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Incursioni artistiche (e non solo) al Link Project: intervista a Luca Vitone

Written by Emanuele Zagor Treppiedi il 9 April 2024

LUCA VITONE wears LOUIS VITONE for ™®√€. photo by Floriana Giacinti

In occasione dei 30 anni del Link Project, ripubblichiamo alcuni approfondimenti usciti su Notte Italiana, progetto di ZERO realizzato in occasione della 14esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia nel 2014 che ha ripercorso la storia del clubbing italiano e raccontato com’è cambiato il mondo della notte.

Nonostante fosse un collaboratore esterno, l’artista e grande amico di Daniele Gasparinetti, Luca Vitone ha contribuito appassionatamente allo sviluppo del Link dal punto di vista dell’arte visiva. Organizzava il festival Incursioni, ma se c’erano da fare le 6 del mattino ballando nelle sale del Link, non si tirava indietro e conosceva tutti. In questa intervista ci ha detto che il Link a metà anni 90 era il posto più hype d’Italia, ci trovavi dai Mouse On Mars alle riprese delle puntate di “Un posto al sole”.

EMANUELE ZAGOR TREPPIEDI: COME HAI INIZIATO A COLLABORARE CON IL LINK PROJECT?

LUCA VITONE: Io e Daniele (Gasparinetti – n.d.r.) ci siamo conosciuti sui banchi del Dams e siamo diventati subito amici. Daniele mi aveva coinvolto per quello che riguardava l’aspetto delle arti visive e mi aveva fatto molto piacere perché così potevo tornare a Bologna, che per me era un po’ come tornare a casa. Oltre a incontrare Daniele e Silvia (Fanti – n.d.r.) la collaborazione con il Link mi permetteva di incontrare anche altre persone a cui ero molto legato.

Ma facciamo una genealogia di come io sono arrivato al Link. Io e Daniele ci siamo conosciuti nell’85 al primo giorno di Dams, uno accanto all’altro, vicini di banco. Poi successivamente io ho iniziato a fare le mie mostre e le mie opere, senza finire scioccamente l’università. Così ho lasciato Bologna e mi sono trasferito a Milano nell’autunno del 90. Dopotutto Bologna non è una città che offre molte occasioni per l’arte contemporanea, c’è Arte Fiera a gennaio e la Galleria Neon, dove ho esposto anche io nel 90, ma non c’è molto altro. Quindi non avevo molte occasioni per tornare a Bologna e Daniele lo vedevo molto raramente.

Io ormai lavoravo come artista, il lavoro si era avviato ed ero abbastanza contento (con tutte le frustrazioni di un artista perché alla fine non va mai come uno vorrebbe) e comunque non avevo voglia di ritrasferirmi da Milano (dove stavo con la mia fidanzata Emi Fontana) a Bologna. Così con l’incarico datomi da Daniele, io facevo da redattore esterno per il Link, anche perché nessuno si occupava di arte visiva.

Quando Daniele mi ha invitato e ho capito che luogo stava nascendo e stavano creando, avevo anche capito che se io volevo lavorare con le arti visive (che canonicamente usano un dispositivo temporale di mesi in cui viene esposta una mostra in uno spazio espositivo) non dovevo usare gli stessi meccanismi e tempistiche, ma dovevo fare delle cose più simili a quello che succedeva solitamente al Link, quindi cose di una sera. Così decisi di collaborare.

Si è partiti quindi con l’idea di fare un festival, quindi un festival performativo, con interventi che potevano durare da 5 minuti a 5 ore. Il periodo dell’anno migliore per farlo era durante la fiera dell’arte contemporanea, anche perché finita la fiera i curiosi potevano venire a vedere qualcosa di diverso di sera da noi. Tutto per fare in modo anche che si portasse al Link a un pubblico diverso o semplicemente più ampio.

Si apriva alle 22 e si poteva stare da noi assistendo a un altro tipo di programmazione. E questa è stata un’idea che ha funzionato, tant’è che gente ne passava.

Ricordo i racconti di quelle persone che erano venute a tutte le edizioni di Incursioni vantandosi di essersi fatti tutte le serate.

C’era un anziano collezionista che si chiamava Paolo Consolandi: milanese, notaio, influente e facoltoso che aveva iniziato a comprare negli anni in cui Manzoni era ancora giovane e Fontana era ancora vivo e ha continuato a comprare fin quando non è morto nel 2010. Lui era anche un amico (che ha anche comprato delle mie opere) per cui c’era una certa stima reciproca e tutte le sere di Incursioni, nonostante fosse un quasi ottantenne, c’era. Era conosciuto anche da Vittorio il ragazzo che stava sempre all’ingresso del Link.

