poi a New York ho vissuto per un periodo insieme a un amico curatore dell’Artists Alliance, Alessandro Facente, un compagno di viaggio per me e un altro grande appassionato di cucina. Quindi era un contest continuo a casa nostra: lui era il re incontrastato della carbonara, io quindi mi sono specializzato sull’amatriciana per compensare… Diciamo che a casa nostra ha sempre regnato quello che chiamavamo er maiale con le rote, tradotto in America come pork on wheels. Spesso arrivavamo a casa stanchi dopo una giornata di lavoro, ma avevamo comunque voglia di una di queste ricette, per cui ci guardavamo pensando a come ci sarebbe davvero voluto un maiale con le ruote, in modo che potesse arrivare direttamente lui da noi… Invece ci toccava andare, distrutti, in un supermercato alle dieci di sera a cercare un pezzo di pancetta. Facente ultimamente è specializzato nella pizza, io ho trovato invece questo negozio di cibo italiano, La Buona Italia, nel Chelsea Market – quindi anche molto comodo per me, vicinissimo alle gallerie – con un fantastico assortimento di altissima qualità a prezzi possibili, considerando che siamo a New York.
A Napoli invece c’è un posto del cuore per te, legato al cibo?
Ne potrei dire tanti, capitale per me però è l’osteria di Lello a Forcella: La Piazzetta, in piazzetta Sedil Capuano. In primis perché Lello è molto bravo, è un’osteria di strada ormai frequentatissima ma che io ho visto aprire. Poi significa per me anche il riscatto di Forcella: è un quartiere complicato di Napoli, è arcinoto, e io Lello l’ho visto come qualcuno che con il suo lavoro e con la sua attività ha davvero “ripulito” quella piazzetta, se ne è preso cura, l’ha proprio restaurata. Ha cercato di dare decoro ad un posto abbastanza abbandonato a sé stesso e l’ha veramente cambiato. Dentro quell’osteria ci trovo un quartiere che con le sue mani esce e da una storia sfortunata di anni – fatta anche di malavita – si rimette in piedi con la dignità del lavoro. È un posto dove si sta bene, oggi lì si vedono tantissimi turisti che in quel quartiere non avresti mai visto!