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Link Project Perform: intervista a Silvia Fanti

Geschrieben von Emanuele Zagor Treppiedi il 9 April 2024

XAVIER LE ROY - "SELF UNFINISHED" LINK 22.3.2001 (rassegna "CORPO SOTTILE"- XING org.) fotografo: Nanni Angeli

In occasione dei 30 anni del Link Project, ripubblichiamo alcuni approfondimenti usciti su Notte Italiana, progetto di ZERO realizzato in occasione della 14esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia nel 2014 che ha ripercorso la storia del clubbing italiano e raccontato com’è cambiato il mondo della notte.

Molte serate al Link iniziavano con il teatro e, tra lo stupore di chi arrivava per la musica o per i dj set, si poteva assistere a produzioni sceniche sperimentali che erano uno degli elementi fondamentali per la vita del posto. Raccontiamo così un altro momento in cui il pubblico poteva realmente godere e farsi stimolare da quelle sale e da tutto ciò che gli accadeva intorno. Silvia Fanti ha studiato Spettacolo al DAMS di Bologna, ha partecipato alla fondazione del Link Project seguendo lo stesso percorso di Daniele Gasparinetti: era la curatrice dell’area teatrale e buona parte del teatro che vedete attualmente in giro è nata/passata da via Fioravanti 14. Ci ha spiegato come ha lottato per far sì che tutto funzionasse.

RACCONTACI COME HAI INIZIATO CON LA TUA ATTIVITÀ E PROVIAMO A DEFINIRLA: TEATRO, PERFORMING ART, ARTI SCENICHE O ALTRO?

Una definizione di questa attività? Quando la facevamo la chiamavamo semplicemente teatro, oggi sarebbe performing arts. Si potrebbe parlare di teatro espanso, perché lo spazio non era un teatro e veniva praticato in maniera diversa. Erano gli anni in cui iniziavano a esserci in Europa le friche, soprattutto in Francia, in Germania e Svizzera: erano spazi industriali abbandonati, simili al Link o con le stesse caratteristiche. A partire da questo dato ospitavamo – e molto spesso abbiamo prodotto – progetti che avevano una forte attenzione alle qualità del luogo.
Non si poneva ancora un problema di definizione, era nella natura delle cose che sia i “nuovissimi” che le compagnie ben rodate lavorassero al Link in un modo diverso, cosa che negli altri spazi istituzionali in Italia non poteva ancora accadere.
La ragione per cui figure come Virgilio Sieni o Giorgio Barberio Corsetti o la Valdoca hanno accettato (e a volte caldeggiato) i nostri inviti, è che potevano sperimentare formati che altrimenti non avevano possibilità di essere smessi alla prova.

La nostra esperienza tra l’altro è coeva con quella di Interzona di Verona, con cui c’è stato un ottimo rapporto di scambio e di esperienze proprio sulla parte teatrale. Al Link Project quest’area espressiva la curavo io assieme a Nelsy Leidi, il cui apporto è stato fondamentale, mentre a Interzona era curata da Egizia Franceschini.
Nel settore teatrale in quegli anni c’erano solo queste due realtà, sul territorio nazionale: Link e Interzona. A livello istituzionale solo alcuni anni dopo, grazie a Mario Martone, nasce a Roma il Teatro India (un ex insediamento industriale sul Tevere), ma siamo già tra il ’99 e il 2000, quasi alla fine del Link Project. Questo affidamento della direzione del Teatro di Roma a Martone è stato un dato significativo per l’Italia: era una figura vicina alla sperimentazione e alle avanguardie ed era molto aperta all’altro, collaborativo e sensibile al nuovo. Aveva capito che non poteva usare unicamente un teatro all’italiana ma che era necessario, per rinnovare e ampliare il sistema, agire in spazi diversi.
Non a caso nello stesso periodo, caratterizzato da una serie di aperture di orizzonti, tra cui la direzione della Biennale Teatro di Venezia affidata a Giorgio Barberio Corsetti, hanno finito per includere nel programma della Biennale del ’99 anche alcune attività realizzate da Interzona.

QUAL È STATO E COM’È STATO ORGANIZZATO IL PRIMO SPETTACOLO?

