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Eva Marisaldi ed Enrico Serotti

La nostra intervista ai due artisti in occasione dell'uscita del disco-catalogo che presenteranno al MAMbo il 21 febbraio 2019.

Geschrieben von Elisabetta Modena il 15 Februar 2019
Aggiornato il 13 März 2019

Lo scorso dicembre è uscito music first, un disco in edizione limitata realizzato da Enrico Serotti con Eva Marisaldi, l’artista bolognese protagonista della recente mostra Trasporto Eccezionale – curata presso il PAC di Milano da Diego Sileo – che si è conclusa qualche giorno fa, il 3 febbraio. La mostra presentava una quarantina di opere realizzate a partire dagli anni 90 con le tecniche più diverse: video, disegno, scultura, arte cinetica, animazione, musica, installazione, e per l’occasione è stato pubblicato anche un volume da Silvana Editoriale.
Il disco – che giovedì 21 febbraio alle ore 18:30 sarà presentato al MAMbo in dialogo con Guido Molinari – è anch’esso una sorta di catalogo e contiene 17 tracce create appositamente dal musicista e compositore per le opere di Marisaldi nel corso degli anni. Come raccontato in occasione di Arte Fiera dai due artisti intervistati da Emanuela De Cecco nell’ambito dei talk organizzati da Flash Art, il disco costituisce una sorta di necessaria integrazione sonora ai cataloghi tradizionali, in cui questa parte così significativa dell’esperienza delle opere non è rappresentata.
Li abbiamo incontrati per farci raccontare qualcosa di più sul progetto.

 

Come è nata l’idea di questo disco?

Eva Marisaldi (EM) – Come diceva Alighiero Boetti, si è trattato di una felice coincidenza: un giovane editore di Nardò, Cesare Barbetta, chiese ad Enrico di ripubblicare del suo vecchio materiale. La sua etichetta, Orbeatize, stampa esclusivamente su vinile, in edizioni a tiratura limitata, materiale sperimentale prevalentemente elettronico. Ci venne spontaneo proporgli questa pubblicazione, che è un po‘ una selezione retrospettiva di vari contributi sonori prodotti da Enrico nel corso del tempo per video o installazioni. Allo stesso tempo potevamo prospettare una prestigiosa vetrina temporanea quale il bookshop del PAC di Milano, in occasione della mostra.

Il disco è un’edizione limitata e contiene un Art Book con un testo introduttivo del critico Guido Molinari. Nella storia dell’arte sono numerosi i casi di artisti che hanno utilizzato questo mezzo per fare arte e musica sperimentale o per documentare azioni e performance: nel realizzare questo progetto avevate in mente qualche modello o esperienza che ritenete accostabili alla vostra?

EM – Questo disco in realtà è una forma di “documentazione parallela”, non va inteso come un lavoro d’arte sonora per sè, come ad esempio diversi lavori di Fluxus. In realtà non conosco tante opere contemporanee presentate in forma esclusivamente sonora. Mi vengono in mente il bel lavoro di Marcello Jori sulla Moldava di Smetana, realizzato con Gianni Gitti, Yeah! di Luca Vitone, un cd di Nico Vascellari…

Enrico Serotti (ES) – Abbiamo sentito l’esigenza di una pubblicazione audio, perché tutta o quasi la documentazione sulle arti visive è pubblicata in forma cartacea, e raramente si utilizza il supporto sonoro. Per cui i suoni vivono solo durante le mostre, poi tacciono, a volte per sempre.

EM – Oltretutto nel corso degli anni cambiano le tecnologie e i supporti di riproduzione dei suoni nelle mostre: audiocassette, cd, mp3, eccetera. Certi lavori vecchi si fa fatica a esporli senza modifiche.

ES – Anche il titolo music first allude a questo, ovvero per una volta ci si può approcciare ai lavori partendo da un altro punto di vista, in questo caso “di udito”.

Perché avete scelto di realizzare un vinile e non un cd?

ES – Secondo me, se si parla di suono, il supporto “disco LP” rimane il migliore, perché ha una dignità di oggetto, cosa che il CD proprio non ha. Il CD suona un po‘ meglio, ma fisicamente è solo un pezzetto di plastica con una figurina come copertina.

EM – Un album, già il nome la dice tutta, si può sfogliare. Le pagine contenute al suo interno sono di grande formato, leggibili, e la grafica può espandersi. Ci si può perdere nelle pagine di un LP, mentre si ascolta la musica.

