Ho ancora qui quel libro che avevo preso in prestito il 2 marzo. Le scuole erano già chiuse, gli eventi sospesi, ma le biblioteche ancora aperte. Non sarebbero durate per molto, ma il virus faceva ancora poca paura e coi teatri, i cinema e i club fermi, uno scaffale pieno di libri rimaneva un segno di speranza.
Salaborsa era la stessa di sempre: i ragazzini spalmati sullo scivolo all’ingresso che ascoltavano trap, i vecchi scorbutici piantati sui tavoli dell’emeroteca, tanti studenti, qualche mamma col proprio bebè, riscaldamento a palla, sguardi fugaci tra i corridoi e così via; una piazza nella piazza, baricentro della vita pubblica cittadina.
Qualche turista passava ancora lì davanti, ignaro forse dell’importanza di quei volti dietro al vetro, 2064 vittime partigiane trucidate sotto quelle mura che nel giorno della Liberazione, 75 anni fa, si riempirono delle foto portate dai parenti dando vita al Sacrario più importante per la memoria storica della città.
Presi un libro a caso, un po‘ per rassicurarmi del fatto che ci saremmo rivisti presto. Nonostante l’atmosfera sospesa, non riuscivo comunque a immaginare quello che sarebbe successo dopo, nessuno poteva immaginarlo che saremmo rimasti per due mesi senza biblioteche, senza Salaborsa. Il lockdown era una roba cinese che avevo letto sul Corriere qualche settimana prima, strappandolo con uno scatto felino al solito tizio che pur di non cederlo leggerebbe anche il colophon. „Figurati se una roba del genere è possibile in Italia, a Bologna poi…“, pensavo.
E adesso eccoci qui, con quei libri segregati che non possono più circolare e che attendono come noi di tornare e farsi toccare, ché tutto si può sospendere tranne la diffusione della conoscenza.
Lo guardo quel libro e mi sento un po‘ come lui: ostaggio di qualcuno a cui non appartengo, aspettando che qualcosa mi venga a liberare. E mi manca Salaborsa perché piena di libri liberi e liberatori, il miglior vaccino agli errori già commessi. Ne avremo bisogno.