Il Link ha aperto la propria attività proprio con il teatro e precisamente con il Teatro Valdoca, nella primavera del 1994. L’esperienza con la Valdoca, compagnia di Cesena e Cesare Ronconi è stata la base per una produzione che si chiamava “Ossicine”.

Cesare aveva voglia di incontrare gente giovane, trovandosi in una fase in cui non volevano più lavorare con la propria compagnia e cercava energie molto pure: non era interessatO a persone che avessero una formazione teatrale. Così al Link avevamo fatto una call per gente che era ai primi anni dell’università e che poteva essere incuriosita da una strana esperienza teatrale (i manifestini/opere, fatti uno a uno da Ronconi con oggetti di scarto e fiori attaccati con scotch di carta, davano già un certo tono alla chiamata).
Risposero una quindicina di persone. Ricordo che c’erano dei covoni di paglia dentro al Link, avanzati da una ristrutturazione, che diventarono l’oggetto scenico primario in quella Stanza Blu, assieme alle sculture di metallo che aveva portato Cesare da Cesena e a delle luci da campeggio. Era una forma di teatro molto visivo: oggetti e persone venivano trattati sullo stesso piano compositivo.
Solo anni dopo (per tornare alle possibili definizioni) è nata la categoria, lanciata da un ricercatore tedesco, Hans Thies Lehmann, di teatro post-drammatico, in cui tutti gli elementi sono situati sullo stesso livello: non è più il teatro dell’attore o del regista, ma il teatro della drammaturgia dell’immagine e dello spazio, un teatro non per forza testuale.
Questa cosa da noi era intuita con forza, perciò ci interessava praticarla. Ecco perché ci interessava lavorare con il Teatro Valdoca (erano già più grandi di noi): l’idea era di sostenere un nuovo tipo di teatro il cui ordine degli elementi non fosse quello classico.
Non si partiva da griglie teoriche, ma da istinti e voglia di praticare. Eravamo persone che avevano degli stimoli, delle curiosità e che le volevano soddisfare a prescindere. Non ci sentivamo dei programmatori che dovevano compilare un palinsesto.

La ragione per cui figure come Virgilio Sieni o Giorgio Barberio Corsetti o la Valdoca hanno accettato (e a volte caldeggiato) i nostri inviti, è che potevano sperimentare formati che altrimenti non avevano possibilità di essere smessi alla prova.

PERÒ C’ERA L’HOUSE-ORGAN, LA RIVISTA, CON LA PROGRAMMAZIONE BIMESTRALE…

Certo, ma si trattava di sentire le energie come venivano, di sentire le trasformazioni, le occasioni e quindi da qui partire per altri esperimenti.
Infatti, dopo il progetto inaugurale con “Ossicine” della Valdoca è seguito questo bisogno di lasciare spazio a delle formazioni che nascevano parallelamente a noi, i nostri coetanei di Bologna e dintorni, come il Teatrino Clandestino, Terza Decade, Motus, Masque, Fanny & Alexander… Insomma quella generazione che in seguito, una o due anni dopo, è stata definita “Teatri ’90”, dopo un’operazione condotta da Antonio Calbi a Milano, che aveva lavorato sull’evoluzione di questi e altri gruppi nati in quel periodo. Milano ha sempre recuperato le cose quando erano già un po’ più definite e pronte per il catalogo.

Mentre quello che facevamo noi a Bologna era più embrionale, privilegiando la complicità e il sostegno produttivo.
Il rapporto con il Teatrino Clandestino è andato proprio in questa direzione: loro provavano i loro spettacoli negli spazi del Link Project (“Mondo (mondo)” e “L’Idealista Magico” sono nati al Link), provenivano da altre occupazioni e avevano una particolare sensibilità per degli spazi liberi.