Come mai sulla copertina avete scelto di mettere l’immagine di un camaleonte?

EM – Si tratta di un fermo immagine dal video Musica per camaleonti, realizzato ad Antananarivo in Madagascar nel 2003. Enrico ha improvvisato, con un laptop, per alcuni camaleonti, mentre io filmavo. L’idea di partenza nasceva dal racconto omonimo di Truman Capote. La sorpresa inaspettata è stata la risposta dei molti uccelli nelle vicinanze, che duettavano coi suoni generati dal computer. È stata una performance senza pubblico, presentata in differita… Dopo la realizzazione del video, nel corso del nostro viaggio abbiamo incontrato altre suggestioni che hanno portato ad altri lavori, ma hanno richiesto anche lunghi approfondimenti di natura geopolitica.

In che modo questi suoni rappresentano un catalogo sonoro del vostro lavoro? Che cosa perdono e che cosa guadagnano i suoni decontestualizzati dall’opera fisica? Penso per esempio al rapporto con lo spazio, perché il suono cambia, quando è allestito…

EM – La scelta dei brani è stata dettata dalla natura più musicale dei contributi. Avrei voluto mettere anche altri suoni, ma dal punto di vista di un puro ascolto non sarebbero stati particolarmente interessanti. Ad esempio i rumori del mio stomaco, oppure quattro mosche morte in una scatoletta di cartone, o il vento che fa suonare i cavetti d’acciaio delle barche a vela ormeggiate…

ES – Partendo dal suono il contesto di fruizione è certo differente, ma ci sono immagini e testi sul disco che aiutano ad orientarsi. E comunque se si ascolta il disco in casa, con un impianto decente, l’esperienza sonora è decisamente migliore di qualsiasi allestimento in mostra. I musei non sono quasi mai pensati per il suono. Gli spazi espositivi risuonano in diverse maniere, i diffusori acustici spesso non sono di qualità, e ci sono moltissime interferenze provenienti dal rumore d’ambiente, dal sonoro di altri lavori, e dal pubblico stesso.

 

Che tipologie di suoni e musiche sono raccolte nel disco?

ES – Musica suonata, improvvisazioni, musica elettronica autogenerativa, registrazioni ambientali, radiodrammi recitati… direi materiali vari.

Ci raccontate cosa significa materialmente suonare per camaleonti e uccelli?

ES – Quando siamo andati in Madagascar ad improvvisare per i camaleonti era un po‘ come andare ad un blind date, non avevamo la più pallida idea delle possibili reazioni, naturalmente avremmo voluto far loro cambiare colore coi suoni, cosa che non è successa. Avevo preparato degli strumenti elettronici, programmati in ambiente Reaktor, per poter lavorare su varie fasce di frequenze, dalle basse alle altissime, con suoni lunghi o ritmati, ma a parte una leggera insofferenza verso le frequenze medio alte direi che i camaleonti non reagivano in maniera visibile. Poi, a seguito della partecipazione spontanea ed inaspettata degli uccelli tropicali alla performance, realizzammo un altro video, Hybird, in cui cercavo di entrare in “comunicazione” con uccelli locali. Per l’occasione avevo programmato un “cinguettatore” che mi permetteva di disegnare in diretta gli andamenti e le frequenze dei cinguettii. Andammo nei boschi di mattina presto, il momento in cui gli uccelli cantano di più.

EM – Non facciamo solo queste cose, ma ci piace metterci in certe situazioni. Risuonare.

Enrico, tu sei un musicista e compositore: in che modo ti rapporti alle opere di Eva? Ci puoi fare qualche esempio tra le tracce presenti nel disco?

ES – Mi piace ricordare Connie un nome da biro, un mediometraggio video prodotto in totale autonomia e con la partecipazione di molti amici per la mostra A4Extra, che è focalizzato maniacalmente sul tema della biro. Al punto che anch’io decisi di suonare la colonna sonora utilizzando le biro. Chitarre suonate con la biro, percussioni di biro su carta… Poi amo particolarmente la performance di Eva e Levis De Ganello per il video Fuori, che è la messa in scena di un dialogo sul tema del vento tra Eva ed un chatbot. Il video è un unico piano sequenza che sembra reale, ma in realtà tutto ciò che si vede e si sente, a parte le due voci, è artificiale, testo compreso. Alberi parametrici mossi da un vento parametrico. Siamo riusciti anche a far recitare a George, il chatbot, due brevi poesie sul vento. In questo caso non c’è musica, ma ho composto tutto il sonoro di fondo, il vento tra le palme, gli aerei che passano nel cielo…

Eva, tu hai sempre sottolineato l’importanza della collaborazione con Enrico, che in molti casi è diventata una vera e propria co-autorialità: dal punto di vista progettuale, quanto è importante per te la condivisione di un percorso per produrre un’opera?

