Abbozzare delle idee di futuro in questi giorni è molto complicato. Non sappiamo innanzitutto quando questa storia finirà e più questo periodo si allunga più gli effetti sul sistema economico e sociale del Paese diventano imprevedibili. Ma come forse mai nella storia recente il futuro è tornato a essere il centro della discussione, slegato non solo da un passato che oggi ci fornisce purtroppo pochi strumenti di analisi, ma necessariamente anche da un presente che sta dimostrando tutti i suoi limiti. Fantasticare sul futuro non è, quindi, solo un esercizio di immaginazione per evadere dall’isolamento al quale siamo costretti, ma un’occasione importantissima che non possiamo accontentarci di delegare a chi ha sempre sostenuto la rimozione delle alternative.
Senza avere alcuna certezza, vorremmo quindi fare qualche ipotesi (anche bizzarra) e avanzare un po’ di domande sul futuro della Città, partendo da tre presupposti: 1) non sarà l’ultima pandemia (lo dicono gli scienziati); 2) le città, da sempre considerate epicentro di capitali e forze creative, modello aggregativo per eccellenza, saranno obbligate a cambiare se vogliono sopravvivere alla furia isolatrice dei virus e al riscaldamento globale; 3) prima o poi torneremo comunque a stare vicini, su questo non dovremmo avere dubbi.
Turismo e questione abitativa
Come dimostra la storia, nessuna città è passata indenne dalla epidemie. Bologna stessa, che sin dal 1200 aveva basato le proprie fortune commerciali su un utilizzo virtuoso dei propri canali, a causa dell’epidemia di colera veicolata principalmente dall’acqua alla fine dell’800, dovette affrontare una rivoluzione urbanistica che cancellò la vecchia e nota “città delle acque” interrando, com’è noto, i propri canali.
Guardando alla nostra città attuale, invece, che da circa un decennio ha improntato il proprio modello di sviluppo sull’aumento dei flussi turistici, appare inevitabile una riconfigurazione radicale degli obiettivi in un futuro in cui il turismo potrebbe non ritornare mai più alla cosiddetta “normalità”. Turismo che, come dicevamo qui, fino a ieri intersecava la questione abitativa modificando attraverso le piattaforme come Airbnb l’offerta locativa e facendo lievitare i prezzi. Potremmo assistere a due scenari: nella peggiore delle ipotesi molti proprietari saranno costretti a svendere le proprie case in un mercato che sarà accaparrato da grandi compratori stranieri, come in tutti i paesi impoveriti; nella migliore ci sarà, invece, un ritorno delle locazioni medio-lunghe e un abbassamento dei canoni a fronte probabilmente di uno spostamento degli interessi turistici verso ambienti più isolati o “di campagna”. Ma questo non basterebbe comunque a risolvere la crisi abitativa delle città già in atto prima della pandemia.
Potremo più accettare la presenza di edifici vuoti e l’uso della forza per impedire le occupazioni?
«Oggi abbiamo la dimostrazione – sostiene Fabio D’Alfoso, membro del comitato Pensare Urbano – che investire in un settore come il turismo, troppo suscettibile alle crisi, è una scelta strategica sbagliata. Basti guardare a quanti lavoratori o anche host di reddito medio-basso si sono ritrovati da un giorno all’altro senza alcun’entrata. È una crisi nella crisi che rende ancora più necessaria l’istituzione di un fondo nazionale per l’affitto. Ci voleva un’emergenza per capirlo, ma il tema è stato finalmente preso in considerazione e fa già parte di un ordine del giorno votato da tutte le forze politiche che verrà affrontato prossimamente. Tutto questo, sommato al blocco degli sfratti, ci rende fiduciosi. Dopo di che avremo bisogno di ragionare in termini di lungo periodo e riportare sul tavolo il tema dell’edilizia pubblica, che sarà la vera sfida per il futuro».
La stessa casa, per anni porzionata in spazi sempre più ridotti, sminuita al ruolo di dormitorio, è tornata ad essere l’elemento centrale delle nostre vite, dimostrando spesso tutta la sua inadeguatezza nello svolgere quella funzione di luogo in cui si modella l’esistenza. Potremo ancora tollerare di farci spennare per una stanza che cade a pezzi? Una domanda che pare addirittura pretenziosa se confrontata con la situazione di chi la casa non ce l’ha proprio. Davanti al monito #restateacasa, potremo più accettare la presenza di edifici vuoti e l’uso della forza per impedire le occupazioni?