Anche con i Motus ci siamo conosciuti perché avevano realizzato una strana performance nella loro casa vicino a Rimini.
Fanny & Alexander, un gruppo di Ravenna dall’estetica più formalizzata, li abbiamo conosciuti tramite il Teatrino Clandestino… Per questo parlo di energie, concatenazioni, relazioni e passaparola… ci si diceva “guarda c’è questo gruppo di giovanissimi”, ad esempio a quei tempi Fanny & Alexander non avevano ancora finito il liceo, “ci sono loro che fanno cose interessanti, lasciamogli spazio…”. Poi tutti erano affascinati dalla tipologia dello spazio.
Nel primo anno e mezzo c’è stata principalmente una raccolta energetica di persone e di relazioni, per questo non ci sentivamo dei “programmatori”.

In parallelo si era creato un rapporto di fiducia con Riccione TTV, festival dedicato al video-teatro e alla video-danza, discipline che nascevano in quegli anni e che in Italia non esisteva ancora come fenomeno, mentre in Inghilterra canali come Channel 4 già davano spazio e facevano produzioni, anche abbastanza sperimentali.
Il TTV Festival era l’unica occasione in Italia in cui si potevano vedere produzioni video internazionali fatte per la tv. TTV era interessato ad avere una piattaforma di visibilità anche a Bologna e decise di collaborare con il Link perché gli interessava quel nuovo ambiente culturale.
Certo, oggi la video-danza sembra una forma remota, ma in Italia stava nascendo una generazione di videomakers interessata al movimento e al Link c’era anche una certa sintonia con questa scena; un nome per tutti, Anna de Manincor (prima della nascita di ZimmerFrei) faceva questo: filmava la danza.
Quindi, in parallelo alle arti performative dal vivo, si indagava anche il rapporto con la produzione video, schermo e movimento.
Le relazioni erano molto fresche perché ci si sceglieva con estrema disinvoltura. È andata così anche con la Societas Raffello Sanzio e Romeo Castellucci, di cui abbiamo ospitato i lavori con continuità, pressoché ogni anno dal ’95 al ’99. Abbiamo presentato il film “Brentano” che non si era mai visto in Italia, una pellicola prodotta per il Festival del Cinema di Locarno. Tra gli aneddoti ricordo che la pellicola in 35 mm era un po’ troppo lunga e non entrava nel porta-bobine del proiettore e Daniele (Gasparinetti – n.d.r) ne voleva tagliare il primo minuto per poterla proiettare… accadevano anche queste assurdità!

Eravamo attentissimi a tutto e a tutti quelli che gravitavano sul teatro sperimentale: la Raffaello Sanzio faceva un film, noi lo facevamo vedere subito…
Kinkaleri è stata un’altra formazione con cui abbiamo lavorato molto e con continuità. Sono tutte persone che abbiamo conosciuto nel corso del tempo e con cui poi abbiamo approfondito il rapporto. E automaticamente si creava una rete di affinità.

IL PUBBLICO COME RISPONDEVA ALLE VOSTRE PROPOSTE?

Ottimamente. Nessuno era obbligato a seguire cose che non gli interessavano e comunque rispondeva con curiosità.
Ricordo ad esempio che alla fine dello spettacolo dei Motus “Catrame” (nel 1996) c’erano alcune tra le persone del pubblico che volevano assolutamente che si facessero delle repliche, anche se non previste, per i giorni successivi, assicurando che avrebbero portato loro altro pubblico; non se ne fece niente perché i Motus dovevano partire, ma era il segno evidente di questo sentirsi coinvolti in prima persona in quelle esperienze e in quel clima.

La cosa importante è che tutti erano molto contenti di essere accanto ad altri accadimenti che si svolgevano all’interno del Link perché questo significava rivolgersi a un pubblico che non era quello per definizione del teatro, e quello che si metteva in scena era un teatro per non addetti ai lavori.

CON LE ISTITUZIONI E CON IL PUBBLICO CHE PROPONEVA O CHE VOLEVA PARTECIPARE COME VI RAPPORTAVATE?