EM – Enrico mi mette nelle condizioni di poter realizzare certe cose… a parte questo a volte mi censura, in altri casi azzardo richieste a cui lui non desidera dare risposta. Ma lo faccio anch’io con lui. Però quando decidiamo di lavorare insieme non ci sono mai problemi.

Ricordo che anche nella mostra personale organizzata l’anno scorso dalla Galleria De’ Foscherari di Bologna e intitolata Surround (ottobre 2017-gennaio 2018) i suoni erano protagonisti insieme a disegni e agli oggetti.

EM – In realtà alla De‘ Foscherari c’era solo un “toc toc” ripetuto da tre diffusori nascosti, il suono del tarlo malgascio, risuonato da Enrico “a memoria”, perché quando lo sentimmo non potevamo registrare. Il tarlo stava ad indicare le indagini, in corso da anni, sull‘ Africa, che sono poi confluite nella mostra al PAC.

La maggior parte delle musiche e dei suoni, sono sviluppati in una modalità performativa (penso alla registrazione del suono delle pagine originariamente sfogliate dai delegati delle province del Partito comunista cinese e reinterpretati da 65 attori improvvisati riuniti nello splendido teatro di Villa Aldrovandi Mazzacurati a Bologna lo scorso aprile per diventare poi un’opera intitolata 3000 pagine). Che senso assume questa scelta?

ES – Una compagine di persone ha gentilmente partecipato alle sessioni di registrazione per realizzare il sonoro dell’opera 3000 pagine. Sono stati tutti molto disciplinati e collaborativi, e grazie a loro ed al bravo fonico Eugenio Bonetti abbiamo costruito questo suono particolarmente suggestivo ed inconsueto, che sembra una lenta risacca cartacea. Per permettere la sovrapposizione di 46 tracce audio in postproduzione, arrivando così al totale di tremila pagine sfogliate in contemporanea, occorreva sfogliare a tempo. Io avevo un clock in cuffia e “dirigevo l’orchestra”. Eva, che sfogliava assieme agli intervenuti, aveva realizzato per tutti i partecipanti degli appositi fascicoli utilizzando la carta degli elenchi telefonici. Comunque, più in generale, direi che il suono è sempre performato, sia da un virtuoso strumentista che da un ignaro rodilegno.

EM – Il coinvolgimento di tante persone non è garanzia di un lavoro interessante e riuscito. Noi abbiamo collaborato per tanti video con attori non professionisti. In questo caso specifico sono contenta di aver potuto offrire alle persone intervenute un bel contesto quale il teatro dei Bibiena.

Che rapporto avete con Bologna oggi?

EM – Non essendo particolarmente interessati al cibo siamo un po‘ tagliati fuori… comunque va bene anche il turismo, abbiamo molti amici che lavorano nel settore, ristorazione, guide cittadine, intrattenimento cultural-culinario…
Però i tagli ai musei pubblici si sentono.

C’è un posto, un locale, un negozio che avete voglia di ricordare?

EM – L’ANT grande di via Paolo Veronese era spettacolare.

ES – La Casa del Disco di Via Indipendenza, dove si trovava di tutto.

In una delle opere di Eva è omaggiata anche una persona che fa parte della storia della città: sto pensando ad Angolo (1993), un’animazione in loop dell’immagine di un uomo noto ai bolognesi, perché per molti anni è stata una presenza fissa intenta quotidianamente a dondolarsi e fumare davanti a un muro in una zona precisa della città.

EM – Certamente, non lo vedo da parecchi anni, non conosco il suo nome, ma da tutti era conosciuto come Pendolino, stava sempre a porta Saffi. È anche documentato nel libro “Storie di matti”, di Paolo Nori. Io gli ho dedicato un lavoro, l’ho messo a dondolare, ridisegnandolo, di fianco ad una grande foto di un glicine fiorito.