In un’intervista al Corriere della Sera, Piero Oliosi, figura storica dei paparazzi di Cannes dal 1961 racconta che negli anni 60 fare questo mestiere significava «ritrovare tanti amici, godere delle feste dove c’era sempre il tavolo dei fotografi, accanto agli attori che non avevano guardie del corpo, con le bellone che si buttavano vestite in piscina per avere il pretesto di farsi vedere mezze nude, Mastroianni e Fellini con una procace spogliarellista di Genova seduta nuda in braccio a loro. […] Oggi, invece – afferma – ci si ritrova davanti a una signora protetta dai gorilla che annuncia: “You are not in my list”». Che tempi grami viviamo. Come la rockstar e il fotogiornalista, anche il mestiere dei paparazzi sembra aver superato la sua age d’or, per sprofondare in un medioevo di cupa marginalità: mai una gioia per i contemporanei. I Paparazzi sono i nemici da schivare nell’app Stars VS Paparazzi per Android: alieni, invasori e sgraditi. Eppure come pensare di privarcene? L’intera cultura pop ha un debito enorme nei confronti di questi umili faticatori dell’immagine, senza i quali Anita Ekberg o Briatore sarebbero soltanto nomi, non icone. La mostra di Camera, dunque, esplora il confine tutto novecentesco tra il bullismo dell’immagine indiscreta e la costruzione del nostro immaginario visivo, dispiegando il mistero di 150 scatti truffaldini, capaci, però, di segnare il successo di pseudo-carriere e l’edificazione di autentiche mitologie popolari.