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Il viaggio a ritroso di Muna Mussie tra Bologna e l’Eritrea

Fino al 10 settembre 2023 al MAMbo una mostra dell'artista ripercorre i Congressi e Festival Eritrei che si svolsero dal 1972 al 1991 in città

Geschrieben von Marianna Reggiani il 29 August 2023

Muna Mussie. Foto di Ornella De Carlo

Dal 1972 al 1991 si svolsero ininterrottamente a Bologna i Congressi e Festival Eritrei, frequentati dalle comunità diasporiche eritree provenienti da tutto il mondo per supportare la lotta armata inaugurata nel 1961 per l’Indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia. A sottolineare l’importanza che queste occasioni di incontro ebbero, al termine della guerra, il neo governo eritreo, proclamato nel 1993 dal presidente Isaias Afewerki, intitolò ad Asmara – la capitale dell’Eritrea – una strada col nome di Bologna St., come riconoscimento permanente del ruolo fondamentale che la città ebbe nel raggiungimento dell’indipendenza dell’Eritrea.

A partire dal legame che unisce l’Eritrea, il suo paese nativo, e Bologna, la sua città adottiva, l‘artista Muna Mussie ha realizzato per la Project Room del MAMbo la mostra Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna
 (a cura di Francesca Verga con Archive Ensemble
, dal 2 giugno al 10 settembre 2023
) mettendo in dialogo materiali d’archivio con alcune sue opere.

Ecco cosa ci ha raccontato.

– scorri sulle foto per sfogliare la gallery –

 

La mostra al MAMbo fa seguito ad un’altra esposizione organizzata nel 2021 presso lo spazio Archive a Milano, intitolata "Bologna St. 173. Il sole d’agosto, in alto nel cielo, batte forte". Ci parli dell’idea che ha dato origine al progetto?

Il progetto che ho iniziato ad Archive era focalizzato sul concetto di casa, che è stato declinato visivamente in tre modi diversi. C’erano delle strutture di legno che richiamavano il campeggio che si creava quando le persone che partecipavano ai Festival arrivavano da fuori, senza potersi permettere l’albergo. Dunque una casa mobile, che diventa casa ovunque tu sei, ma che è al tempo stesso precaria e fragile. Sopra queste casette avevo posizionato dei tessuti, i netzelà, gli abiti tipici delle donne eritree utilizzati per coprirsi il capo: torna dunque l’idea di tetto, e tutto ciò che fa da tetto suggerisce un concetto di casa. Un’ultima stratificazione sono degli acronimi ricamati sul tessuto, ovvero le sigle delle varie associazioni in cui ci si riuniva nella lotta. Nel momento in cui la diaspora eritrea è iniziata, gli eritrei è come se avessero dovuto ricostruirsi un’identità, ridefinirsi, all’interno di associazioni composte da studenti, lavoratori e lavoratrici, tutti sotto lo stesso tetto, appunto.

Hai partecipato ai Festival? Immagino che non sarai stata neanche un’adolescente…

Sì ero piccolissima, ricordo quando avevo 10 anni, alla fine degli anni 80, di aver partecipato al festival tenuto alla Lunetta Gamberini. Nella mia percezione era un momento di festa, tutto il contesto politico mi era un po’ estraneo.

Ci parli della performance che ha aperto la mostra?

Aveva come fulcro una mappa che è una gigantografia di una porzione della mappa di Asmara, su cui è indicata Bologna Street, la via dedicata alla città di Bologna per il sostegno che ha dimostrato nella lotta per l’indipendenza. Il rito si sviluppava attraverso una danza circolare, tipica della cultura eritrea, praticata da 50 performers, tutti appartenenti alla comunità. La mostra si chiama Bologna Street, un viaggio a ritroso perché io ho fatto un viaggio per venire a Bologna, ma mi sono comunque ritrovata in Eritrea attraverso questi festival, mentre Bologna si è trasferita in Eritrea, nella via che porta il suo nome ad Asmara: è un viaggio che si rincorre continuamente, per me è stato, quindi, come chiudere un cerchio. Tutto quello che è stato il percorso di indipendenza ha avuto nuova vita e si è riattivato per portare nuova luce.