I rapporti con le istituzioni arrivavano a partire dalla disponibilità delle persone, non andavamo a fare incontri “diplomatici”. C’erano alcuni operatori esterni più sensibili, TTV e DAMS lo sono stati.
Col tempo abbiamo iniziato a produrre con più consapevolezza produttiva. Per esempio abbiamo sostenuto il lavoro con Loredana Putignani (Rom Stalker 1996, Terrain Vague II 1999, Terremare 2000), artista che proveniva dall’esperienza con Antonio Neiwiller (che significativamente aveva scritto il Manifesto per un Teatro Clandestino, che si sviluppasse al di fuori delle istituzioni teatrali). Con lei siamo partiti con una produzione con un gruppo di Rom a Bologna (erano rifugiati serbi). Tra il campo rom e il Link siamo riusciti a dar vita un lavoro molto profondo, anche in questo caso non con attori.
Il lavoro successivo sempre con la Putignani l’abbiamo proposto a Teatri Uniti, la compagnia napoletana fondata da Mario Martone, Antonio Neiwiller e Toni Servillo. Quella era una coproduzione per cui avevamo invitato da Cracovia come attori principali i due gemelli interpreti storici del teatro di Tadeus Kantor. E qui i giochi iniziavano ad essere seri, eravamo già nella dimensione in cui ci sceglievamo dei partner che ci sembravano interessanti in Italia, anche se istituzionali e storicizzati.

A prescindere dalle istituzioni e dalle collaborazioni, organizzavamo il lavoro con una riunione settimanale di redazione. La Redazione Teatro era formata da me e Nelsy Leidi, e per un anno anche da Pietro Babina, coadiuvati da Paolo Liaci che poi è diventato il responsabile tecnico teatrale, e con cui lavoriamo ancora oggi.
Lì ascoltavamo le proposte ma discutevamo anche i nostri desiderata, come ogni redazione che è aperta ma segue o divaga da una propria linea editoriale.

Per esempio l’esperienza con Teddy Bear è un po’ capitata. Non l’abbiamo costruita. L’esperimento era nato al Cocoricò, quindi anche con un taglio per un contesto diverso, però abbiamo detto proviamo a chiamarli anche perché erano collegati ai Fanny & Alexander. Un’altra esperienza di collaborazione significativa è stata la produzione dei primi numeri della rivista Art’O, il cui caporedattore era Gianni Manzella, critico bolognese de Il Manifesto, che desiderava uno spazio di riflessione scritta sul nuovo teatro. I primi numeri li abbiamo realizzati e prodotti noi adottando il formato dell’house organ del Link Project, che era molto riconoscibile, essendo un quadrato.
L’idea di Art’O era che i teatri dovevano sostenere questa voce scritta: una pubblicazione supportata da tutte le realtà più interessanti d’Italia. Per noi che curavamo la programmazione era nata anche la voglia di coinvolgere qualcuno che, accanto, producesse riflessione.

IL BUDGET PER TUTTO CIÒ?

Non siamo mai andati ad incasso sul teatro, comunque c’era una forma di protezione rispetto alle persone che invitavi, nel senso che era giusto garantire una cifra per i lavori e per le persone che erano coinvolte nella produzione. Le economie erano modeste ma riconoscevano le professionalità che venivano coinvolte.
L’insieme di tutte le attività del Link (dal bar ai concerti) permetteva la realizzazione del tutto, le operazioni più forti proteggevano quelle più fragili.

COME SI INTERFACCIAVA IL TEATRO CON LE ALTRE DISCIPLINE?

Il teatro costituiva in un certo senso il prime time delle serate del Link e il fatto che lo spazio avesse diverse aree permetteva poi di spostarsi in altri ambienti che offrivano altre possibilità. Quasi sempre si utilizzava la Sala Bianca, un open space di oltre 500 mq, battezzato così dopo che i Motus avevano voluto dipingerla interamente di bianco per lo spettacolo “L’occhio belva”. Con i Motus per “L’occhio belva” abbiamo lavorato su un attraversamento totale, una sorta di percorso dello spazio. Abbiamo inaugurato così una nuova area del Link, precedentemente considerata off-limits perché non era compresa nell’area coperta dall’assegnazione.