Quindi Incursioni prese sempre più piede e divenne un appuntamento fisso: finita la fiera si veniva a passare la notte al Link per vedere dell’arte diversa.

QUAL ERA L’ESIGENZA CHE VI HA SPINTO A ORGANIZZARE INCURSIONI?

L.V.: In poche parole c’era il bisogno di raccontare degli accadimenti artistici a cui nessun altro stava dando visibilità. Quindi c’era prima di tutto l’esigenza di fare qualcosa che riguardasse l’arte in maniera diversa da un museo. Chiunque chiamavi doveva riadattare il suo lavoro in forma performativa, che poteva andare dalla conferenza allo slide show passando per i video. Poi se diventavano operazioni teatrali o musicali era ancora meglio. Dai concerti all’asta, alla conferenza, il gioco era di farlo coinvolgendo tutto lo spazio, dall’esterno ai servizi interni.

ECONOMICAMENTE COME PERMETTEVATE AL FESTIVAL DI SOSTENERSI?

L.V.: Soldi non ce n’erano e se non sbaglio nelle quattro edizioni di Incursioni non abbiamo mai pagato nessuno. Nel senso che non potevamo dare un cachet, ma abbiamo sempre pensato a trasporti e ai costi relativi alla produzione della performance. L’artista era ospitato in casa di qualcuno, gli veniva pagata la cena e lo si metteva a proprio agio per fare nel migliore dei modi la performance. Poi io avevo dei free drink che distribuivo agli artisti e ad altre persone che potevano essere curatori, altri artisti, critici, giornalisti. Tieni conto che le due grandi fonti di finanziamento del Link erano i concerti e il bar, i 4 bar e vista quantità di persone che il posto muoveva nel ’96, ci si poteva permettere di organizzare un festival.

Io per Incursioni ho lavorato sempre gratis, ho avuto il mio piccolo stipendio solo con Hops! nel 2000 e nel 2001. C’erano i rimborsi spese che, tra tempo investito, viaggi, telefonate, erano sempre pochi. Quello che ti muoveva era la passione e la voglia di stare al Link e, nel mio caso, quello che in quell’occasione stavo creando e vivendo.
È stato un luogo che mi ha permesso di sfogarmi anche di notte, dato che io non ero e non sono un particolare animale notturno: facevo le chiusure all’alba e bighellonavo tra una sala e l’altra, conoscevo tutti.

C’era il bisogno di raccontare degli accadimenti artistici a cui nessun altro stava dando visibilità. Quindi c’era prima di tutto l’esigenza di fare qualcosa che riguardasse l’arte in maniera diversa da un museo.

CHI VENIVA AL LINK?

L.V.:Man mano che tutto si consolidava hanno iniziato a venirci tutti, di ogni credo e di ogni estrazione. Tra il ‘97 e ‘99 il Link era il posto più hype d’italia, tu avevi tutto: dalla cosa pop di livello e di qualità, non ovviamente lo standard di mercato, alla cosa di ipernicchia per dieci persone.

COME INVITAVATE GLI ARTISTI DI INCURSIONI? SU COSA VERTEVA LA SCELTA?

L.V.: La peculiarità del Link era quella di lavorare sulla produzione delle ultime generazioni: la mia generazione, quindi gli artisti che hanno iniziato a lavorare verso la fine degli anni 80 e i giovani che stavano appena iniziando. Io ho cominciato invitando le persone che per me sembravano interessanti e abbiamo lavorato solo con queste due generazioni. Pensavo sempre a quali potessero essere degli autori in cui intravedevo un lavoro versatile e adatto a questo tipo di programmazione e di spazio.

Con Incursioni l’artista più anziano forse è stato Cesare Pietroiusti (che è del ‘55) per poi arrivare a quelli dell’ultima ora che avevano appena iniziato a girare per qualche galleria, tipo Patrick Tuttofuoco. Poi come per tutto c’è gente che sparisce e gente che continua. Come Mario Airò, Cesare Viel, Monica Bonvicini di cui leggi ancora. O altri di cui non senti più parlare, questo fa parte della selezione, del tempo che passa. Poi essendo un artista anche io li conoscevo tutti, chi più e chi meno, e loro si fidavano: era tutta gente che aveva voglia di fare.

