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Oltre la città del “mattone”: intervista a MIROarchitetti

quartiere Zona Universitaria

Geschrieben von il 15 Oktober 2020

Valentina Cicognani, Giacomo Minelli e Riccardo Pedrazzoli: MIROarchitetti sono loro. Da sempre attivi nel dibattito pubblico sull’architettura in città, da sempre in zona universitaria, artefici dell’illuminazione delle Due Torri e, per dirne un’altra fresca, della discussa proposta del drive in dell’estate Covid. Ma c’è ovviamente molto di più, come ci hanno raccontato.

 

Miro come nasce?

Abbiamo iniziato a lavorare insieme dopo la laurea con un gruppo più ampio di colleghi facendo concorsi, poi nel 2010 abbiamo deciso di fondare uno studio noi tre, ci conoscevamo dai tempi dell’università e le affinità tra noi ci hanno spinto a lanciarci in questa avventura nella città dove tutti e tre abitavamo e che amiamo.

Com’è essere architetti a Bologna? Siamo davvero ancora alla “città di pietra”?

Bologna è una splendida città, all’avanguardia da sempre in molti campi ma paradossalmente non è un terreno molto fertile per lo sviluppo dell’architettura contemporanea.
Nella nostra esperienza abbiamo riscontrato parecchia resistenza alla novità. È una città accogliente che avvolge e culla come in un utero materno, che però proprio come un utero racchiude e protegge da ciò che è estraneo e sconosciuto.
È esemplificativo il fatto che tutte le attività culturali si svolgono principalmente all’interno della cinta muraria e solo recentemente si sta cercando di dare spazio e risalto a ciò che sta fuori.
Forse in questo si può parlare di “città della pietra” o meglio del mattone.
Le architetture contemporanee degne di nota in città sono poche.
Fortunatamente da qualche anno, soprattutto ad opera di privati, se ne sono realizzate alcune (Mast, Fondazione Golinelli, lo sviluppo in Bolognina dove, prima fra tutti, sorse la nuova sede del Comune). Ci sono progetti in corso e altri che sono ancora sulla carta come ad esempio la riqualificazione della Staveco o di aree dismesse che chissà se e quando vedranno la luce.
Qui in città noi ci occupiamo prevalentemente di progetti in ambito residenziale lavorando sull’esistente. Attraverso i lavori in cui ci è stata data più fiducia abbiamo sviluppato una nostra poetica progettuale che ha avuto buoni riscontri e che continuiamo a evolvere.

Leggevo che per un progetto di illuminazione delle Due Torri avete trovato un sacco di ostacoli della Soprintendenza. Qual è il punto di incontro tra la tutela e le idee?

Il progetto dell’illuminazione permanente delle Due torri nacque da una nostra iniziativa. Fu nostra l’idea (insieme al dott. Marco de Lucia) di illuminare il monumento simbolo della città che fino ad allora svaniva nella notte. Dopo aver presentato l’idea all’assessore della cultura Lepore, ci mettemmo alla ricerca di uno sponsor che sposasse il progetto e lo trovammo in Ascom grazie alla quale si potè realizzare.
È un peccato notare che da qualche mese le luci restino spente, anzi cogliamo l’occasione per chiederne conto all’amministrazione comunale.
Il primo progetto da noi sviluppato era un po’ più ambizioso dal punto di vista scenografico, tutto nel rispetto del monumento e del contesto.
La Soprintendenza ci chiese di limitare e rivedere il progetto, la richiesta fu quella di creare “un illuminazione al chiaro di luna”.
Il patrimonio artistico e monumentale del nostro paese è sotto gli occhi di tutti, va certamente tutelato ma con rispetto si può trovare un modo un po’ più coraggioso di quello fino ad ora adottato per valorizzarlo e rinnovarlo, partendo dal concetto che la città è un organismo in continuo mutamento.
In questo spesso il dialogo con la Soprintendenza risulta difficoltoso.

Altra vostra proposta molto discussa la scorsa estate è stata quella del drive in per il Cinema di Piazza Maggiore. Anche io ero molto perplesso. Come mai una proposta del genere in un momento così delicato per i temi ambientali?

