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Gino Gianuizzi racconta la galleria neon e la mostra che ne ripercorre la mitica storia

Geschrieben von Valentina Rossi il 20 Juli 2022
Aggiornato il 28 November 2022

Foto di Alessandro Zanini

Nel 1981, nel clima della Bologna post ’77, in via Solferino un gruppo di amici e studenti del DAMS fonda neon „senza un progetto, senza strategia, senza budget e senza obiettivi predeterminati“. Attraversando diverse fasi e diverse sedi (via Avesella, via Bersaglieri, infine in via Zanardi), fino al 2011 neon è stata un laboratorio permanente, una comunità per artisti, critici e curatori e un luogo di formazione per tutte le persone che vi hanno collaborato. Primo tra tutti, Gino Gianuizzi, anima dello spazio e oggi curatore di NO, NEON, NO CRY, la mostra allestita nella Project Room del MAMbo (fino al 4 ottobre 2022) che tenta di ricostruire la complessa, sfaccettata, “disordinata” storia della galleria.

Ecco cosa ci ha raccontato Gino.

NO, NEON, NO CRY
 (foto di Ornella De Carlo)

 

La neon è stato un progetto importante per la città di Bologna e non solo. Come è nata?

neon – l’idea di neon – nasce nell’agosto 1980, durante una lunga vacanza a Salina, Capo Faro, Isole Eolie. Quella è l’estate della bomba, della strage di stato alla stazione di Bologna. Eravamo a Salina già da due/tre settimane: io, Stefano Delli, Valeria Medica, Antonia Ruggeri, e lì è approdato Maurizio Vetrugno, torinese (ma con un percorso di studi bolognesi). neon è nata per un caso e perché il mare era azzurro e il sole caldo, è nata perché ci piacevamo e ci piaceva stare insieme e ci volevamo bene e immaginare un luogo e un progetto condiviso ci sembrava una prospettiva entusiasmante. Senza che ci fosse consapevolezza, in assenza di un piano definito, neon rispondeva alla necessità nostra di fare e alla necessità ‘generazionale’ di dare un seguito alle esperienze vissute nella stagione del ’77 bolognese.

Quali sono state le motivazioni che ti hanno portato ad aprire uno spazio del genere?

Credo di poter affermare che il progetto neon sia stato un progetto d’artista, questo aspetto rappresenta la peculiarità di neon, nata in un momento nel quale l’artist run space non era un discorso all’ordine del giorno come lo è oggi.
neon è stata una galleria-non-galleria, una cosa complicata da definire. Delineo rapidamente una storia di neon, come è nata e in quali circostanze, scaturita dopo il 1977. Bologna era una città molto interessante, si incrociavano tante cose, tante ricerche… ovviamente molto di tutto era ciò legato alla politica, al movimento del ‘77 e quindi di solito letto più sotto il profilo politico-sociale che non sotto quello artistico.
Bologna in quel periodo era un crocevia che, incredibilmente, legava la città alle grandi capitali europee ma non solo: c’erano intensi rapporti con Berlino e con Parigi, ma anche con New York, cosa che ripensata adesso era quanto mai strana, perché il tutto avveniva grazie ai rapporti personali di alcune persone che alimentavano un contesto di cui tutti si nutrivano. neon nasce proprio nel 1981.

Hai collaborato con tantissimi artisti. Quale progetto ti ha colpito di più?

Lavorando sull’archivio di neon ho visto che sono state realizzate circa trecento mostre; certo La portata umana è nulla di Eva Marisaldi è stato forse il progetto espositivo più impegnativo; ma non posso evitare di ricordare che Maurizio Cattelan ha esordito proprio con una mostra personale alla neon. E poi per me sono importanti tanti progetti, che magari possono apparire i minori ma che corrispondono al criterio ‘sentimentale’ che segnava le mie scelte, basate sulla qualità del lavoro e del rapporto personale e non sulla potenziale appetibilità dell’opera per il mercato.

Parlando della mostra ad oggi allestita alla project room del MAMbo, immagino che sia stato difficile sintetizzare così tanti anni di attività in una sola esposizione. Quali sono i criteri che hai usato No Neon No Cry? Su quali lavori hai preferito focalizzarti?

Il progetto per il MAMbo ha attraversato diverse fasi dal momento in cui Lorenzo Balbi mi ha proposto una mostra (ci sono in mezzo il 2020 e 2021, con tutte le difficoltà connesse). In principio io avevo rilanciato pensando ad una mostra documentaria nello spazio della project room del MAMbo e alla programmazione di una mostra in continua mutazione a Villa delle Rose. Non volevo cadere nella mostra in qualche modo celebrativa, volevo che neon continuasse a fare quello che ha sempre fatto: produrre situazioni. Evidentemente questo non è stato possibile e siamo arrivati a NO, NEON, NO CRY che è il risultato di una negoziazione, di una mediazione fra un soggetto irriducibile alle norme museali e l’istituzione museo.

Pensi che nelle attuali condizioni sia ancora possibile una esperienza come quella di neon?

No, non credo che oggi sia possibile qualcosa del genere. neon è fin dalla sua nascita un soggetto border-line, si muove nello spessore del margine, adotta comportamenti che sono riconoscibili come comportamenti caratteristici della galleria di mercato (es. partecipazione alle fiere internazionali); ma sviluppa una programmazione improntata esclusivamente sulla ricerca e sulla sperimentazione. Questa specificità – che penso sia una caratteristica esclusiva di neon – diventa la linea-guida che regge tutta l’attività di neon e che ancora oggi si può riconoscere come elemento di base nel nostro lavoro.

Cosa pensi dell’ambiente artistico di Bologna negli ultimi anni? Frequenti qualche realtà in particolare?

Penso che la città, dopo avere sfruttato a lungo l’aura leggendaria della Bologna del DAMS – leggi (nomi a caso e in confusione) Andrea Pazienza, Skiantos, Umberto Eco, Pier Vittorio Tondelli, LINK, etc. – finalmente abbia deciso che sia più opportuno tornare all’ordine e puntare sul cibo e sul turismo di massa.
L’ambiente artistico per le istituzioni è un’area residuale, marginale, che non muove consenso. E soffre di questa condizione, cercando approvazione piuttosto che agire in autonomia (ma d’altra parte ci insegnano che occorre un business plan, un budget solido, una previsione di successo, molti e molti like). Non è molto lo spazio per immaginare e sognare e quello è lo spazio in cui agisce l’arte.