Ma non c’era una regola fissa. Con i Kinkaleri, che operavano a Firenze al CPA (Centro Popolare Autogestito Firenze Sud), e che già praticavano una dimensione simile alla nostra, avevamo scelto di mettere in scena “DOOM” (nel 1996) a notte tarda, proprio per intercettare un altro tipo di pubblico, che alla fine è stato al gioco, ha funzionato. Con Kinkaleri potevamo agilmente fare esperimenti trasversali, eravamo in assoluta sintonia sulla ricerca di forme di presentazione non sclerotizzate.
Queste erano decisioni che prendevi in ogni caso assieme ai gruppi.

L’insieme di tutte le attività del Link (dal bar ai concerti) permetteva la realizzazione del tutto, le operazioni più forti proteggevano quelle più fragili.

QUALI SONO STATE LE COMPAGNIE CHE HANNO FATTO LE COSE PIÙ INSOLITE E COME UTILIZZAVANO LE SALE?

Più che teatro insolito era teatro sperimentale. Faccio alcuni esempi, tanto per intenderci.
“Romeo & Juliet” e “Storia infelice di due amanti” (del 1999, lavoro che per me è in assoluto la migliore creazione di Fanny & Alexander) veniva rappresentato contemporaneamente in due spazi attigui per due diversi pubblici – all’oscuro di questa compresenza. I Fanny avevano predisposto un muro di mattoni con una porta attraverso cui passavano i performer che agivano di qua o di là dal muro sui due fronti scenici. Quando qualcosa succedeva da un lato, dall’altro c’erano dei vuoti interpuntati solo da piccoli accadimenti quasi impercettibili, cuccioli di gatto che gironzolavano, per esempio.
Era un’opera bifronte che lavorava sulla questione del tempo e del mimetismo: in alcuni casi il tempo scenico scorreva senza un’azione, però c’erano questi animali che mantenevano una dimensione di vita. Alla fine il muro veniva abbattuto, e i due pubblici scoprivano questo aldilà speculare e la sua drammaturgia di incastri.

Sempre con Loredana Putignani abbiamo portato nella Sala Bianca un vero ring da box per “Miseria Ring”. Aveva coinvolto due bambini pugili, li aveva trovati al dopolavoro dell’azienda di trasporti di Bologna, erano fratello e sorella di 10 e 11 anni, e con loro c’era Loredana, pura presenza osservante di una lotta simbolica.

“Siamo qui solo per i soldi” di Roberto Castello (1995), concerto di danze e musica rock ispirato a Frank Zappa e inframmezzato da parlati di contenuto politico, dissacrava la danza con intromissioni del quotidiano. Una “marmellata coreografica” l’aveva definita Roberto.

Virgilio Sieni aveva lavorato a una coreografia con i pattini e attraversava lo spazio senza utilizzare le rotelle, come fossero i passi di una geisha.

Marion D’Amburgo dei Magazzini Criminali si mise a recitare immobile dentro un grande vestito inchiodato a terra per parlare dell’immobilità forzata e dell’estasi.

O ancora, il Teatrino Clandestino aveva creato per “L’Idealista Magico” (nel 1996) una gabbia di Faraday al cui interno gli attori recitavano e conducevano esperimenti su elettricità, magnetismo e magia, come in una “serata elettrostatica” di fine ’800.

MI PARLI DEGLI INCONTRI DI IMPROVVISAZIONE RADICALE? ERA SEMPRE TEATRO?

Erano incontri di musica fatti al Link e all’Ex Bestial Market, altro centro occupato a Bologna. Si facevano ad appuntamenti alternati in due spazi occupati, e coinvolgevano sia musicisti locali che guests. Il programma era fatto quindi a più mani dai due centri. Coinvolgeva due pubblici diversi ed è servito molto per incentivare lo scambio e fornire stimoli alla ricerca musicale a Bologna.

ALL’ESTERO COSA SUCCEDEVA INTANTO E COME VI VEDEVANO ANCHE IN ITALIA?

All’estero il Link Project era percepito nel suo insieme, per il forte intreccio interdisciplinare. E operatori ben più maturi di noi (mi ricordo di Frie Leysen o di Franco Quadri) venivano da Milano o da Bruxelles per fare quello che oggi si chiama scouting, seguendo sia le giovani compagnie nascenti, sia osservando le dinamiche anomale create in questi spazi.

