Alzi la mano chi non aveva dato per certo che col suo debole per le droghe pesanti e le sue relazioni pericolose Zachary Cole Smith sarebbe artisticamente morto dopo „Oshin“ (correva l’anno 2012). E invece. E invece i DIIV alla fine sono diventati l’inaspettato collante intergenerazionale degli Anni Dieci, una dimensione tra tormento e catarsi in cui ritrovare il grunge dei Nirvana e il rumore bianco dei Sonic Youth, la new wave di matrice Cure combinata allo shoegaze di My Bloody Valentine e Nothing, avvolta però da un’ossessività totalmente contemporanea e attraente per la sua „devianza“.
A quei tempi, forse, Zachary Cole Smith (in passato batterista dei Beach Fossils) – insieme a Andrew Bailey, il bassista Devin Ruben Perez (poi sostituito da Colin Caulfield) e l’ex batterista dei Smith Western Colby Hewitt – non pensava minimamente che avrebbe lasciato una traccia rilevante nel panorama musicale „alternativo“ internazionale. Dopo quell’esordio fulminante, che combinava post punk e shoegaze e veniva licenziato da una Captured Tracks in grande spolvero nel mondo indie, nel 2016 con „Is The Is Are“ il suono della band newyorchese si apriva a una maggior solarità e pulizia, in un finto slancio ottimista di un Zachary alle prese con problemi personali (e che mettevano l’attività della band non poco in crisi).
Poi, nel 2019 arriva „Deceiver“: suono saturo di distorsioni, paranoie ma anche melodie sussurrate, che ci porta nei meandri dei traumi di dipendenza e recupero. I DIIV del 2019 hanno forse smarrito l’incendiario piglio giovanilistico degli esordi, ma la sensazione è di essere davanti a una formazione finalmente matura, che non si accontenta più di nascondersi dietro a una tanto marcata, sebbene vincente, ricerca estetico-stilistica. Tornano in Italia dopo qualche anno e l’appuntamento è praticamente d’obbligo (in qualsiasi decennio siate nati).
Geschrieben von Simona Ventrella