Cultura e ruolo pubblico
Il tema del del turismo si lega anche a quello dei finanziamenti alla cultura. Dalla tassa di soggiorno dipendono, infatti, gran parte dei contributi comunali al settore, “una perdita di 8 milioni di euro” dice l’assessore alla Cultura, Matteo Lepore. Ammanco che ha già compromesso la prossima estate, che salvo miracoli, sarà quasi certamente tristissima e senza eventi.
Vi ricordate gli eventi? Torneranno prima o poi, ma con i voli e – di conseguenza – i guest internazionali ridotti all’osso, saremo “costretti” a riscoprire energie e talenti locali. E, come un tempo, la necessità sarà forse foriera di virtù, e potremo ricominciare a produrre ciò che ieri ci accontentavamo di importare.
Il sistema dei festival sarà quello che risentirà maggiormente di questa situazione e proprio per questo sarà necessario inventarsi nuovi format che rimettono al centro la capacità produttiva nazionale. Per riuscirci avremo bisogno di un’importante intervento pubblico. Ma, senza quella tassa di soggiorno, da dove arriveranno i soldi per la cultura?
«Prima della pandemia – ci racconta Sarah Gainsforth, autrice di Airbnb città merce (DeriveApprodi 2019) – in realtà alcune città avevano iniziato a fare causa ad Airbnb perché a quanto pare quei soldi della tassa di soggiorno finivano solo in parte nelle casse dei Comuni. La possibilità per il futuro potrebbe essere quella di pensare a delle piattaforme pubbliche che sostituiscono Airbnb e affini. A questo punto vale la pena di pensarci seriamente, visto che abbiamo il tempo per farlo, per far sì che gli introiti del turismo, quando ripartirà, vengano distribuiti equamente alla comunità».
«Allocare le risorse non più in base alla capacità di riempire gli spazi, ma in base al contributo che la produzione culturale può dare al tempo, alla storia di una città e alla sua identità».
Una visione strategica la pone anche l’assessore al Bilancio di Bologna, Davide Conte: «La politica si è concentrata per troppo tempo sulla gestione dello spazio della città, perdendo di vista la vera dimensione che è quella del tempo e della storia. Se il nostro problema continua a essere solo lo spazio, i confini o addirittura le buche, la politica perde senso. Questo è successo anche con la cultura che una parte della politica ha relegato a passatempo o alla semplice gestione di contenitori.
Tutti gli strumenti di misurazione della cultura e di finanziamento si basano oggi sulle quantità (alzate di sipario per i teatri, numeri di visitatori per le mostre e così via). Quello che dovremmo fare domani è invece ripensare questo modello per allocare le risorse non più in base alla capacità di riempire gli spazi, ma in base al contributo che la produzione culturale può dare al tempo, alla storia di una città e alla sua identità.
Sono scelte di bilancio che andranno fatte se vogliamo seriamente pensare al futuro delle città. E Bologna in questo può diventare un modello perché ha un bilancio sano, anche se attualmente caotico a causa dell’emergenza. Possiamo uscirne non solo tagliando e risparmiando, ma adottando un criterio che si basa sulle linee indicate dall’Onu per lo sviluppo sostenibile con un orientamento che combina capitale economico, sociale, culturale e territoriale. E un modello nuovo che non si basa solo sull’efficienza, ma anche e soprattutto sull’efficacia della spesa. È un ruolo che oggi – in mancanza di numeri e risultati tangibili – può assumere solo l’amministrazione pubblica. Per far questo avremo ovviamente bisogno di costruire anche un discorso nazionale immaginando finalmente un finanziamento straordinario per la cultura, scelta finanziaria e strategica».
Finanziamento – aggiungiamo noi – che non ricada tuttavia nelle contraddizioni legate alla gestione privata del patrimonio culturale pubblico italiano con tutta la platea di lavoratori precari che si porta dietro: imprese e fondazioni che privatizzano i profitti delle biglietterie, ma socializzano le perdite, utilizzando gli stessi precari come bandierina per chiedere poi aiuti allo Stato.
Spazi
Immaginando cosa diventerà la cultura, nell’epoca del distanziamento sociale, non possiamo però non ragionare sugli spazi.
I cinema e i teatri – quelli più grandi almeno – potrebbero adattarsi inizialmente lasciando alcuni posti vuoti tra uno spettatore e l’altro, gestendo la biglietteria in modo automatico senza personale e con sistemi di scannerizzazione, andando incontro alla tendenza all’automazione che porta con sé l’inevitabile perdita di posti di lavoro; questo potrebbe significare anche molte più repliche e/o prezzi dei biglietti più alti, rendendo la cultura dal vivo un lusso per pochi e lasciando agli altri lo streaming low-cost. È uno scenario che fa orrore, ma non così irrealistico purtroppo e forse se preso come temporaneo potrebbe aiutare ad attutire l’impatto della recessione in attesa di tempi migliori.