Avevo invitato anche Cattelan: ormai era già quasi famoso e disse: “Io vengo e quello che faccio è chiudere il Link” e io: “Va be’”. Gli dissi che non era possibile e quindi non se ne fece niente. Che poi magari voleva chiuderlo per una sera ma voleva dire non fare entrare una paio di migliaia di persone e purtroppo non potevamo permettercelo. Forse in questo caso avrei dovuto osare di più e non son stato molto bravo a contrattare, avrei dovuto dire a Cattelan: “Va bene però tu mi copri il possibile introito che io perdo tenendo chiuso il Link in modo che così non ci perdiamo dei soldi”. Ma così non feci.

Quasi tutti gli invitati però sono sempre venuti, tutti avevano voglia di partecipare. Anche perché poi il Link era diventato uno spazio ambito. Se uno guardava al teatro di ricerca tutte le compagnie erano venute, quindi se ne chiamavi un’altra un po’ meno famosa quasi in automatico accettava, dai Raffello Sanzio in poi sono passati tutti.

Oltre a Incursioni ci si era inventati anche altri modi di invitare artisti visivi, ad esempio per la Kill Out zone (Chill out) del venerdì e del sabato sera, che comunque anche se era aperta solo due giorni era comunque una spesa, avevamo chiamato Nicola Pellegrini e Stefano Dugnani che avevano pensato a delle installazioni per rilassarsi.

Poi Flavio Favelli ha fatto il bar che sembrava un ufficio postale, geniale ma non utilissimo per la vendita. Aveva fatto dei vetri fumè con un’apertura piccolina sotto, come quella delle poste. Il barista vedeva la sala, che era già mezza buia perché era la dance hall giù di sotto, ma la gente non vedeva il barista quindi sembrava che non ci fosse nessuno al bancone e il bar vendeva meno. All’inizio dovevi fare addirittura la comanda su un blocknotes con penna con la catenina, la passavi sotto l’apertura e poi ti arrivava poi l’ordinazione.

Per dare continuità a quello che facevo mi ero inventato magari qualche evento collegato al festival ma poca roba, anche perché non vivevo a Bologna. Ricordo la proiezione della Spriral Jetty in pellicola, un incontro con Emilio Primi, il cinema di Marcel Broodthaers.

Avevo invitato anche Cattelan: ormai era già quasi famoso e disse: “Io vengo e quello che faccio è chiudere il Link” e io: “Va be’”. Gli dissi che non era possibile e quindi non se ne fece niente.

Ecco questo fu in aneddoto divertente e che ti fa capire lo spirito con cui operavamo. Tramite un amico gallerista di Colonia avevo recuperato il contatto della vedova Broodthaers, così, visto che ero già a Colonia, sono andato a bruxelles a trovarala, ovviamente a spese mie, cercando di spiegarle quanto fosse importante per il pubblico giovane italiano vedere il cinema di Broodthaers e che il Link era il luogo adatto, esemplare, moderno, utile, per proiettarlo. Le dissi anche che però non avevamo un soldo. La vedova ci doveva mandare qualcuno con le bobbine, noi gli pagavamo il viaggio a/r, l’ospitalità e le cene ma di più non potevamo permetterci. Dopo questo primo tentativo non se ne vece nulla. Poi dopo diverse corrispondenze io ci riprovai e si convinse. Forse perché mi ha visto particolarmente motivato ma così per due sere abbiamo avuto 4 ore di fila di cinema di Broodthaers. Oltre a Broodthaers abbiamo fatto serate dedicate anche ad altri artisti: Robert Smithson, Emilio Prini, quelli che per me erano dei classici perché erano degli anni 60 e 70 e per me erano importanti.

La programmazione era tutto un po’ un gioco, ma poi tutte queste persone capivano cosa e dove la stavano facendo. Che poi un giovane magari non se ne rende conto ma uno che lavora sa che questi luoghi funzionano solo sulla determinazione della gente che ci sta dietro e io, ma soprattutto Daniele, eravamo molto determinati.

Quindi le programmazioni anche fuori da Incursioni erano molteplici e divertenti. Ad esempio a me e a Daniele piaceva molto l’India. Un giorno a New Dehli trovai tutte le video cassette, 40/50, di tutto il Ramayana televisivo, una roba iper-pop indiana. Daniele aveva pensato di metterla in programmazione.

