Chi li ha già visti di recente dal vivo lo sa: gli Slowdive sul palco sono una delle esperienze più ipnotiche ed emozionanti che un live (e in particolare una reunion), di questi tempi, vi possa regalare. E non solo se siete degli incorreggibili shoegazer. Difficile resistere dall’abbandonarsi al mare di feedback destabilizzanti e alle onde sonore cristalline armonizzati da Rachel Goswell, Neil Halstead, ma pure Simon Scott, Nick Chaplin e Christian Savill – tutti fondamentali nella storia del gruppo e nell’estendere la sua ricerca sul suono verso territori incontaminati. La loro prima vita a inizio Novanta ha lasciato il segno, e non solo perché Souvlaki fa capolino tra le pietre miliari shoegaze in tutte le liste dell’indiesfera che contano: dalla perfezione acerba dei primi EP al precursore di tanto post rock a venire Pygmalion (chi ha detto Mogwai e Sigur Ros?), gli Slowdive non hanno forse sperimentato col rumore, ma sicuramente – più di tanti altri della „scena che celebrava se stessa“ – coi generi e i suoni. Questa inclinazione a mescolare grandi chitarre, melodie appiccicose, ma anche ambient, dub, suoni purissimi, morbide ballate, riverberi e perlustrazioni cosmiche, esplode nel loro ritorno su disco dello scorso anno. A più di vent’anni dal bistrattato Pygmalion, gli Slowdive sono ancora quel genere di gruppo che rimarca la differenza fra un originale con qualche anno in più e una giovane brutta copia.
Geschrieben von Chiara Colli