Qualcuno (tipo il direttore della Cineteca, Gian Luigi Farinelli) ipotizza addirittura i drive-in, che negli Stati Uniti travolti dal virus hanno visto incrementare i propri ingressi. Quindi eventi in grandi parcheggi che invece delle auto, preferiremmo accogliessero solo biciclette, quindi bike-in.
Stessi discorsi potrebbero valere anche per i concerti, che nella modalità al chiuso – almeno fino al vaccino – avrebbero bisogno di location molto più grandi e posti rigorosamente assegnati.
E, immaginando un ritorno a ritroso alla normalità, i musei potrebbero diventare i primi a dover sperimentare queste nuove forme di “cultura in sicurezza”, predisponendo nuovi percorsi obbligati per la fruizione contingentata delle opere.
Come faremo a fidarci di chi ci balla accanto se il virus è ancora in mezzo a noi?
Molto più complicata sarà la gestione del clubbing: premesso che la tutta la cultura si basa sulla socialità, ballare separati è però un vero e proprio controsenso. Come faremo a fidarci di chi ci balla accanto se il virus è ancora in mezzo a noi?
Una possibile soluzione la avanza Gordon Lichfield, direttore di MIT Technology Review e consiste in un sistema severo di sorveglianza alla Black Mirror che potrebbe andar bene per tutti i luoghi al chiuso: “I locali notturni – scrive – potrebbero chiedere una prova di immunità, una carta d’identità o una sorta di verifica digitale tramite il vostro telefono, che dimostri che siete già guariti o che siete stati vaccinati contro gli ultimi ceppi del virus”. La sorveglianza invasiva potrebbe dunque diventare un prezzo da pagare per affrontare una “nuova normalità”.
Un ruolo cruciale lo avranno certamente il design e l’architettura. Nel frattempo dovremo però adeguarci a tentativi anche fallimentari di adattamento che avranno comunque bisogno di revisioni normative e burocratiche. Pensando ai bar, ad esempio, sarà difficile continuare a sostenere ordinanze che obbligano le persone a bere stipate dentro ai locali o sui dehors e la regola delle capienze ridotte costringerà forse molti – come i ristoranti – a dotarsi di sistemi di prenotazione o turnazione.
Richard Sennett, professore di studi urbani al MIT intervistato dal Guardian, pensa che in futuro ci sarà una rinnovata attenzione alla ricerca di soluzioni di design per singoli edifici e quartieri più ampi che consentano alle persone di socializzare senza essere “sardine” in ristoranti, bar e club compressi. Il che, in un mondo in cui spostarsi non solo è più difficile ma anche pericoloso, potrebbe significare vite di quartiere più intense e magari anche bar, club e ristoranti più omogeneamente distribuiti, con la fine di quelle “zone/distretti” da sempre deputate alla socialità o alla vita notturna. Quindi, addio Mercato delle Erbe, addio Pratello, addio zona universitaria, benvenuta vita di vicinato?
Gentrificazione
Con il turismo a zero, una parte significativa dello sviluppo urbano è ovviamente collassata. «Eppure – sostiene Giovanni Semi, professore di Sociologia delle culture urbane all’Università di Torino e autore di Gentrification (Il Mulino, 2015) – città come Firenze, Venezia, Roma o Milano che hanno delle economie molto differenziate e molto potenti continueranno a mantenere attrattività anche in un’epoca Covid o post-Covid. Il problema vero è per città come Bologna o Torino che in questa situazione vedono il fallimento di quel tipo di investimenti orientati su quel tipo di sviluppo. Avremo in molte aree della città una grande produzione di vuoto e di spazi abbandonati, e quelle iniziative che erano in corso verranno probabilmente congelate. Anche rispetto all’economia legata all’istruzione elevata, potrebbe esserci un rallentamento degli ingressi di studenti nelle città (l’abbiamo già sperimentato con la crisi del 2008), rendendo praticamente inutili quegli studentati privati che stavano iniziando ad affollare le nostre città. Con il collasso della movida, inoltre, alcune strade e interi quartieri verranno de-densificati con serrande abbassate e locali vuoti che non si sa che fine faranno.
«Avremo in molte aree della città una grande produzione di vuoto e di spazi abbandonati.»