Tieni conto che i video erano di una qualità scadente: camere fisse, lentissimi, un immagine con due figure che recitavano in indu, toccando temi filosofici, quindi la gente non è che capisse molto. Questo succedeva nello Schwarzraum durante il cinema notturno notropico e c’era sempre qualcuno che stava lì, un po’ perché si addormentava o un po’ perché era fuso ma curioso.

Oppure ricordo che abbiamo fatto una giornata con John Waters che era a Milano ed esponeva da Emi Fontana. L’abbiamo convinto e ha fatto la sua conferenza al Link davanti a un centinaio di persone

Poi quando Mike Kelly era ospite a Milano sarebbe stato bello fare il concerto della sua band, ma non avevamo tutti i soldi che servivano per farlo. Oppure ci sarebbe piaciuto portare ospiti statunitensi, il problema è che a certi professionisti devi dare un cachet che noi però non potevamo dare. Molti venivano soprattutto per amicizia soprattutto nel caso di Incursioni.
Tutto questo avveniva anche per quanto riguarda la musica. Tipo io mi ricordo, John Zorne, che suonò due sere ma facendosene pagare una sola. Aveva capito come funzionava il luogo e aveva deciso di regalarci una serata. Anche grazie a Enrico Croci o a Mauro Borrella, gli Orb erano venuti con un set dj più agile e quasi in amicizia. Il venerdì e il sabato c’erano 4 programmazioni diverse che andavano in contemporanea: dal libro alle 8 al dj set delle 4 di notte.

Luca Vitone – disegno 123 Link

TUTTO QUESTO ACCADEVA IN UN’ERA PRE-INTERNET, QUINDI VENIVA FATTO TUTTO VIA TELEFONO, LETTERE, FAX. INTRODUCO INTERNET PERCHÉ SECONDO DANIELE GASPARINETTI È STATO UN PO’ ANCHE PER COLPA DELLA CONNESSIONE CHE SI È DISGREGATA L’UNIONE CHE C’ERA AL LINK, CONDIVIDI?

L.V.: Sì forse può essere vero, non c’ho mai pensato. Io credo che la cosa principale sia stata la mancanza di un supporto economico. Credo che le velleità di varie persone (poi sai non è facile lavorare sempre senza una lira) e successivamente anche la stanchezza abbiano influito nello sfaldarsi di tutte le aree. Poi io non sono mai entrato più nel dettaglio dell’amministrazione.

Il fattore economico annebbia la vista sia quando arrivano troppi soldi, che non sai gestire, sia quando non ne hai e cerchi di arraffare senza rispetto magari del vicino. Io credo che questo sia stato uno dei fattori determinanti dello sgretolamento del Link, poi può anche essere vero che internet sia stato un po’ un altro elemento.

Comunque sì tutto il coinvolgimento esterno degli artisti avveniva via telefono e se avevi il fax eri già fortunato. Io nel ’96 e ’97 non avevo neanche un computer, per l’edizione del ’97 di Incursioni ero a Berlino per una borsa di studio e ho lavorato con Daniele via telefono e via fax per preparare il festival. Eravamo alla fine degli anni 90.

LE ISTITUZIONI, GLI ALTRI CENTRI SOCIALI E BOLOGNA COME VI VEDEVANO?

L.V.: Putroppo le istituzioni non hanno guardato molto al Link se non per l’interesse del loro bacino elettorale. Per cui il Link continuava a rimanere aperto perché era davvero molto frequentato. Poi era usato anche come una forma di controllo sociale per cui tutti gli sbagascioni notturni che ad un certo punto finivano al Link, si potevano controllare e recintare. Biecamente anche il mercato del fumo sapevi dov’era, sapevi anche che era regolamentato e che non c’era spaccio di droghe pesanti. Erano delle caratteristiche di questi luoghi. Capitavano, ma come succedono ovunque, furti e persone che perdevano borse o portafogli, ma in 6 anni di attività forsennata e disparata non è successo mai niente di grave e di persone ne passavano a migliaia dell’ubriacone, all’intellettuale a chi si piazzava al Link per dormire.

Comunque tolta la caratteristica di controllo sociale non c’era un vero interesse, per cui nessuna istituzione ha mai detto “wow che programmazione interessante” e ci ha dato una mano, niente, neanche cercando di portarselo a casa, di farlo proprio, di colonizzarlo. Niente.