Era il periodo in cui si congetturava su come far rispettare, a fine lockdown, il distanziamento fisico negli eventi e nella vita pubblica in genere. I media pullulavano di proposte di architetti e designer a base di pannelli di plexiglass, cupole, transenne e altri oggetti da prodursi ad hoc. A parte la dubbia efficacia delle soluzioni in sé ci chiedevamo: „In una situazione simile davvero vogliamo costringere esercenti e amministrazioni a spendere soldi per imporre con delle barriere fisiche comportamenti corretti per i quali basterebbe un po’ di senso della responsabilità da parte dei singoli?“. Ma soprattutto: „Finita l’emergenza che facciamo? Buttiamo via tutto?“. Quella del del Drive In era una proposta intenzionalmente surreale e provocatoria per far notare come il tanto evocato distanziamento si poteva ottenere con la roba che già abbiamo in casa. Proprio perché siamo in un momento delicato per i temi ambientali la responsabilità degli architetti sta anche nel non voler costruire per forza anche quando non è necessario.
La boutade non è stata capita (da qualcuno in buona fede, da qualcun altro meno) e siamo stati interpretati come sostenitori dell’uso dell’automobile quando tutti e tre ci muoviamo prevalentemente a piedi, in bicicletta abbiamo anche una twizzy elettrica con sopra il nome dello studio.
Poi in realtà poche settimane dopo abbiamo proposto al Comune un progetto ben più concreto per disegnare gli spazi di distanziamento direttamente sulla pavimentazione dei dehors e delle strade, coinvolgendo grafici e street artists.
In questo caso però l’eco mediatica è stata minima.

Comunque mi pare di capire che siete molto interessati alla città. Quali altre proposte fareste per migliorarla?

Abbiamo formulato nel tempo svariate proposte per la città, a volte partecipando a concorsi a volte portando avanti iniziative in maniera autonoma.
Presentammo anche una proposta per una Bologna policentrica che prevedeva la valorizzazione delle periferie all’epoca della call aperta legata al Piano Strategico Metropolitano nel 2012.
La prima sede di Miro si trovava in zona universitaria e lo spazio, ottenuto tramite un bando per giovani attività creative, lo vincemmo proponendoci come studio aperto alla città promotore di iniziative che potessero portare valore a quella particolare zona/via sofferente di frequentazioni poco raccomandabili.
Ecco la nostra attività è sempre stata aperta alla città con iniziative quali mostre di giovani artisti ed eventi che potessero creare momenti di incontro, confronto e condivisione.
Abbiamo collaborato in team con altri colleghi dell’associazione Garbo al progetto partecipato di riqualificazione di via Petroni che però ha dimostrato come i progetti architettonico-urbanstici per funzionare hanno bisogno di essere affiancati da azioni e progetti di stampo più sociale che non spettano agli architetti e che se non promosse vanificano il lavoro fatto dagli stessi.
Una proposta per migliorarla potrebbe essere quella di attivare sempre più procedure di concorso che lascino spazio a progettisti che possano apportare valore e qualità al di là del loro nome, magari sconosciuto.

Passiamo al vostro quartiere, la zona universitaria. Qual è il vostro rapporto con il circondario?

Il quartiere universitario è un quartiere bellissimo, vivace e pieno di storia; ci viviamo tutti e tre e lo conosciamo bene; purtroppo è stato designato a “ghetto per gli studenti” che per una diffusa mancanza di senso civico usano lo spazio pubblico con un approccio poco rispettoso, per usare un eufemismo.
Dispiace vedere ragazzi che si sentono liberi di usare la strada come un orinatoio o una pattumiera. Dispiace vedere le forze dell’ordine che lasciano lo spaccio visibile a chiunque e percepire una mancanza di sicurezza che porta a sentirsi in dovere di accompagnare per un pezzo di strada un’amica invitata a cena.
A questo si aggiungono anche alcuni gestori di locali che pare che non riescano a dare un’offerta migliore se non quella di cicchetti a un euro (benzina per i cori da stadio a notte fonda) solamente per gonfiare le loro tasche.
Infine dispiace che l’unica soluzione che l’amministrazione riesca a mettere in atto sia quella di ordinanze che scontentano i commercianti e risolvono solo temporaneamente la problematica per poi tornare allo stato di partenza.
E, infatti, il problema esiste e resiste da tempo.

Che ne pensate del nuovo progetto per la facciata del Teatro Comunale e quale riqualificazione proporreste per Piazza Verdi?

Avevamo pensato di partecipare al concorso e avevamo anche buttato giù un po’ di schizzi in cui l’ampliamento diventava un prolungamento visuale del portico del teatro lungo via del Guasto, ma abbiamo desistito di fronte ai requisiti di multidisciplinarità del gruppo che non eravamo in grado di soddisfare in quel momento. Il progetto vincitore lo abbiamo visto, sembra una buona immagine di architettura contemporanea, siamo curiosi di vederlo realizzato.

Quali sono i vostri luoghi preferiti della Zona Universitaria?

Piazza Aldrovandi si è trasformata in un piacevolissimo salotto urbano, via Mascarella lo era già da prima e via Mentana è sulla buona strada: il quartiere non è solo gare di shortini e risse fra spacciatori. I giardini del Guasto e di San Leonardo aspettano con pazienza di diventare dei veri parchi come meritano. Per il giardino di San Leonardo noi abbiamo da tempo sviluppato una proposta che è stata anche presentata all’assessore ma ancora non sappiamo il destino di quel luogo.

Quali i simboli?

I Gingko Biloba di Largo Respighi. Segnano il passaggio delle stagioni con i loro favolosi colori. E non sono vandalizzabili!