A Dro, in provincia di Trento, si festeggiano i 20 anni di Centrale Fies, centro produttivo ed espositivo dedicato al teatro contemporaneo e alle attività performative, assieme al quarantesimo anniversario del Drodesera Festival. Questo avviene con una programmazione trasversale, multidisciplinare ed espansa che entrerà nel vivo a partire da questo week-end per continuare anche nel 2021.
La prima cosa che vogliamo chiederti è come stai. E se in questi mesi sei riuscit* ad addomesticare lo spazio fuori e a rendere selvaggio quello dentro casa.
È con queste parole che Centrale Fies torna dunque ad accogliere i propri visitatori. E in queste due frasi, quasi l’introduzione a pagine ancora da scrivere, è concentrato un po’ tutto il senso dell’operato di Fies in questi anni: l’attenzione nei confronti dello spettatore; la performance vissuta come occasione collettiva di ripensamento critico (e perché no, anche di ribaltamento) della realtà; l’arte praticata non come solo momento espositivo ma soprattutto nei suoi aspetti di ricerca, studio, fatica. Il centro per le arti performative di Dro riapre al pubblico a partire dal prossimo e per tutti i week-end fino all’8 agosto con i nuovi capitoli di XL, il formato “plus-size” inaugurato quest’anno che comprende residenze, studio visit, mostre, performance dal vivo e interventi online. La programmazione, ancora in fieri, mette insieme e fa dialogare pratiche artistiche e curatoriali differenti. Ma quanto è stato difficile immaginare e realizzare questo incontro fra idee, storie e corpi in un periodo in cui la distanza è stata la cifra distintiva delle relazioni interpersonali? E ancora, qual è il bilancio del lavoro fatto finora e quali le narrazioni e i progetti con cui Centrale Fies continuerà a scrivere la propria storia in futuro? Lo abbiamo chiesto alla direttrice artistica Barbara Boninsegna e al co-curatore Filippo Andreatta.
– Quest’anno ricorre il 40esimo anniversario di Drodesera e i 20 anni di Fies. Come vi eravate immaginati di celebrarlo e quali sono stati gli aspetti che avete dovuto rivedere a causa della pandemia?
Barbara Boninsegna – XL nasce molto prima della pandemia e lo abbiamo immaginato fin da subito come una programmazione esplosa nei tempi e nelle pratiche artistiche, che fosse capace di mostrare il lavoro annuale di ricerca, residenza e produzione di cui il festival è solo la punta dell’iceberg. Durante tutto l’anno Centrale Fies è impegnata in progetti che coinvolgono artist*, curatori e curatrici internazionali; divulga la performance art storica con un programma di laboratori per bambine e bambini radicato sul territorio; ospita workshop intensivi e Accademie di Belle Arti, come ad esempio il corso dell’Institut Supérieur des Arts et des Choréographies di Bruxelles, che da 5 anni inaugura l’anno scolastico con una residenza di 10 giorni a Centrale Fies con alunni, alunne e docenti. La pandemia ha sicuramente visto cambiare l’organizzazione pratica dell’accoglienza del pubblico e la relazione – mediata dalla distanza – fra art workers e il team del Centro, in un percorso comune per trovare nuove soluzioni che non provocassero ulteriore disagio. Ma questo periodo di lavoro intenso ha visto nascere anche preziose collaborazioni, come quella con la curatrice Claudia D’Alonzo che intreccia il suo percorso professionale per estendere i formati di Centrale Fies, presentando progetti inediti che si articoleranno nel corso dei mesi, fino ad ottobre, all’interno di una sezione online intitolata INBTWN.
– In questi quarant’anni di esperienza come sono cambiate le aspettative e le risposte del pubblico alla performance?