Neanche collaborando con Arte Firea, si è mosso nulla, volevano solo i biglietti in omaggio. Saggi detentori del potere che ti fanno un favore che poi però vogliono tutto gratis senza capire il modo con cui noi facevamo le cose. Loro affittavano a X mila lire gli stand però volevano da noi grosse quantità di biglietti gratis e non volevano neanche pagarli a un prezzo ridotto.

Dalla parte degli altri centri sociali, considera sempre che il Link non era un centro sociale come gli altri, c’erano degli atteggiamenti molto dogmatici per cui, chi era più ortodosso dal punto di vista politico ci vedeva con sufficienza mentre gli altri cercavano di imitarci.

Ad esempio anche il Leoncavallo provava a fare cose interessanti ma con nomi già affermati andavano a cercare Michelangelo Pistoletto, Pier Paolo Calzolari, Giovanni Anselmo nomi che intanto non c’entravano niente con quell’ambiente e manco con la ricerca degli ultimi dieci anni. Un po’ come quando facevano il teatro e invitavano gente come Paolo Rossi e Dario Fo. Ok i compagni, però come programmazione il Leo non riusciva mai a fare un passo un po’ più oltre. All’epoca bisognava guardare a cose come il Teatrino Clandestino, i Motus o chi faceva una ricerca vera. Anche quando facevano le musiche, non so se uno come Arto Linsday, che era un po’ quello più conosciuto, abbia mai suonato al Leo, mentre invece al Link queste cose qua succedevano.
Anche nel classico centro sociale c’era un mainstream, che alla fine verteva su una politica pop. Non c’era musica di ricerca o se c’era era l’hip hop dei compagni ma era la cosa più “commerciale” che ci fosse sul mercato… Frankie Hi nrg ma non Mika Vainio o Scanner…

Il fattore economico annebbia la vista sia quando arrivano troppi soldi, che non sai gestire, sia quando non ne hai e cerchi di arraffare senza rispetto magari del vicino. Io credo che questo sia stato uno dei fattori determinanti dello sgretolamento del Link.

Alla fine a livello culturale, secondo me, ma poi magari sono uno snob, la programmazione degli altri centri sociali era un po’ bassa, mentre al Link questa cosa qua non c’era, si faceva di tutto, magari sempre grazie a delle amicizie, però era sempre tutto fondato su una certa ricerca. Da noi c’erano Panasonic o i Massive Attack che nella grande risonanza del loro nome cercavano comunque di fare produrre una musica diversa.

Per cui il centro sociale classico, tolto il peso politico e locale di stampo un po’ ortodosso, nell’ambito culturale era un po’ basso.
Anche il Conchetta, che era il posto che a Milano ho frequentato un po’ di più, non aveva quell’immaginario folle e di rischio che avevamo al Link.
Russ Meyer, Mario e Lamberto Bava erano tutte cose che noi facevamo ma altri centri sociali no, erano tutte cose che beccavi da noi o su Raitre di notte con Enrico Ghezzi, che tra l’altro veniva al Link e Nanni Balestrini che da noi ha girato anche un programma di poesia nel 97 chiamato “L’ombelico del mondo” dove il Link diventava uno studio televisivo.

Anche quelli di “Un posto al sole” hanno girato al link alcune puntate.
Per quello ribadisco della miopia dell’istituzioni, perché loro avevano una cosa che a costo zero potevano rivendersi come la grande avanguardia e, se gli avessero dato l’opportunità di avere dei servizi fatti bene, potevano rivendersela come qualcosa di assolutamente speciale.

Dal punto di vista artistico poi non c’era nulla di simile. Tant’è che verso il finire della metà degli anni 90 anche gli altri spazi dell’arte hanno iniziato a mettere il dj set all’inaugurazione del museo, della mostra, cose che noi già avevamo, però noi avevamo i dj migliori d’Europa insieme agli artisti delle altre sale e insieme al teatro delle ultime generazioni come Jérôme Bel.

Cercavamo di capire quali erano le nuove estetiche che producevano qualcosa e non c’era un altro luogo simile in Italia. La cosa peculiare del Link è che avevi musica, letteratura, teatro, cinema in un palinsesto che si incastrava l’uno dell’altro.

Venendo a Bologna: la città rispondeva bene, ma se fosse stata veramente entusiasta non avrebbe permesso che chiudesse… Io non vorrei dire stupidaggini però finanziamenti pubblici il Link non ne ha mai avuti se non qualcosa dalla Regione per il teatro (quindi la capacità di Silvia era molto importante in questo caso) altrimenti l’unico finanziamento è stato quello dedicato alla rampa ai disabili, ed erano arrivati circa 7 milioni (di lire – n.d.r.), con cui oltre alla rampa non è che si potesse fare molto altro.

