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Luca Francesconi

Abbiamo fatto due chiacchiere con uno dei più importanti compositori del panorama musicale contemporaneo. Dai ricordi su Milano ai grandi maestri, con una previsione sul prossimo secolo di musica

Scritto da Corrado Beldì il 19 febbraio 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Stasera apre la stagione di Sentieri Selvaggi con un programma che Carlo Boccadoro ci ha descritto con grande entusiasmo: un brano commissionato (Insieme II) e altre composizioni che percorrono quasi 35 anni di musica, con tante suggestioni dal jazz alla musica popolare. Per Luca Francesconi è il momento della consacrazione internazionale: la commissione di un’opera per aprire la stagione 2017 all’Opera di Parigi, primo italiano cui sia mai accaduto questo onore, un concerto per Luzern Festival e mille altre idee. Partendo da Milano, a pochi passi dal Monte Stella, dove la musica sembrava davvero un fatto molto lontano.

Zero – Quali sono i tuoi primi ricordi di Milano?
Luca Francesconi – Nebbia, smog, nebbia, smog. Il tram verde numero 11, i taxi 600 Multipla, il calcio, il pianoforte.

Mi parli del quartiere in cui sei nato?
Il QT8. Avete in mente la via Pal? Ecco, lo stesso. Bande di teppisti mocciosi e lumpen-proletariat che si fanno la guerra, periferia estrema con pozze piene di girini e il fiume Olona scoperto che aveva un colore marrone scuro e un odore insostenibile che preferisco non descrivere. Mio padre faceva il pittore e non avevamo proprio soldi. Ora ci arriva la metro e lo definiscono un quartiere residenziale. Però, a pensarci bene, le case sono le stesse.

Ritratto di Luca Francesconi
Ritratto di Luca Francesconi

C’è molto jazz nei tuoi esordi, penso ai progetti con Franco D’Andrea e agli studi al Berklee: quali sono state le tue influenze?
A costo di sembrare ossessionato: Miles Davis mi ha profondamente influenzato. Poi naturalmente Franco D’Andrea è stato un maestro musicale (e pratico) davvero eccezionale: era l’unico che in Italia sapeva veramente le cose e soprattutto aveva la generosità di condividerle. Il Berklee College of Music di Boston invece fu una grande delusione: un’industrietta di cloni fotocopiati.

Il maestro Franco D'Andrea al piano
Il maestro Franco D’Andrea al piano

Poi nel 1981 hai ascoltato Karlheinz Stockhausen alla Scala.
Un pazzo geniale. Ma francamente insopportabile. Aveva utopie e idee che, in effetti, erano più vicine al “concettuale”. Eppure, quando (ogni tanto) azzeccava la resa in musica, arrivava il capolavoro. Studiare con lui è stato illuminante.

Ci racconti il tuo rapporto con Luciano Berio?
Un musicista sommo: ogni cosa che sfiorava diventava musica. Ho imparato con lui che fare il compositore era una cosa pratica, immersa nel mondo, un po’ come una bottega rinascimentale.

Ci racconti l’esperienza di Agon, un centro di produzione musicale molto innovativo per l’epoca. Rifaresti la stessa cosa, oggi?
La tecnologia è molto più potente oggi e ogni musicista può, e lo fa, dotarsi di uno studio potentissimo. Sarebbe ora invece che i musicisti facessero progetti musicali insieme, affrontare i nodi linguistici importanti e dare delle risposte. Vedo un po’ di rinuncia: nessuno ha mai detto che fosse facile! E forse, fuori dall’Italia, fin troppe opportunità che hanno quasi reso i giovani “artisti” dei ragazzi piuttosto viziati e con poca consapevolezza. Si pensa molto poco musicalmente. Si pensa troppo poco alla musica e il concettuale alza di nuovo la testa. Ma quante volte negli ultimi 100 anni questo mostro nichilista, cinico e facile da abbracciare è venuto alla ribalta? Che noia! E’ la dimostrazione che le idee vere son sempre poche. Anche se è vero che siamo una civiltà in parabola discendente: be’, in questo caso a maggior ragione ci sarebbe ancora più da dire o urlare. Le energie vitali messe in discussione? Be’, allora vanno rimarcate. Non siamo ancora estinti, mi sembra.

Riti Neurali del 1991 con Irvine Arditti è stata una tua pietra miliare.
Sì, per me sì. Con Plot in Fiction e come suo sviluppo, Riti Neurali è stato il primo pezzo dove coscientemente ho sfruttato gli utensili mentali della tradizione occidentale colta del ‘900, un rito di iniziazione che mi ha permesso di tenere quel che mi serviva e di buttare il resto alle spalle. Pensare che era considerato ineseguibile! Ora invece suona come un pezzo quasi romantico…

È davvero curioso rivedere il video di Wanderer: Riccardo Muti sembra dirigere un’altra cosa…
Muti ha una musicalità naturale, animale, straordinaria: dunque era connesso eccome. E ha fatto moltissimo alla Scala per i compositori italiani, checché se ne dica: ha commissionato ed eseguito veramente molti pezzi. A Cesare quel che è di Cesare.

