Ad could not be loaded.

Nel groviglio di Via Petroni, i piatti persiani di Parsit ti riportano in case lontane e vicine

quartiere Zona Universitaria

Written by Francesco Pattacini il 3 April 2023

Francesco Pattacini

Ha i propri fari, Via Petroni. L’insegna di Aziz Drinks sempre accesa, i take-away appannati, il richiamo buio dei bar che cambiano e di quelli che, indomiti, rimangono. È l’intreccio, è il passaggio, oscillante fra due piazze fatte per guardarsi eternamente. Da un estremo piazza Verdi e l’università, il suo mood dondolante e popolano, gli struggimenti studenteschi attorno ai panini gommosi degli alimentari e la ricerca della stratificazione perfetta sotto i 3 euro. Dall’altro le ultime botteghe, i comitati, la vocazione gourmet che confluiscono nelle illusioni del post-chioscanesimo di piazza Aldrovandi.

Parsit si ritrova al centro di questo groviglio e non solo per una questione geografica ma, principalmente, per la capacità di raccogliere nelle sue delicatezze persiane l’aspetto popolare, con piatti economici e cura famigliare, e quello gustativo, con il richiamo a sapori freschi che non sono sempre garantiti lungo questi portici. Più che un faro, Parsit, è un porto che ti accoglie con un profumo di spezie e di benvenuto.

«C’è un detto persiano che dice che la propria natura deriva dal sangue di chi lo possiede e, quando questo non è in accordo con il luogo o le cose circostanti, è necessario cambiare». Quello che mi racconta Vahid, non appena il via vai del pranzo si spegne, è un motto che può descrivere anche la sua storia personale Partito a 19 anni da Gorgan, nel nordest dell’Iran, attraversa Bologna, la Lombardia, gli Stati Uniti, nuovamente l’Iran per, poi, ritornare in Emilia. Anche Parsit nasce per una necessità – la crisi del 2012 – e, in poco più di dieci anni, si trasforma. Da panineria/kebab diventa una piccola gastronomia che offre i piatti tradizionali della cucina persiana preparati da lui e Goli ogni giorno, nel piccolo cucinotto a vista sul fondo del locale.

Vahid e Goli. Foto di Francesco Pattacini

«Quando avevo aperto c’erano il kebab, i falafel, i panini, la porchetta. Poi a un certo punto alcuni studenti e studentesse iraniane hanno iniziato a chiedermi di cucinare per loro i piatti del nostro paese e così ho cominciato a prepararli di nuovo». È circa a metà 2015, quindi, che dentro Parsit cominciano a comparire alcuni dei suoi piatti caratteristici: i Cucù, le piccole crocchette a base vegetale leggermente speziate; le polpette Persiane, pressate in maniera longitudinale con manzo, paprika e curcuma; il Zereshkpolò, un piatto unico che deve il suo nome agli ingredienti che lo compongono: pollo, riso basmati e Zereshk, un arbusto iraniano che con la sua leggera acidità completa il piatto. Nelle ricette, per gusto e per la reperibilità delle materie prime, Vahid e Goli reinterpretano e modificano, pur tenendo sempre ben saldo il punto di partenza che, dalla tradizione persiana, si dirige verso il buon mangiare: «Ho sempre pensato che per cucinare e offrire qualcosa di buono agli altri questo dovesse, per prima cosa, piacere a me. Quindi, certo, c’è la tradizione che prevede l’uso di poche spezie e gli ingredienti freschi, ma le ricette persiane le ho arricchite con ciò che trovo buono a partire dal mio gusto».

Il giorno in cui incontro Vahid e Goli è un giorno speciale. È il giorno del Fesenjān, o Fesenjun, il khoresh della festa, preparato poche volte al mese. Si tratta di uno stufato con una preparazione lunghissima, quattro/cinque ore necessarie perché i due ingredienti principali si bilancino insieme, combinando l’untuosità delle noci al gusto agrodolce del doppio concentrato di melagrana che arriva direttamente dall’Iran: «Goli è appena tornata, e me ne ha portato una buona scorta» – dice portandomi un assaggio – «vorrà dire che lo farò più spesso».

Il risultato è un piatto da pentola pieno di calore, a cui Vahid sostituisce il pollo tradizionale con delle piccolissime polpette di manzo speziato. La loro versione, sempre piccolissima e morbida, ma a base di pollo, compongono il sempre disponibile Pollopolò che, nella variante vegetariana (Eshkené) si rimodula su melanzane e patate. Questi sono solo alcuni dei compagni di cene con cui questa gastronomia cerca di accogliere tutti e tutte. Come Alì, ad esempio, che arriva proprio per il Fesenjān, e si ferma a conversare con Vahid sulle varianti di questo piatto nella sua famiglia.

Polpette persiane. Foto di Francesco Pattacini

Chiedo a Vahid, dopo che Alì è uscito, se tutto questo non sia anche un modo per mantenere vivi dei legami: «A Bologna ci sono pochi iraniani ormai ma, alcuni, quando possono permetterselo, passano ancora qui una volta al mese. La mia cucina vuole essere sempre fresca e, per sua natura, è adatta a tutti, ai vegetariani, ai vegani, ed è tendenzialmente senza glutine perché è il riso a essere uno degli ingredienti principali», continua, mentre mi mostra l’attestato dell’associazione Gluto che ha inserito Parsit fra i migliori luoghi gluten-free della città. «Un giorno ho ricevuto questa lettera ma io non ne sapevo nulla. Qui, come possiamo, cerchiamo di far sentire tutti accolti».

È la cura, la mano delicata con cui si misurano le spezie o con cui Goli, quotidianamente, prepara i falafel della casa a rendere Parsit uno dei porti, appunto, di questa Pico Boulevard bolognese, quella via che ha trasformato la scrittura di Jonathan Gold e la stessa Los Angeles, facendola accorgere che oltre alle colline luccicanti di Hollywood ci fosse un percorso intero di piccoli mondi e botteghe sulla sua arteria principale. Una sorta di magia, che mi piace immaginare ricorrere nel panino pastrami – nella variante ispirata proprio dal Johnnie’s di L.A. – e negli altri piatti cucinati da Vahid e Goli.

Qualche giorno più tardi, ho raggiunto Vahid e Goli per preparare insieme il Fesenjān. Il racconto di questa giornata fra pentole, ore di preparazione, noci e melagrane (oltre alla ricetta, gli ingredienti e i passaggi per crearla), lo puoi leggere su Grūmi (https://grumi.substack.com/), la mia newsletter di cibo e piccole storie.

Fesenjān. Foto di Ginevra Romagnoli