Poi come tante cose, quando non ci sono i soldi necessari non si riesce a portare avanti tutto. C’erano certe redazioni, che rappresentavano le varie aree in cui era suddivisa la programmazione del Link, che lavoravano e che riuscivano di più altre, quindi ovviamente e umanamente dopo un po’, come ti dicevo prima, ci si sfalda. Il grosso problema italiano è il solito: ovvero che non essendoci dei finanziamenti pubblici seri, fatti bene, non si riesce più a far vivere uno spazio. Perché con uno spazio così in qualsiasi altro paese, diciamo occidentale, ricco e avveduto, si trova il sistema per tirare su dei soldi pubblici per farlo funzionare e per dare una sicurezza almeno.

IL LAVORO DI QUESTE REDAZIONI CONFLUIVA, OLTRE CHE NEGLI EVENTI ANCHE NEL LAVORO CHE POI VENIVA PUBBLICATO SULLA RIVISTA, CI PARLI DELLA RIVISTA?

L.V.: Anche la grafica è stato un momento importante perché Daniele, oltre a tutto il resto, è anche un bravo grafico e aveva pensato un po’ alla grafica del Link. Daniele ha inventato la grafica del Link, con Graziano Loew Associati ha fatto in modo che tutto partisse e poi ha lasciato che tutto funzionasse. Anche l’immagine del Link era diversa: era di ricerca, le grafiche delle riviste erano sempre diverse, c’era sempre la voglia di sperimentare, di cambiare. Nessun museo poteva permetterselo perché dovevano essere riconoscibili e nessun altro centro sociale aveva dato l’importanza alla grafica come l’avevamo fatto noi.

In tutto da Incursioni, alla grafica della rivista, passando per il rapporto con le istituzioni c’era la capacità antiautoritaria (ma comunque da capo) di Daniele che è riuscito a convogliare le energie di diverse persone per creare questo luogo.

Nell’articolo che io ho scritto per Rolling Stone, alla fine io ho citato tutti, anche Daniele, ma mi dissero che non erano persone importanti e che non le conosceva nessuno, quindi mi tagliarono il finale.
Praticamente l’immagine che mi ricordavo e che io volevo evocare era quella del vecchio ufficio del Link (prima di quella degli ultimi, quando anni iniziarono a lavorarci circa 80 persone). Una stanzetta affollatissima di gente, carte, c’era la cassa ed era tutta disegnata da graffiti inutili e idioti e sulla porta qualcuno aveva scritto, non so chi, “Daniele è Dio” , lui l’ha sempre tenuta nascosta questa cosa. E io l’avevo scritto nell’articolo:

“C’era chi curava gli eventi musicali come Renato che si muoveva con alterigia, tra le stanze con al sua inseparabile cintura, con fibbia gigantesca “DJR” , che firmava il suo status di vecchio, del Link… Belin, irascibile, generoso, vulcanico. Enrico che sotto il sorriso sornione calzava scarpe oversize e deambulava molleggiato tra una consolle e l’altra; chi pensava a risolvere i problemi tecnici come Paolo che con occhio luminoso risolveva ogni luce; o Davide a cui era sottoposta ogni messa in scena; chi lanciava omelie dal palco come il Reverendo Alan o chi come Dr. Spach prevedeva ascese e discese dei titoli in borsa. E c’era Silvia che con la sua determinazione amorevolmente odiosa imponeva i tempi utili all’ufficio stampa e c’era Lissao dalla timidezza arguta che dalla sua alta conoscenza dello scibile proponeva nomi come collaboratore esterno e c’erano Lino, Dante, Nino, Agapito, Nelsy e tanti altri che qui non riesco a ricordare. Ma sopra tutti c’era Daniele, di cui non vorrei dire nulla ma solo ricordare che nel vecchio ufficio, il primo, quello all’entrata di fronte al bar, c’era un muro pieno di scritte: firme, messaggi d’amore, stronzate, cattiverie, numeri telefonici. Era la parete della porta d’entrata e sullo stipite qualcuno aveva scritto “Daniele è Dio”. Nel ’99 ho fatto un lavoro con questi 143 nomi, segnalando per ognuno il tempo della propria vita dedicata al Link. Il suo titolo “143 (I love you) Link”. E questo è tutto.”