Che ricordi hai di Quartett? La consideri la tua opera più importante?
E’ stata veramente importante, anche se per me è già così lontana. Comunque un’enorme soddisfazione perché non solo è andata benissimo alla Scala, ma ha cominciato a girare in tutto il mondo. Non solo la magica produzione scaligera di Fura dels Baus, che di recente è stata al Colon di Buenos Aires e prossimamente al Liceu di Barcelona, ma nel mondo hanno riallestito almeno tre produzioni diverse, con nuova regia, scene, costumi e tutto il resto, fra cui il Covent Garden: siamo arrivati a più di 50 rappresentazioni in 4 anni. Il bello è che ha fatto tutto da sola. Io non ho fatto niente, giuro: l’ho solo scritta.

Il Don Giovanni a Venezia è un dispositivo che ha fatto molto parlare.
Dispositivo? Sì, in effetti sono d’accordo. In fondo era un dispositivo, un labirinto: è stata una vera figata, mi son divertito da matti. Bisognerebbe farne mille in ogni città di cose così. Un’esplosione di creatività. Tutti dicevano che è impossibile fare delle imprese grosse a Venezia concepite per la Biennale che allora dirigevo, mettendo insieme tante diverse forze creative della città. Invece è falso! Basta crederci e avere un progetto che coinvolge. Ammetto che non è stato facilissimo ma poi ecco qua: Biennale + Conservatorio + Accademia di Belle Arti + Fenice + Università.

Ci racconti la serata a te dedicata da Sentieri Selvaggi?
E’ un bellissimo programma, molto ritmico e cattivo e dunque nella natura di questo gruppo di tostissimi performer. Sentieri Selvaggi ha sviluppato un percorso atipico nella città – e in generale – sfuggendo a inquadramenti ideologici  un po’ invecchiati. Poi sono riusciti a sfuggire a ogni altro parti pris e hanno conquistato una libertà di pensiero e di scelte veramente coraggiosa. Una sfida a ridefinire il concetto di moderno.

Poi c’è in arrivo una importante commissione a Parigi.
In effetti è più che arrivata. Sono io ora che devo restituirla, con 400 pagine di partitura: è un’opera su testo di Balzac per l’Opera de Paris. Poi, un concerto per violoncello diretto da Mathias Pincher per la chiusura del Luzern Festival e un’altra opera per il Covent Garden e poi…

Opera_Paris

Ti senti ormai parte dell’establishment?
Sono stato sempre una pecora nera. In qualsiasi posto agivo, ero nel posto sbagliato. È stata la mia fortuna. Come dire: una scuola di vita.

Chi sono i migliori compositori del nostro tempo?
Troppo pochi, come sempre.

Chi sono i peggiori compositori del nostro tempo?
Troppi. Come sempre.

Come sarà la musica tra cent’anni?
Viva, interessante e significativa, come oggi, sarà la sola che conta. Quanto ascoltiamo noi della musica del tempo di Mozart? Il 3%? Forse nemmeno: qualche sinfonia, sonata, concerto, opera e gli altri 100mila pezzi che furono scritti all’epoca? Filtrati dalla storia. Musica d’ammobiliamento; c’è sempre stata.

Come si avvicinano i giovani alla musica contemporanea?
Il mio sogno è che si avvicinino nel modo più animale possibile.

Ti consideri un compositore militante?
Militare. Di quale guerra si parla? Ce ne sono varie.

Qual è la cosa che ti fa godere di più?
Il duende, sotto qualsiasi forma.

Che cosa t’infastidisce fino alla rabbia?
Le ingiustizie di merito: chi sgomita senza avere nulla da dire. Eppure non mi arrabbio: sono un uomo molto buono e zen.

Chi sono i tuoi amici?
Tantissimi! Le persone che hanno il coraggio di rischiare.

Mi racconti il tuo cocktail preferito, ovunque tu l’abbia bevuto?
Eh be’, come non parlare del mitico negroni?

Il tuo bar preferito?
In assoluto, A la Mort Subite a Bruxelles. A Milano invece, il Camparino (ex Zucca) in Galleria.

Il camparino_Milano

Il tuo negozio preferito.
Non vado mai nei negozi. 

Il tuo ristorante preferito.
A Milano Trattoria Mirta.

Quali sono gli angoli di Milano che ti piacciono di più?

La Loggia dei Mercanti, via Padova…

Che cosa rappresenta per te la Scala?
Un teatro molto GRANDE. Scrivilo tutto maiuscolo, ti prego.

Personaggi sottovalutati a Milano.
Mi preoccupa più il contrario.

Che cosa cambieresti di Milano?
Vorrei i Navigli! Come l’ha vista Stendhal. Poi la vorrei molto più verde: appena si libera un metro quadro se lo pigliano i privati e ci fanno un box.

Una grande emozione che hai vissuto.
Vedere Miles Davis dal vivo con Keith Jarrett al piano Fender nel 1971: avevo ancora il biberon.

Un sogno per il futuro.
Io sogno sempre, anche di giorno.

Dove vai stasera?
Al ristorante con la mia compagna, a bordo della mia adorata moto MV Agusta Turismo Veloce. Nome simpatico, ma diffidare: è una vera belva…

Agusta