BB – Possiamo parlare a livello territoriale e locale e alla luce del lungo e impegnativo lavoro fatto finora. La scelta di aprire Centrale Fies vent’anni fa è maturata anche a fronte dell’esperienza di ulteriori vent’anni di festival alle spalle. Allora Centrale Fies ha coperto un segmento ancora inesistente in Trentino, ossia quello delle arti performative e della ricerca, senza sapere se ci fosse realmente un pubblico interessato a un campo così sperimentale e fuori dai codici consolidati. Tra gli obiettivi raggiunti di Centrale Fies vi è certamente quello di creare più pubblici e di incuriosirli nei confronti delle pratiche artistiche performative, guidandoli attraverso un’esperienza che abbandona da subito il concetto di “intrattenimento” per dedicarsi invece a una visione collettiva e critica delle opere. Questo ha portato il pubblico a un allenamento costante con una formula ben precisa: da un lato programmando ogni anno la crescita della ricerca di artist* e compagnie che il pubblico ha imparato a (ri)conoscere; dall’altra sovvertendo le regole e presentando a “scatola chiusa” nuove opere, pratiche e artist* che esulassero totalmente dall’immaginario dell’anno precedente. Centrale Fies è cresciuta in luogo specifico e insieme al suo pubblico, lentamente, negli anni, parallelamente alla crescita di professionist* e appassionati, dando origine a un’audience ogni anno sempre più eterogenea.
– Siete stati pionieri – ora come allora – di un modo diverso di concepire la produzione e la fruizione dell’arte. Cosa significa interagire con il sistema del contemporaneo da una posizione geografica decentrata rispetto alla grande metropoli? Quali sono le difficoltà e quali le possibilità espressive?
BB – L’unicità di questo Centro, oggi, sta anche nel rischiare di investire in un settore che sarebbe stato più facile immaginare in grandi centri urbani, e di riuscire a mantenere una doppia natura: da un lato luogo di studio e ricerca per gli artisti e le artiste, orientat* e sostenut* all’interno dell’ambito internazionale delle arti contemporanee; dall’altro l’”uso” dell’arte e della cultura come strumenti per contaminare e rigenerare ambiti locali differenti, dall’educazione al turismo, e per individuare così modalità di azione e visione disancorate da modelli non più adeguati agli attuali ecosistemi.Da sempre Centrale Fies pratica confini reali come quelli artistici e geografici, aprendosi al contempo a nuove geografie inaspettate: la trilogia di Supercontinent, Supercontinent2 e Ipernatural narrava visivamente anche il nostro posizionamento e il nostro legame in continua mutazione non solo col sistema contemporaneo, ma anche con tutte le sue propaggini politiche, filosofiche e relazionali. Centrale Fies vive una fatica quotidiana per essere visibile e alla pari sia con realtà metropolitane che con contesti festivalieri più popolari o mainstream. Questa sua marginalità geografica e selvaticità umana le permette tuttavia di essere un posto unico, capace di attuare e scatenare processi produttivi e di lavoro difficilmente sperimentabili altrove. Indipendentemente dalla zona di intervento lo sguardo resta ampio e pensa al territorio come a un organismo che ha caratteristiche che si estendono oltre le delimitazioni segnate dalla politica, dall’economia, dalle discipline, dalla storia o dai gruppi sociali. La più grande libertà e possibilità che distingue questo luogo consiste anche nell’iniziare con anni di anticipo a conoscere e a collaborare con gli artisti e le artiste, che approdano poi nelle grandi città dopo aver percorso un pezzo di strada assieme a Centrale Fies e portano con sé le tracce del lavoro svolto. Forse quest’ultima è un’altra lettura del titolo XL che segna il passaggio dal festival estivo alle attività quotidiane di un centro che non chiude mai.
– Il lockdown ha esteso e approfondito processi di smaterializzazione digitale – di corpi, relazioni, identità – già in atto. Quali sono le possibilità e i limiti di una digitalizzazione della performance?
Filippo Andreatta – Durante il lockdown il digitale si è rivelato un aiuto importantissimo, forse il più sorprendente. Ha permesso di vedere molti progetti, spettacoli e dialoghi altrimenti irraggiungibili. È stata una fonte di studio vorticosa. Ma il suo limite, soprattutto per le Arti Performative, è l’assenza di prossimità dei corpi che è l’atto teatrale fondante, l’atto di raccogliersi insieme in uno spazio comune. E questo spazio non può smaterializzarsi.
– La quarantena ha portato alla luce la fragilità insita al sistema delle arti contemporanee e la mancanza di tutela per lavoratrici e lavoratori della cultura. Tutto ciò ha portato alla nascita di movimenti come AWI – Art Workers Italia. Centrale Fies rappresenta un modello virtuoso, di sostegno concreto non solo alla fase di exhibit, ma soprattutto ai presupposti di quest’ultima, ossia la ricerca, lo studio, il lavoro e la produzione. Quali sono gli interventi più urgenti per dare slancio e sostengo concreto a chi lavora nel settore?