Da qui dunque la scelta di intitolare la performance "Uroboro"..

Esatto, l’Uroboro è il simbolo del serpente che si morde la coda, un eterno ritorno, ma allo stesso tempo una nuova rinascita.
All’interno della performance ho poi voluto includere una serie di elementi, prima di tutto la sonorità delle danze eritree, che noi performers potevamo ascoltare grazie a delle cuffie, mentre il pubblico era escluso dalla sonorità, vedeva soltanto la nostra azione. Per me era interessante ribaltare un po’ i ruoli: la persona non autoctona è solitamente più esposta nella misura in cui è diversa, dunque mi piaceva far vivere al pubblico una sensazione di esclusione e a noi una sensazione di anonimato.
Durante la danza, una donna ha iniziato a suonare le percussioni e alla fine della danza siamo entrati tutti nella mappa, dove io ho versato una biscia su Bologna Street, una finta pelle di serpente che richiama ancora l’Uroboro. Su di essa, poi, il pubblico ha gettato una scia di glitter.

Nel percorso espositivo è frequente l’elemento dell’argento. Cosa simboleggia?

C’è una doppia valenza: da un lato, è il colore delle armi usate nelle guerre, dall’altro, se pensiamo appunto al glitter, è un elemento di festa e di gioia. E i Festival erano proprio questo, eventi di discussione attorno al tema della guerra e delle strategie militari, ma anche momenti di festa e comunità.
Anche il popcorn-fiore, posizionato all’interno della mappa, ha una doppia valenza. Il suono prodotto dello scoppio richiama sia quello delle bombe sia quello del fuoco d’artificio, dunque, di nuovo, guerra e festività.

Il tuo medium principale è la performance. Si sente spesso dire che sia un mezzo difficile da comprendere. Come pensi che si possa abbattere questa barriera tra performer e pubblico?

A me è piaciuto definire questa performance “un rito”, per far sentire il pubblico coinvolto. Senza gli sguardi del pubblico non esiste l’azione, quindi, appunto, nel momento in cui viene dichiarato rito c’è per forza un avvicinamento. È un canale introduttivo che permette all’audience di diventarne parte. Il rito collettivo è una forma di preghiera in cui ognuno può pregare quello che vuole. È una forma di catarsi.

Questa è una mostra dalla forte connotazione politico-sociale. Qual è secondo te l’apporto che l’arte può dare alle lotte politiche?

Sicuramente l’arte va a incidere sull’immaginario, è necessario che ci sia una contro risposta alle immagini diffuse dalla propaganda, è necessario che ci sia una restituzione di immaginari nuovi. Per fare ciò, l’artista si mette in una posizione di confine per guardare da una nuova prospettiva. Io chiaramente non sono andata a intaccare gli elementi in archivio, ma ho cercato di dare uno sguardo oggettivo su ciò che si stava producendo in quel momento storico e poi uno sguardo interpretativo e soggettivo su quello che, per me, significava quella situazione. L’elemento autobiografico è un canale di accesso privilegiato e anche necessario per umanizzare la storia e le persone che ne hanno fatto parte. Si corre sempre il rischio che la storia escluda la soggettività.

Come mai, secondo te, Bologna si è prestata così bene a ospitare questi festival?

Innanzitutto c’erano molti studenti eritrei che avevano vinto borse di studio per venire a Bologna. Poi c’erano anche dei contratti con l’Eritrea, ex colonia italiana, che permettevano alle donne di arrivare qui per lavorare come domestiche. Dunque si era creata una forte comunità. Il sindaco di allora, Renzo Imbeni, ha sostenuto quella lotta, anche perché il PCI la faceva da padrone. Inoltre, come spiegò il consigliere comunale Claudio Mazzanti, ci fu in quegli anni una rottura del PCI con il partito dell’Unione Sovietica, dal momento che quest’ultimo riconosceva il diritto all’Etiopia, in quanto filomarxista, di sottomettere l’Eritrea. Con questa rottura, il PCI italiano sosteneva che il diritto all’indipendenza è un grande diritto di qualsiasi paese.