Offro una stanza a soli 250 euro al mese in cambio di un lavoro part-time da baby-sitter: è uno degli annunci assurdi scovati sul web da Pensare Urbano, un comitato nato nel 2018 per promuovere azioni contro l’emergenza abitativa a Bologna.
L’offerta, anche se inusuale, rispecchia bene i fenomeni speculativi legati alla scarsità di case/stanze in affitto oggi in città. L’allarme per la “forte tensione abitativa” è stato lanciato nei giorni scorsi anche dalla Federazione degli agenti immobiliari, che nel 2019 ha registrato una crescita del 15% dei canoni d’affitto prevedendo per il 2020 un ulteriore rincaro del 7%. La causa è chiara da tempo: la riduzione di immobili disponibili per effetto di un aumento degli affitti brevi, in particolare su piattaforme online come Airbnb e Booking, che assicurano maggiori margini di guadagno.
Per denunciare questa situazione, durante un’istruttoria pubblica sul tema a Palazzo D’Accursio, a settembre 2019 decine di attivisti hanno protestato per due giorni davanti al Comune con una tendata. A seguito dell’istruttoria, il Sindaco Virginio Merola aveva dichiarato che a partire dalla prossima primavera non sarebbe stato più possibile registrare nuovi appartamenti su Airbnb nel centro storico, ma nei giorni scorsi l‘emendamento inserito dal PD nel Decreto Milleproroghe che avrebbe consentito ai Comuni di regolare le piattaforme turistiche è stato ritirato su pressione di alcuni deputati di Italia Viva capeggiati da Luigi Marattin. Punto e a capo.
Oggi a Bologna una singola costa intorno alle 370 euro mensili, un posto in doppia intorno alle 250; per un monolocale si va dalle 450 in su, che diventano, se va bene, 750 per un trilocale. Prezzi che ovviamente variano in base alla zona e alle condizioni degli appartamenti e che si sommano al costo delle agenzie immobiliari e – in molti casi – allo stress di dover competere con altri disperati candidati coinquilini, attraversando talvolta assurde prove di iniziazione e test psicoattitudinali. Siamo insomma alla classica guerra tra poveri.
Affittare casa a Bologna, certo, non è mai stato né semplice né economico. A far salire i prezzi e allontanare molti residenti e famiglie verso la periferia o la provincia è stata prima di tutto la crescita costante della popolazione studentesca (la cosiddetta studentification¹), che negli ultimi anni ha registrato più di 35mila fuorisede contro i soli 1600 posti letto disponibili negli studentati Er.go.
Già nel 2011, secondo alcune stime effettuate sulla base di un censimento ISTAT, il mercato locativo bolognese era caratterizzato da un potenziale “eccesso di domanda” di circa 6mila famiglie, costrette a cercare una soluzione economicamente sostenibile o qualitativamente adeguata altrove².
Il dato nuovo è, quindi, l’aumento spropositato delle locazioni brevi. Solo su Airbnb se ne contano quasi 4mila e i numeri sono destinati a crescere.
„La proliferazione di Airbnb – scrive Sarah Gainsforth³, autrice di Airbnb città merce – è avvenuta in un contesto di recessione economica, di precarizzazione del lavoro, di contrazione dei salari, di aumento del costo della vita e di emergenza abitativa diffusa. In questo scenario, Airbnb si presenta come una soluzione a un problema che di fatto contribuisce a creare. […] La possibilità di un guadagno rapido offerta a utenti “ordinari” ha prodotto l’interiorizzazione di un modello di speculazione che, prima dell’avvento della piattaforma, era prerogativa di attori professionali e impersonali. Insomma con Airbnb siamo diventati tutti speculatori„.
D’altra parte come biasimare coloro che per tirare su qualche soldo in più (sub)affittano una stanza o l’appartamento? Una platea di squattrinati che nella retorica ottimistica della sharing economy diventa lo specchio per le allodole di un mercato conteso soprattutto da multiproprietari, agenzie di gestione e fondi di investimento.
Tom Slee, saggista e Senior Product Manager per SAP, una delle principali industrie del software nel mondo, si è preso la briga di analizzare tra il 2015 e 2017 centinaia di annunci di alcune tra le principali città presenti sul sito. A Bologna, nel 2017, soltanto il 55% del totale era costituito da annunci unici; un ulteriore quarto della popolazione era fatto poi di proprietari che pubblicano offerte per due o tre alloggi differenti; il 14% pubblicava da tre a nove annunci diversi; infine, sei “grandi proprietari” si spartivano il restante 5%, con un picco di 74 abitazioni gestite da Halldis, società di intermediazione immobiliare con oltre 1600 appartamenti in 26 città e luoghi di vacanza in Italia ed Europa.
„Oggi, dopo un decennio di retoriche benevolmente accolte anche soprattutto a sinistra, – scrivono Pietro Bonomi e Nicolò Ornaghi⁴ – dovrebbe apparirci chiaro: ciò che abbiamo chiamato economia della condivisione non è stato altro che il travestimento amichevole, green e spontaneista di una deregolamentazione degli affitti e delle modalità delle prestazioni lavorative, a tutto vantaggio di chi possiede asset immobiliari e mezzi di produzione“.
Deregolamentazione che in una città come Bologna, con uno stock di immobili pressoché invariato e una popolazione crescente, rischia di portare i prezzi degli affitti alle stelle ai danni soprattutto di quelle categorie di reddito medio-basso escluse sia dai bandi dell’edilizia pubblica sia dal mercato locativo privato. Una situazione che favorisce speculazioni e gentrificazione in uno „spazio urbano per utenti progressivamente più ricchi“⁵.