NON C’ERA INTERNET, SI BASAVA TUTTO SULLE RELAZIONI, TUTTO IN MODO ANALOGICO…

Avevamo una segreteria, degli spazi da ufficio, ma non è che fossimo attaccati e così attenti a quella scrivania. Non c’era internet agli inizi e nemmeno i cellulari. Ricordo che il Teatrino Clandestino aspettava un ospite che veniva dalla Francia. Il giorno della prima son stati costretti a destinare un attore al telefono di quell’ufficio per aspettare la chiamata di questa signora, tutto il giorno…
Sì, tutto era totalmente esperienziale, da affrontare anche fisicamente.
Certo che era un mondo analogico, il che significava di finire pure a fare a cazzotti, certe volte, per ragioni di convivenza… Hai spostato questo o quello, fate silenzio che ci son delle prove… Insomma ci sono stati dei momenti di difesa forte.

Però, nonostante l’assenza di Internet si sapeva benissimo cosa succedeva all’estero, seguivamo quello che accadeva fuori, anche se all’inizio non ci passava ancora per la testa di fare inviti internazionali. Significava entrare su un’altra scala di economie e  di rapporti.
Il cambiamento di rotta forte, voluto, scelto, è avvenuto nel 2000 – e già stavamo passando da Link Project a Xing – quando abbiamo fatto due micro-festival: Hops! e Corpo Sottile. La scelta è stata quella di affacciarsi sui nuovi fenomeni che stavano emergendo in Europa. Era la scena che è stata chiamata in maniera un po’ semplicistica non-danza. In quella fase i riferimenti si sono spostati dal teatro di ricerca italiano a chi all’estero (Francia e Germania soprattutto) veniva dalla danza ma l’aveva negata, per arrivare a forme espressive molto vicine alle performing arts, dove non c’era più il virtuosismo legato al movimento, ma delle messe in scena di forme di pensiero, con un approccio al corpo e alla rappresentazione più concettuale e trasversale.
Era un pool di artisti internazionali che in Italia non era mai venuto, e che abbiamo continuato a seguire nel tempo. Tuttora come Xing seguiamo le evoluzioni e trasformazioni di quel movimento.

CON INCURSIONI, FESTIVAL TRA IL PERFORMATIVO E L’AUDIO-VISIVO CURATO DA LUCA VITONE SI ATTIVAVA UN MECCANISMO DIVERSO, UN MIX DI COME SI POTEVA USARE IL LINK?

Incursioni aveva un taglio più avanzato, perché aveva dei riferimenti espliciti alle performing arts degli anni 60 e 70 e, a differenza della programmazione teatrale che aveva un unità temporale e uno sviluppo drammaturgico più ampio, il festival di Luca Vitone si basava sul formato breve Ci si confrontava con Luca Vitone sugli inviti, ma spesso erano degli artisti visivi che Luca spingeva verso un’attività performativa, era una scoperta per loro ma anche per me.
Tutti questi esperimenti collaborativi, questi intrecci disciplinari, ci hanno formato. Ho imparato molte cose da artisti visivi la cui sensibilità, la cui storia, era diversa da quella da cui io provenivo. Fondamentalmente, con Incursioni l’approccio era più minimale, le azioni degli artisti erano come “immagini attivate”, degli haiku che si intrecciavano in un palinsesto di accadimenti in più luoghi. È stato un percorso di avanzamento, con una sensibilità nuova da instaurare, alla quale la gente di teatro non era ancora abituata. Incursioni ci ha portato – positivamente – in questa zona di confusione di generi e di saperi.

Incursioni si è evoluto poi in Hops!, un formato condiviso dal team curatoriale (Luca Vitone, Daniele Gasparinetti, Andrea Lissoni, me e Giovanna Zapperi, che poi sarebbe diventato il nucleo fondatore di Xing) in cui abbiamo coinvolto più esplicitamente artisti dell’area performativa. È stata una bellissima apertura.

A UN CERTO PUNTO QUESTO FENOMENO ARTISTICO INVADE LUOGHI COME IL COCORICÒ? COM’È NATO IN QUESTI SPAZI?

