Quante volte siamo partiti DA ZERO?
Quante volte eravamo lì, abbiamo visto cambiare tutto ma ce ne siamo resi conto solo dopo, come se fosse successo per magia? Qual è il segreto?
Zero riparte dalla città, in un viaggio avanti e indietro sulla linea del tempo. Dagli ultimi 30 anni del passato, da cui sembriamo lontanissimi e da cui prendere il meglio. Dal presente in cui è impossibile andare avanti, è impossibile tornare indietro, in cui siamo immobili e soffriamo. Dal futuro che pretende immaginazione.
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“Non un centro sociale, neanche un centro culturale, nè tantomeno un centro giovanile o post-adolescenziale o pre-senile. Potremmo dire un piano quinquennale […] il tempo di una concessione (comunale, ndr) entro la quale verificare un’ipotesi difficoltosa: riuscire nel complesso gioco della convivenza dei diversi”. Questo era il Link Project nato l’11 aprile 1994 nei magazzini delle Farmacie Comunali di via Fioravanti, lì dove oggi sorge il “nuovo Comune” tutto vetri e avvenerismo. Evoluzione dell’INK (Isola nel Kantiere) – e precorrendo i tempi anche ‘legame e connessione’ – passata attraverso le solite scissioni nel dilemma dell’associazionismo, incrocio tra collettivi e gruppi informali dentro e fuori dal Dams, Link prese subito la forma di una “casa dei pazzi, senza un sopra e senza un sotto”, costruita tuttavia con un metodo scientifico di divisione dei ruoli che nessuno si sarebbe aspettato dai “pazzi” che fino a quel momento avevano operato nei territori “alternativi” della cultura. Con un senso di (multi)disciplina esemplare e con pochissime risorse in pochi anni il Link diventò il luogo della sperimentazione e della ricerca sul contemporaneo più importante in Italia, stabilendo sin da subito un programma bimestrale di attività, che veniva reso noto tramite un house-organ con grafiche all’avanguardia.
Tra lo stupore di chi arrivava per la musica o per i dj set molte serate iniziavano con il teatro
Una moltitudine di persone anche molto diverse tra loro in grado scambiare opinioni, collaborare, creare progetti, molti dei quali nella loro evoluzione, dopo quasi 30 anni, oggi caratterizzano la scena culturale bolognese (la scuola popolare Ivan Illich, il festival AngelicA, Xing, Modo Infoshop, Gender Bender, Opificio Ciclope e molto altro – tra cui una schiera di tecnici autodidatti che nell’ombra reggono oggi moltissima attività di Bologna).
C’era davvero un po’ di tutto: l’Ambient Dub Rave Party e il Cinema Nootropico Notturno, i seminari sull’improvvisazione della scuola Ivan Illich, i Motus, i Fanny & Alexander e i Kinkaleri, gli appuntamenti in tributo a John Cage, i primi esperimenti telematici con Horizontal Radio, gli omaggi a Guy Debord, le feste dedicata al ballo di coppia, il Treatrino Clandestino e la Societas Raffaello Sanzio, il cibo etnico, l’infoshop, Bochum Welt e Alex Patterson (The Orb), il festival di arte-visiva Incursioni curato da Luca Vitone, il teatro-danza della compagnia Virgilio Sieni, la Mutoid Waste Company, Angelica Festival e Terry Riley, il teatro da discoteca dei Teddy Bear Company e la Detroit techno di Kenny Larkin, Mad Professor, Andy Smith dei Portishead in dj set, gli Swan con i Panasonic (prima che la Panasonic li obbligò a cambiare nome), la Flava of the Year con una scarica di street music e breakers, la drum’n’bass del terrore con il Chrome Record Attack, Ciprì e Maresco, Amon Tobin, Afrika Bambaataa, Porter Ricks ovvero Thomas Koner, Adrian Sherwood, un’agenzia di promozione di musica elettronica (ProPop) e un giovanissimo Aphex Twin nel primo festival di “musica dance elettronica” in Italia, Distorsonie.
O le serate “classiche” come Notte Vidal, appuntamento che seguiva alla programmazione della redazione teatro. «Dopo lo spettacolo – ricorda Clinio Occhi – negli spazi seminterrati del Link al “Caffè des Ignorantes”, luogo tra l’osteria bolognese e il caffè parigino, si creava un momento musicale di aggregazione sottotitolato “Non solo djs” andando in controtendenza con scalata dei dj all’altare/palco, che un tempo fu delle rock band. In consolle si alternavano personaggi legati alla cultura con i loro archivi musicali personali che allietavano quell’improvvisato salotto: un parrucchiere, un professore di jazz, un musicista radicale, un giornalista pop ecc. Era la festa per antonomasia, la mescolanza tra i pubblici con interessi differenti, dal teatro alla notte leggera e passando per il cavalcare delle mode».
Quasi ogni giorno si susseguivano tre o quattro eventi che finanziavano le attività più deboli e sperimentali attraverso quelle più remunerative (bar e concerti). Tra lo stupore di chi arrivava per la musica o per i dj set molte serate iniziavano con il teatro. Era nella natura delle cose che sia i “nuovissimi” che le compagnie ben rodate lavorassero al Link in un modo diverso, cosa che negli altri spazi istituzionali in Italia non poteva ancora accadere.
Non si trattava tanto di ribellismo quanto di un modo di costruire un proprio codice d’esistenza in mezzo ad una società percepita come cumulo di macerie e menzogna
Poi, ovviamente, anche tanto clubbing: «In via Fioravanti 14 – spiega Mauro Boris Borrella – potemmo finalmente dare spazio senza vocalist, nani e ballerine ai nostri sound. Andrea Bendetti e Marco Passarani ci fecero da “buoni consiglieri” musicali, passandoci le uscite discografiche delle etichette da cui noi estrapolavamo dj e live act, dischi e live; etichette apparentemente diverse tra loro che avevano tutte lo stesso denominatore comune: la continua e repentina ricerca di linguaggi ritmici innovativi. Non si riusciva ad abituarsi a uno slang che già ne arrivava un altro. Le fonti a cui ci abbeveravamo erano molte e all’inizio eravamo noi stessi dei bravi rabdomanti, anche perché all’interno del Link avevamo creato un agenzia di distribuzione artistica, la “Link Propop”, che aveva l’obbiettivo di distribuire in giro per l’Italia quello che si proponeva a Bologna. Vi era l’illusione di creare un network di scambio che per un periodo funzionò anche con altri simil pionieri come La Pergola e il Tunnel di Milano, l’Interzona di Verona, il Circolo degli Artisti di Roma, dopo con Brancaleone e DNA, Orbeat di Napoli, i Mercati Generali di Catania e pochi altri».
Tutte proposte svincolate da ogni tipo di calcolo e legate solo dalla voglia di produrre un modello di connessione che nessun altro sarebbe poi riuscito mai più a realizzare. «C’era una forte tensione a fare delle cose – racconta Daniele Gasparinetti – un insieme di bisogni che erano stilistico/esistenziali e non saprei come altro definirli. Una mescolanza tra stile di vita, modi di vestire o di mal vestire, di atteggiarsi, di ascoltare e fare musica, di accettare o rigettare le regole o di pensare la politica e il rifiuto della politica tradizionalmente intesa. Non si trattava tanto di ribellismo quanto di un modo di costruire un proprio codice d’esistenza in mezzo ad una società percepita come cumulo di macerie e menzogna. […] Un grande accampamento di barbari, posto alle porte di una città. Tutti erano bene accolti, venissero da lontano o dall’interno delle mura: nessuno gli chiedeva le generalità.»