Più del centro, imprigionato dai vincoli della soprintendenza, più della prima periferia, vessata da progetti immobiliari di dubbio valore, più di qualsiasi altra area della città che incrocia storia antica e recente, Porto è il quartiere dove la Bologna moderna è riuscita (e continua) a sperimentare nuove forme di città basate soprattutto sull’incontro tra esigenze di socialità, comunità culturali e trasformazioni produttive.
Per comprendere tale premessa bisogna partire dalla Manifattura delle Arti, ex zona portuale che dal Rinascimento fino all’Ottocento è stata epicentro di quel sapiente sistema di canali grazie al quale prosperò l’economia manifatturiera e che oggi, per merito della riqualificazione progettata negli anni 90 dall’architetto Aldo Rossi, è il simbolo delle ambizioni culturali della città.
Giusto per dare qualche riferimento: dove ci sono gli uffici della Cineteca c’era la Manifattura Tabacchi, la vecchia cartiera ha lasciato il posto alla Facoltà di Scienze di Comunicazione fondata da Umberto Eco (il cui faccione illustre ricopre la parete del Centro sociale Costa poco più in là) e l’ex Macello ospita il Cassero, il Cinema Lumière e le aule del Dams con i Laboratori delle Arti. Le acque del vecchio canale riaffiorano invece nel Parco del Cavaticcio sul quale si affaccia il Museo d’arte moderna MAMbo in quell’edificio che il primo sindaco socialista della città, Francesco Zanardi, adibì a Forno del Pane negli anni neri del primo dopoguerra.
Porto è il quartiere dove la Bologna moderna è riuscita (e continua) a sperimentare nuove forme di città basate soprattutto sull’incontro tra esigenze di socialità, comunità culturali e trasformazioni produttive.
Un progetto ambizioso coerente con la vocazione dell’area attorno alla quale si sono nel tempo aggregate altre esperienze artistiche private e orientate al contemporaneo come Gallleriapiù, Localedue, CAR Drde o P420, queste ultime tre raccolte nella piazzetta che guarda ai grandi palazzoni anni 70 di via Marconi e più in basso ai bellissimi murali dipinti sulle due “casette” di Hera da Lokiss e Rae Martini in occasione della seconda edizione del festival Frontier.
Ma Porto ovviamente non finisce qui e per scandagliarne le sue molteplici anime bisogna attraversarlo in differenti direzioni, ognuna delle quali porta in luoghi anche molto differenti tra loro.
Tuttavia c’è un aspetto che probabilmente accomuna gran parte del quartiere – che negli anni ha inglobato dentro di sé anche Saffi, Marconi fino alla Stazione e il Pratello (tralasciando qui Saragozza che ha tutt’altro tipo di personalità) – ed è la sua storia popolare simboleggiata un po’ dal monumento alla lavandaia col suo bel sederone in via della Grada (quanti ubriaconi hanno provato a ingropparla!), nonostante le quotazioni immobiliari abbiano negli anni trasformato profondamente una grossa fetta del suo tessuto sociale; oltre, inutile forse dirlo, all’immagine di quartiere “resistente” che parte dall’episodio storico della famosa battaglia di Porta Lame, ricordata dai due partigiani in bronzo che si ergono proprio sotto l’antica porta (costruiti fondendo la statua equestre di Mussolini abbattuta dalla torre di Maratona dello stadio subito dopo la Liberazione) e arriva al Pratello R’esistente, evento diventato ormai un’istituzione che ogni 25 aprile riempie all’inverosimile la strada fino a Piazza San Francesco.
Proprio il Pratello detiene ancora oggi tutta l’ideologia post-moderna di ciò che è passato ma continua ad essere costantemente reiterato e interiorizzato in nuove forme, ovvero il costante richiamo alla cosiddetta “vecchia Bologna” che a seconda delle generazioni ha come riferimento un po’ agli anni 90 e un po’ agli anni di piombo.