Si, ricordo che Nicoletta Magalotti (NicoNote) seguiva il privé del Cocoricò, il Morphine. Lì alcuni artisti giovani ci andavano, ma non per fare teatro; realizzavano delle piccole azioni o installazioni viventi, e lì riuscivano a sperimentare con risorse che da altre parti non riuscivano ad avere. Era quasi una palestra protetta, e un doppio regime creativo. Anche questo cotè più disco ha avuto comunque il suo senso, perché ha sostenuto indirettamente un certo teatro, soprattutto quello dell’area romagnola.

QUELLO CHE NOTO INFATTI È CHE LA TERRA PIÙ FERTILE È STATA PROPRIO LA ZONA ROMAGNOLA, BOLOGNA, CESENA… TI VIENE IN MENTE ALTRO?

Non c’erano solo Bologna e la Romagna. A Roma in quegli anni c’è stata un’operazione che ha avuto una certa importanza, una piattaforma dedicata ai nuovissimi del teatro italiano, curata da Paolo Ruffini e Fabrizio Arcuri, che avevano fatto una chiamata a raccolta delle situazioni teatrali che sperimentavano e facevano teatro di ricerca a Roma e dintorni. Da quest’altra scena il Link aveva dato spazio a figure allora sconosciute, come Filippo Timi, persone in cui vedevamo già un potenziale, o Federica Santoro, una delle migliori attrici di quella generazione romana. Federica tra l’altro era anche molto vicina alla scena dell’improvvisazione musicale a Roma, che operava sotto il nome di Cervello a Sonagli e che coinvolgeva Fabrizio Spera, erano persone che organizzavano concerti nei centri sociali e nei centri di quartiere e avevano molto seguito.

Era un periodo in cui si lavorava sui circuiti, prima che sulla rete; sono gli anni di CIRCA, un circuito nazionale indipendente dedicato alle nuove musiche, e c’era una vicinanza tra teatro e musica, dove era difficile distinguere tra pubblico e artisti, e chi faceva teatro frequentava anche i concerti organizzati o suonati da altri amici.
C’erano altre realtà in Italia che avevano la nostra stessa sensibilità. A Milano c’era Giuseppe Ielasi che lavorava in ambito musicale, e c’era Alessandro Bosetti, e per il teatro il nostro referente era il Teatro Aperto di Renzo Martinelli e Federica Fracassi, e loro stavano al Leoncavallo.
Il punto più lontano geograficamente di quel circuito si trovava in Sicilia, a Catania, dove c’erano la Famiglia Sfuggita e Canecapovolto che lavoravano tra cinema sperimentale, performance e musica di ricerca.

Jérôme Bel live @ Fisco 2001

UNO DEI NOMI PIÙ ALTISONANTI CHE POI AVETE COINVOLTO È JÉRÔME BEL…

Jérôme Bel l’avevo visto in Italia al Festival di Polverigi in una situazione decisamente fuori contesto. Mi aveva colpito il modo diverso di stare in scena, l’avevo cercato e l’abbiamo presentato nel 2000 a Corpo Sottile.
Anche Xavier Le Roy l’ho cercato perché mi aveva intrigato un servizio fotografico su una rivista tedesca. Lui, come Jérôme, lavorava sul corpo in un modo nuovo, con un approccio sperimentale, complesso e semplice.
Tutti artisti che ospitavamo a casa nostra, non in albergo.. c’era grande disponibilità a collaborare.

OGGI SECONDO TE UN ESPERIMENTO COME IL LINK SAREBBE POSSIBILE?

Credo che oggi l’estrema burocratizzazione in cui siamo immersi non lo renderebbe possibile. Noi abbiamo avuto la grandissima libertà di non dipendere da nessuno né economicamente né sul piano delle scelte artistiche.
Per mettere assieme delle teste, ci deve essere un contesto che lo permetta: il DAMS, le occupazioni, avevano creato in quegli anni le premesse e un terreno fertile a Bologna.
Il Link Project è stata un’esperienza complessa. Ci vogliono persone capaci di tessere e tenere insieme i pezzi, non si tratta solo di mettere in fila dei creativi e i curiosi, ma di avere anche un’idea di progetto sociale, estendibile e comunicabile.