BB – Durante il lockdown e grazie anche al fitto lavoro di movimenti come AWI, si è portata alla luce la necessità di interventi capillari necessari in tutti gli strati di un sistema complesso e spesso invisibile, perché non integrato in una narrazione mainstream o popolare. A Centrale Fies ci prendiamo cura di una piccola parte di questo processo, secondo le necessità degli artisti e delle artiste e grazie alle competenze che l’art work space ha potuto affinare negli anni. Non c’è un intervento unico che dia slancio al settore ma una serie di azioni da fare in tant*, e contemporaneamente! Anche per questo motivo Centrale Fies sta spostando sempre di più il suo focus sul lavoro quotidiano, più che sulla parte di exhibit, che è solo l’esito, l’estrinsecazione finale di un lungo processo fatto essenzialmente di ascolto e confronto con gli artisti e le artiste. Essenziale è fare network con soggetti, strutture, musei, centri e realtà internazionali, trovando altro sostegno da affiancare all’operato di Fies. Sempre nel nostro caso il percorso intrapreso con LIVE WORKS (il programma di residenze di Fies – NdA) segnerà l’inizio delle rivoluzioni future di Centrale Fies, dove tutti i progetti che prevedevano una parte finale espositiva si trasformeranno in borse di studio a lungo termine, attivando nuovi canali di fellowship finalizzati anche a promuovere quote specifiche nel mondo dell’arte e a riequilibrare così le asimmetrie delle produzioni performative. Dobbiamo uscire dalla “festivalizzazione” degli artisti e delle artiste e focalizzarci più sulle loro pratiche e il sostegno alla ricerca.
– Proprio riguardo a questo aspetto, come mai il “modello” Fies fa fatica ad essere abbracciato anche da altre realtà altrettanto consolidate?
BB – Centrale Fies non è un modello ma un generatore di modelli e format che sarebbe difficile per qualsiasi altra realtà emulare o mettere in pratica per intero. Ciononostante moltissime pratiche sperimentate qui sono state abbracciate e “customizzate” da altre realtà, sia locali che nazionali. Direttamente e indirettamente Centrale Fies ha acceso fuochi in ambiti vicini e lontani, alimentando e modificando nuovi contesti nel mondo delle arti.
– Negli ultimi mesi moltissime realtà museali, artistiche e culturali sono state costrette a reinventarsi per rimanere in qualche modo visitabili anche a porte chiuse. Quali ripensamenti e reinvenzioni non sono stati fatti ma sono necessari?
Quello che riterremmo necessario sarebbe strutturare un sistema nel quale l’artista non viene pagato unicamente per la sua performance o evento, ma anche per i giorni di residenza, studio e ricerca.
– In controtendenza a una contrazione generale – e per molti inevitabile – dell’offerta culturale, avete deciso di allargare il tradizionale festival estivo a più momenti che si dipaneranno fra questo e il prossimo anno. Da qui il titolo XL, che richiama qualcosa di sovradimensionato, in estensione ma anche in profondità. Quanto è importante in questo momento storico coinvolgere discipline e suggestioni diverse? E come portarle poi al pubblico in maniera trasversale (per fascia d’età, aspettative, conoscenze etc.)?
BB – Centrale Fies ha avuto al pari di tutte le altre realtà una flessione economica ingente, ma non ha voluto abbandonare gli artisti, le artiste, i lavoratori e le lavoratrici in questo momento difficilissimo e inaspettato. Dunque il sovradimensionamento si traduce sia in estensione delle tematiche e delle pratiche, sia nelle nuove profondità esplorate dallo studio e dalle connessioni con altre realtà e professionist* conosciut* in questi mesi di lockdown. Fies ha scelto di puntare più sulla cura delle persone, dei progetti e di ogni dettaglio, che su una programmazione celebrativa che il 40esimo anniversario avrebbe immediatamente suggerito. Lo ha fatto rinunciando a moltissimo, come alla quantità di pubblico che ogni anno si riversa nelle sale o al non uscire con la sua “brochure simbolo”: Centrale Fies ha molte cicatrici che tornerà a guardare spesso per non dimenticare. Per quanto riguarda il coinvolgimento del pubblico, le attività di Fies, festival compreso, si rivolgono da sempre a diversi segmenti delle comunità locali, nazionali e internazionali a seconda dei progetti e dei contesti. Dalle produzioni alle residenze per performer provenienti dagli altri continenti, dalle attività scolastiche pensate per i bambini e le bambine del territorio e dedicate allo studio e alla divulgazione della performance art storica, fino ai laboratori di redesign thinking territoriale.
