In tempo di guerra, l’attardarsi di modalità inclusive e il conseguirsi di politiche ingiuste, rende l’arte paladina della possibile e necessaria resistenza in termini fisici e spirituali. Si può dire che l’arte viva in tempi bellici da quando è nata, abbracciando una posizione costantemente a margine, o meglio come margine e non passatempo o svago, come ci hanno segnalato durante la pandemia globale e un’ennesima guerra, ennesime morti. Nella reazione ad un sintomo ed emergenza costante, l’arte ascolta e si propone come campo di riformulazione poetica, privata, di rigetto. Tutto ritorna, tutto si riappropria del suo lamento continuamente. Come una litania, la sobrietà accompagna e aiuta le ferite esposte, le culla tra i rossi, i neri, le intossicate, le gravide, le ubriache, le erotiche, le gerarchie. Deposta, la poesia si fa spazio e viene plasmata come urlo ritmato da residui che sono sentenze, che sono l’archivio disobbediente. Una nuova storia creata dai dannati. Fuori gli arconti, fuori le censure! Palazzo Grassi diventa luogo sacro, corte dei miracoli per la riconquista dell’osceno come testimonianza dell’indicibile bellezza e tragicità dell’essere. Ci sono tutte e tutti. Le rane, le labbra, gli ani, le immacolate, le figlie, Venere e Adone, le tombe degli amanti, i morti degli Apartheid sempre presenti. Ci vengono poste le loro sindoni, ritratti sciolti su carta, sono danze le loro ombre con le quali parliamo e davanti le quali inciampiamo per poi chinarci, forse piangere. Perché forse siamo noi, sono loro, quelli e quelle che dimentichiamo d’essere negli interstizi che l’arte sempre rigurgita sul tavolo degli affamati dove grazie a Dora Maar, Mamma Roma, Nefertiti, The lady of Uruk, o la Maddalena riconquistiamo il nostro sentire.
Mettere al mondo il mondo, direbbe Alighiero Boetti, e per farlo il dolore è presente come una danza tarantata, sempre inattuale, un lutto da celebrare come continua morte, come continua rinascita. Continui parricidi, martiri o poeti, in questa deposizione come testimonianza, come composizione del sensibile. Saccheggio emotivo. Camminando tra i bianchi dei muri che accolgono i dipinti e le carte, ci si confronta con la frammentazione, un processo di sminuzzamento che ricompone le voci degli esseri. Le relazioni di Marlene ci fanno ricordare dei nostri sputi, dei corpi che ci stavamo dimenticando di avere dei bisogni e le aderenze che ce li fanno tremare.
Con Marlene si è in amore, e quindi in battaglia ad ogni esposizione, ad ogni suo gesto, con ogni sua dichiarazione. Questa volta l’attraversamento è celebrazione. Una camera acusmatica dove la dimensione del riverbero prova a diventare lo scheletro della società attuale, con i suoi rapporti di dominio, contraddizioni e storie d’amore, criminali, traditrici o semplicemente tragiche nel loro esistere e quindi solo forma in sé, senza pensiero. La trasformazione è silenziosa. Non è oggetto di conoscenza attraverso la conoscenza. Avviene nella percezione del sensibile e le sue contrazioni. Contrazioni che Marlene mette in discussione usando il suo privilegio, come risorsa e non come colpa. La Sabina di Anais Nïn in “Una spia nella casa dell’amore”, scrive: „Per la prima volta, nello squallore di questa passeggiata di primo mattino per le strade di New York non ancora ripulite dei mozziconi di sigarette e delle bottiglie vuote di liquore della gente notturna, Sabina capì il quadro di Duchamp che rappresentava un nudo nell’atto di scendere le scale. Otto o dieci silhouette della stessa donna, come altrettante rivelazioni molteplici della personalità di una donna, ordinatamente divise in molti strati, che scendevano le scale all’unisono.”. Ecco Marlene camminare negli strati di questo panorama di esseri, che è come se lei ogni volta riportasse in vita. Portasse sulla vita, nella danza dei suoi concepimenti continui, dove la pittura si riconquista la contemporaneità proprio perché inattuale e satura. Fine Aperta per Marlene Dumas che terminerebbe l’attraversamento con la morte dell’autore, come annuncio del disfarsi del piedistallo del mondo, la deposizione nella piega della vita, una scelta che appena dopo si riprende il respiro con l’ultimo dipinto: Persona. Un ritratto, un volto, un ennesimo urlo che riapre il gioco di un’incessante danza, una danza d’amore, la danza della vita.
Frammenti e fantasmi:
“La cosa veramente diabolica e autenticamente maledetta della nostra epoca, è l’attardarsi sulle forme artistiche, invece di sentirsi come condannati al rogo che facciano segni attraverso le fiamme.”
(Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, nella prefazione Il teatro e la cultura, Einaudi, 2000)
„La società non è essa stessa criminale, ma è piuttosto la forza che tiene in scacco il crimine. Quando si indebolisce il controllo sociale prorompe la crudeltà innata dell’uomo. […] L’identità è conflitto. Ogni generazione spinge il proprio vomere sulle ossa dei morti. […] L’erotismo è un regno infestato da fantasmi. E’ il luogo dell’illecito, luogo di dannazione e d’incanto”.
(Camille Paglia, Sexual Personae, arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson, Einaudi, 1993)
“The muse is exhausted
because the nights are never dark
anymore. All that neon confuses the
Night Creatures. They say that owls
and other such animals find it difficult
to sleep because our lights are
everywhere. […]”
(Marlene Dumas, Sweet Nothings. Notes and Texts, Koenig Books London, 2014)
Note (1) di Giulia Currà