Ma questo non vorrà certamente dire fine della gentrificazione. La sua parte legata al turismo è chiaramente morta al momento, ma la continua creazione di periferie e ghetti con i quartieri blindati più ricchi al centro, quella non verrà messa in discussione. Perché la crisi purtroppo acuisce le disuguaglianze: chi era già povero sarà molto più povero, chi era ricco sarà comunque più ricco degli altri, chi era in mezzo scivolerà verso il basso. Da questo punto di vista non vedo un miglioramento sul piano residenziale abitativo della gentrification, anzi».
Qualità dell’aria e mobilità
Alcuni studi stanno in questi giorni esaminando la correlazione tra le concentrazioni di particolato atmosferico (che potrebbe essere un efficace vettore per il trasporto) e la diffusione e la proliferazione delle infezioni virali. Molti scienziati sono ancora perplessi, ma anche se non fossero validati non potrebbero smentire il fatto che cittadini dai polmoni indeboliti da decenni di smog sono facile preda di un virus che si trasforma in polmonite letale. Evidenze che, insieme alle rilevazioni degli inquinanti atmosferici nettamente diminuiti nei giorni del lockdown, rendono il tema della qualità dell’aria tra i più importanti per il futuro prossimo.
In un comunicato congiunto Extinction Rebellion, Fridays For Future, Legambiente e molti altri soggetti e associazioni fanno riferimento ai dati diffusi dal Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) e dall’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) sulla riduzione di NO2 nei giorni della quarantena per chiedere una svolta politica che si basi finalmente sul principio di precauzione: “Le misure prese finora per la qualità dell’aria – scrivono – sono state largamente insufficienti e le condizioni di salute dell’apparato respiratorio dei nostri concittadini in questo momento ricoverati nelle terapie intensive ci sta restituendo tutta la tragica realtà. Chiediamo una piena assunzione di responsabilità da parte dei nostri amministratori, e un repentino cambio di passo nel considerare l’estrema dannosità delle emissioni per la salute pubblica. Non possiamo aspettare che piova o tiri vento (o peggio ancora che scoppi la prossima epidemia) per poter respirare aria pulita. Occorre agire con determinazione per ridurre il traffico e salvare vite, anche dopo l’emergenza”.
Diventerà difficile accettare i discorsi sul “Passante necessario per il benessere delle persone” e le ipotesi di disboscamento sui Prati di Caprara.
Se non ci fossero i dati a confermarlo, basterebbe comunque il nostro naso: mai respirata aria migliore a Bologna. E mai come in questi giorni le strade vuote ci offrono una visione ideale della città che vorremmo: non senza persone, ma con poche auto. Una città “slow” che incentiva l’uso della bicicletta come mezzo sicuro per muoversi (lo stanno già facendo molte città creando piste ciclabili d’emergenza) e consente di camminare e fare sport in spazi che per essere adattati al distanziamento sociale dovranno essere liberati dai veicoli a motore. Una città che, abbandonando i progetti di cementificazione e consumo di suolo, potrà investire parte delle risorse non solo per incentivare la ristrutturazione energetica dell’abitato e delle attività produttive, ma anche per progettare nuovi spazi verdi. Davanti a un simile scenario diventerà difficile accettare i discorsi sul “Passante necessario per il benessere delle persone” e le ipotesi di disboscamento sui Prati di Caprara.
D’altra parte per un po’ di tempo potremmo assistere a una diminuzione dell’utilizzo dei mezzi pubblici, percepiti come poco sicuri, con il rischio di lasciarci fregare dalla seduzione delle auto private (qualcuno propone già incentivi per l’acquisto…) e impoverendo ancor di più le casse comunali.
Un’idea per affrontare questo delicato passaggio la lancia Dan Hill su Medium, sulla stessa linea di quella suggerita da Sarah Gainsforth per il turismo: una piattaforma pubblica tipo Uber o, in altre parole, una nazionalizzazione dei taxi.
Una città a misura di futuro
Secondo il filosofo e matematico di origine libanese Nassim Nicholas Taleb, l’unico modo per affrontare il problema del Cigno nero, ovvero “l’impossibilità di calcolare il rischio che si verifichino eventi rari di grande impatto e di predirne l’occorrenza” è “spostare completamente il nostro attuale approccio alla previsione, ai pronostici e alla gestione del rischio dal fragile all’antifragile, o riducendo la fragilità, o sfruttando l’antifragilità. L’antifragilità va al di là della resilienza e della robustezza. Ciò che è resiliente resiste agli shock e rimane identico a se stesso; l’antifragile migliora”.
Prendendo per buona la sua lezione, potremmo dire che una città (o una società) a misura di futuro è quella che trae i maggiori benefici proprio dalle crisi. Certi che il prossimo cigno nero arriverà, non chiediamoci, allora, se saremo pronti per combatterlo, ma se saremo in grado di accoglierlo.