È insomma in gioco, oltre al basilare diritto alla casa, quello che Henri Lefebvre chiama il diritto alla città, „forma superiore dei diritti, diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare. Il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione (ben diverso dal diritto alla proprietà)“⁶.
Al centro di questo processo, a Bologna, c’è oggi il turismo, il vero carburante di Airbnb.
Basti guardare il grafico qui sotto per comprendere l’incremento significativo di turisti che ha investito negli ultimi anni la città.
Numeri che non sono frutto del caso, ma risultato di politiche orientate ad attrarre visitatori e marketing territoriale. Il progetto di una city of food è stato il primo tassello di questo percorso, i cui effetti sono oggi visibili a tutti: una proliferazione esponenziale di ristoranti e bar, un centro storico che sta diventando un parco a tema, una cattedrale nel deserto (FICO) e un peggioramento significativo del rapporto quantità-qualità-prezzo del cibo.
Il secondo tassello è la candidatura dei Portici a Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Diventare patrimonio UNESCO significherebbe non solo essere riconosciuti come un capolavoro del genio creativo dell’uomo, esempio straordinario di architettura e pianificazione urbana, ma fornirebbe soprattutto una sorta di certificato di garanzia turistico. Un’etichetta che quando mal gestita diventa per le città un’autentica condanna a morte.
Per comprendere i rischi del logo UNESCO, l’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale Unesco ha realizzato una sorta di vademecum finanziato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
„I cambiamenti indotti dal turismo – si legge – potranno accentuare il divario tra le aree sviluppate ad elevato utilizzo turistico e quelle destinate alla comunità residente, dando luogo in taluni casi, a situazioni di contrasto tra le due realtà. Ma sicuramente uno degli effetti più rilevanti riguarda la possibilità che l’elevato flusso di visitatori nel contesto urbano comporti il sovraccarico delle infrastrutture esistenti (strade, parcheggi, sistemi di comunicazione, ecc.) determinando la necessità di provvedere ad un loro adeguamento ed alla realizzazione di infrastrutture ex novo di maggiori dimensioni“.
E indicando gli effetti socio-economici: „Il primo fa riferimento alla vendita di beni e servizi ai turisti: in questo caso il rischio per la comunità locale è quello di avere un comportamento passivo mentre i turisti tendono ad assumere un ruolo di forza nella fissazione dei prezzi. Il secondo momento fa riferimento alla vendita di servizi personali alle attività turistiche che si manifestano principalmente attraverso il lavoro, in molti casi di tipo non qualificato. Anche in questo caso si può determinare un rapporto asimmetrico in cui i turisti assumono un ruolo predominante sulla comunità locale„.
Non mancano, aggiungiamo noi, gli effetti sulla cultura e la produzione culturale, con eventi e festival che diventano anch’essi merci da consumare.
Naturalmente non tutti i siti UNESCO soffrono di queste spirali urbanicide⁷, ma è proprio per questo necessaria una seria e coraggiosa regolamentazione normativa. E se da un lato è vero che le amministrazioni comunali hanno pochi strumenti per porre limiti agli effetti dell‘overtourism (tipo il Decreto Unesco di giugno 2019), dall’altro sono loro stesse, come dicevamo, a creare le condizioni per farlo fiorire, vantandosene e minimizzando sulle conseguenze. Questo vale ovviamente anche per Bologna dove l’UNESCO potrebbe portare non solo più soldi, più turisti e più Airbnb, ma anche prezzi più alti – in particolare per tutto ciò che si trova attorno ai portici candidati -, più disagio abitativo e più disuguaglianze.
In città come Barcellona, Lisbona o Berlino sono moltissimi gli abitanti che combattono ormai da anni contro i progetti di riqualificazione, infrastrutturali e commerciali che attirano turismo e peggiorano la vita dei residenti. Sta succedendo anche qui e proprio in questi giorni è stato lanciato un appello al Governo scritto dal comitato Pensare Urbano insieme alla giornalista Sarah Gainsforth e alla Rete SET – Sud Europa di fronte alla turistificazione per dire basta alla speculazione e riaffermare la centralità del diritto ad una casa dignitosa. La richiesta riguarda proprio la regolamentazione degli affitti brevi attraverso una riammissione dell’emendamento ritirato che dava alle amministrazioni il potere di stabilire il numero massimo di concessioni annue, un limite di giorni su base annua in cui poter rendere disponibile l’immobile sulle piattaforme online, e l’inversione dell’onere della prova per chi affitta più di tre camere, facendo in modo che sia il locatore a dover dimostrare l’insussistenza di un’attività imprenditoriale e non gli uffici preposti (qui il link per aderire).
Piccole picconate all’ideologia del turismo, piccoli passi per salvare Bologna. Siamo ancora in tempo.
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Bibliografia
¹ G. Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, Il Mulino, 2015
² Indagine sul mercato degli alloggi in locazione nel comune di Bologna, Istituto Carlo Cattaneo, 2017
³ S. Gainsforth, Airbnb contro le città. La crescita del turismo urbano e il diritto alla città nell’epoca delle piattaforme digitali, City Killers. Per una critica del turismo a cura di Lucia Tozzi, Libria Casa Editrice, 2020
⁴P. Bonomi, N. Ornaghi, I vestiti nuovi del locatore, tratto daCity Killers. Per una critica del turismo a cura di Lucia Tozzi, Libria Casa Editrice, 2020
⁵J. Hackworth, Postrecession gentrification in New York city, tratto da Urban Affairs Review, 2002
⁶H. Lefebvre, Il diritto alla città, Ombre corte, 2014
⁷M. D’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, Feltrinelli, 2017