“Al Pratello – scriveva Pino Cacucci – si rimaneva persone indipendentemente da come ti guadagnavi da vivere la notte, o da quello che ti mettevi in vena, o da ciò che compravi o rivendevi; non ti giudicavano per il chiasso o il silenzio, né per la camicia o l’annata della tua macchina, contava solo quel che facevi e dicevi agli altri. Un mondo a parte, certo, un rimasuglio di umanità destinato all’estinzione”. Un mondo ormai andato, preceduto a sua volta da luoghi simbolo come il Circolo Pavese, ex Casa del Popolo diventata poi un grande calderone per ogni genere di spettacolo con Patrizio Roversi gran cerimoniere di molte notti e Siusy Blady eccentrica valletta; un mondo le cui rappresentazioni sono scolpite in esperienze seminali come Radio Alice e, in seguito, Prate TV, uno dei primi esempi di tv di quartiere in Italia, fondata nei primi anni 90 dai ragazzi e le ragazze delle case occupate.
Un mondo, infine, trasformatosi nell’istantanea di Emidio Clementi, “con il carcere minorile che si affaccia sui tavolini all’aperto d’estate e sulle chiacchiere etiliche nelle notti d’inverno. Con i negozi che sembrano botteghe e le osterie fiancheggiate dai pub. Con chi se n’è andato, ma sempre ritorna, o vorrebbe tornare”.
Il Pratello oggi è ancora così, crocevia di studenti, trans, senzatetto, perdigiorno e colletti bianchi che si confondono tra i banchi e sull’uscio di bar e osterie, personaggi mitici come La Contessa Melania, Rasputin e molti altri che l’hanno sempre contraddistinto fino a qualche tempo fa e per vari e ovvi motivi non ci sono più e le “solite facce” che non spariranno mai, gli amici “platonici” che sai per certo troverai sempre nello stesso posto.
Il Pratello sono le vasche da San Rocco a San Francesco, in compagnia, in solitaria, con o senza birretta in mano; le Paris Dabar che partono da Mirko di Al Pradel (ancora noto come Osvaldo, anche se Osvaldo sembra che ormai viva in Liguria da secoli), passano per Matteo del Barazzo e, dopo una deviazione verso il Piratello e le sue paste avanzate dalla colazione e messe liberamente a disposizione di chi beve, finiscono da Carlo del De Marchi o in qualche posto nuovo che decide a volte di tirare fino all’alba; le pisciate di straforo al bagno dell’Alto Tasso quando la vescica chiede sfogo dopo le numerose Birre da 66 bevute in Piazza; le partite al Mutenye (di uno dei suoi proprietari, Sante Notarnicola, si dice fosse “brigatista”, anche se quando fu arrestato per un “esproprio proletario”nel ’67 le BR non esistevano ancora”) in compagnia del Roma Club Pratello e dell’immancabile Gavino (che chiunque può trovare là dentro almeno 364 giorni l’anno!), finite le quali in filodiffusione per il locale partono i CD dei gruppi anni 90; un primo dalle storiche Sfogline e un caffè al Vanilia & Comics.
Il Pratello detiene ancora oggi tutta l’ideologia post-moderna di ciò che è passato ma continua ad essere costantemente reiterato e interiorizzato in nuove forme, ovvero il costante richiamo alla cosiddetta “vecchia Bologna”.
Ma il Pratello, nonostante tutto, è anche uno specchio della City of Food, un mangificio che macina nuove aperture e chiusure e che non a caso confina con un altro simbolo di questa tendenza alla foodification, ovvero l’area attorno al Mercato delle Erbe, l’edificio progettato nel 1910 da Arturo Carpi e Luigi Mellucci per accogliere le “indecorose trabacche” che avevano trasformato Piazza Maggiore in un gigantesco bazar “sconcio e deturpante”, secondo le forze politiche dell’epoca. Il Mercato, da sempre avamposto popolare, negli ultimi anni si è trasformato in “luogo della movida”, dove bar e bistrot erodono gradualmente spazio alle storiche botteghe e ai banchi di frutta e verdura. Vedi anche il progetto di ammodernamento stile Boqueria di Barcellona (o altre capitali del turismo) che prevede l’eliminazione di otto box dalla piazza centrale (la metà di quelli presenti) per fare spazio a nuovi posti a sedere e ad un’area adibita a cooking show, presentazioni di libri e musica.