– Le narrazioni che si incontrano in questo festival sono divise in capitoli, frammenti “esplosi” che ricostruiscono e al contempo problematizzano la situazione che stiamo vivendo. E direi che proprio una sorta di “esplosione” spazio-temporale è ciò che ha caratterizzato questi ultimi mesi. Siete d’accordo? Siete partiti anche da questo tipo di considerazioni per il concept del progetto?
FA- Esplodere il festival e trasformarlo in una programmazione diffusa lungo tutto l’anno era un discorso aperto da prima della crisi sanitaria. Paradossalmente, il Covid-19 ci ha permesso di realizzare qualcosa che non avevamo il coraggio di fare e questa situazione eccezionale ha confermato l’urgenza di ripensare i formati delle istituzioni culturali. Sarebbe uno spreco fare di tutto per tornare a “come prima” anziché ripensarsi profondamente e concretamente con nuovi progetti e nuove relazioni fra le spettatrici, gli artisti e le lavoratrici.
– Il progetto mette insieme moltissimi artisti e artiste e un team curatoriale vasto. Quanto conta e come si sviluppa il lavoro di squadra nelle arti contemporanee? E come è cambiato il lavoro di squadra durante il lockdown?
FA – Se infondo le arti performative sono arti corali perché non dovrebbero esserlo anche le istituzioni che le sostengono, producono e presentano?
– Il progetto prevede sia una programmazione di eventi e mostre “dal vivo”, che una parte virtuale. Quali sono le difficoltà nel far convivere queste due modalità di esperienza dell’arte?
BB – Centrale Fies è da sempre luogo di interconnessioni. Stiamo affrontando le nuove modalità nello stesso modo in cui abbiamo attraversato le diverse pratiche negli anni: in un’ottica tanto funzionale quanto sperimentale, ricercandone le reali opportunità. Come nel caso della curatrice Claudia D’Alonzo che si concentra sulla condizione intermedia data dalla compenetrazione e interazione tra realtà fisica e virtuale. Uno stato di vita che il lockdown ha reso più evidente, come quello di essere “onlife”, ossia presente sia in forma virtuale che reale. Le difficoltà che riscontriamo sono legate all’assenza del corpo in presenza (aspetto fondamentale delle arti performative), e non ai lavori pensati e creati ad hoc per essere vissuti con diverse modalità. In questi giorni per LIVE WORKS tra le artiste selezionate ci sono Giulia Crispiani e Golrokh Nafisi, quest’ultima rimasta a Teheran a causa della crisi sanitaria. Le due artiste stanno svolgendo la loro residenza a distanza e questa assenza ha inciso profondamente sul loro lavoro, tanto da renderlo riflessione intima su questa lontananza geografica e temporale che le separa.
– Quali sono i prossimi appuntamenti assolutamente da non perdere?
BB – I 4 weekend estivi live a Centrale Fies, il progetto online e onlife di Claudia D’alonzo Inbtwn, e il format video PERFORM! di divulgazione della performance art per bambini e bambine da ottobre sul nostro sito.
– Potete anticiparci già qualcosa di quello che vedremo nei prossimi capitoli di XL?
BB – Uno sviluppo particolare, tra online e live, pensato passo passo, insieme agli artisti e le artiste selezionate per questa nuova edizione di Live Works vol.8: Noor Abuarafeh, Thais Di Marco, Harilay Rabenjamina, Giulia Crispiani & Golrokh Nafisi, Olia Sosnovskaya, Göksu Kunak, Marnie Slater & Alberto García del Castillo di Buenos Tiempos Int. Per il primo anno LIVE WORKS ha scelto di trasformare la quota produttiva ampliandola in una borsa di studio, e distribuendo le residenze durante tutto l’anno. Live Works diventa ogni anno più aderente alla filosofia di chi l’ha ideato (Barbara Boninsegna, Simone Frangi e Denis Isaia) una piattaforma continua, animata da una politica reale di curatela, nutrimento, sostegno e diffusione di quelle pratiche artistiche emergenti che creano nuovi scenari e ampliano la ricerca nel campo del performativo.