Ma qui siamo agli estremi di Porto, al confine con il centro preso d’assalto dai turisti portati da Ryanair. Per trovare qualcosa di diametralmente opposto, ancora popolare nel vero senso del termine, bisogna spostarsi verso il Quadrilatero delle Popolarissime, veri e propri “casermoni” di periferia che verso la metà degli anni 30 furono destinati ad ospitare i diseredati del Baraccato (un ex ospedale militare fuori porta Lame) e le famiglie sfrattate dai borghi demoliti nel centro storico. Ce ne sono diverse tra Porta San Felice e Porta Lame, circa 500 alloggi separati da ampi spazi verdi che disegnano un “quadrilatero” identificato dalle vie Malvasia, dello Scalo, Pier de Crescenzi, Casarini. Qui, grazie a un bando per interventi di riqualificazione e rigenerazione urbana vinto dalla Regione Emilia-Romagna, nascerà un “Giardino della resilienza”, ovvero un grande giardino pubblico e didattico che reinterpreta in chiave contemporanea l’idea originaria di riproporre “condizioni di ruralità” nella città moderna, dotando cioè gli edifici residenziali, per le classi sociali più povere, di spazi aperti dove “prendere una diretta parte attiva alla coltivazione di una, seppur piccola, porzione di terreno” (cit. da “Il Comune di Bologna”, n. 5, Maggio 1937).
E qui il mix tra classi sociali diventa molto più evidente. Ne sanno qualcosa i ragazzi del TPO di via Casarini che da sempre si occupano di progetti di solidarietà per i soggetti più svantaggiati della zona: un doposcuola per ragazzi dai 10 ai 13 anni in rete coi servizi del quartiere Porto; corsi di italiano con migranti e richiedenti asilo; un percorso sullo sport che fa 200 tesserati alla Uisp e che da tre anni sviluppa progetti con lo stesso quartiere e i servizi sociali; corsi di teatro con i disabili, ecc.
Il TPO, ovviamente, non è solo questo. Definendolo con le parole di Flavia è “un modello di centro sociale evoluto”, nel quale convivono ancora due grandi anime: quella culturale e quella politica. Uno di quei posti dov’è facile sentirsi a proprio agio, sia per la cura degli ambienti, sia per l’offerta variegata che abbraccia musiche e party differenti.
Eppure anche da queste parti qualcosa di diverso inizia a muoversi. Oltre al già citato “Giardino della Resilienza”, questo quadrante della città è attualmente in fermento, un fermento che contiene opportunità, ma anche molti malumori.
Le opportunità riguardano DumBO, un grande progetto di riuso temporaneo destinato a cultura ed eventi, nato nell’ex scalo ferroviario del Ravone, spazio gigantesco proprio accanto al TPO che contiene diversi capannoni ed edifici utilizzati fino a non molti anni fa come uffici, magazzini e officine. Eppure i progetti futuri per l’area, inserita nel Piano Operativo Comunale – “Rigenerazione di Patrimoni Pubblici” – prevedono comunque interventi di edilizia residenziale (su 94.500 m²) e commerciale (su 40.500 m²) e un parco lineare che si allunga fino al Fiume Reno. A giudicare dalle carte, dopo la concessione potrebbe praticamente nascere un nuovo quartiere. Ma chissà: il riuso temporaneo potrebbe aprire anche altre strade.
I malumori riguardano invece i Prati di Caprara, un enorme bosco di 47 ettari a ridosso dell’Ospedale Maggiore e dello stesso DumBO. Negli ultimi anni, dopo decenni di inutilizzo, i Prati sono passati dall’Esercito al Demanio dello Stato ed è in via di definizione l’acquisizione da parte del Comune di Bologna. Sebbene l’idea di costruirci 1.300 unità abitative, una scuola, un parco ecc. il futuro dei Prati è ancora incerto.
Porto, insomma, non si ferma mai.