Si chiama Skank Bloc Bologna, come il pezzo che la storica band post-punk e comunista di Leeds, gli Scritti Politti, dedicò alla città, vista quasi come un luogo esotico di ribellione e agitazione politica.
Il volume, pubblicato da Mousse, è curato da Francesco Spampinato e Roberto Pinto, entrambi docenti del DAMS di Bologna e storici dell’arte contemporanea con un interesse comune per le pratiche alternative e le sottoculture. La storia degli spazi espositivi non-profit a Bologna dal 1977 a oggi viene ripercorsa attraverso alcuni saggi introduttivi di carattere storico-teorico e una carrellata di schede che si susseguono in ordine cronologico (fino al 2020) con tutti i dati essenziali degli spazi, le persone coinvolte, i progetti principali, qualche aneddoto e decine di immagini d’archivio significative di natura fotografica e di natura grafica.
«Tutto è partito – ci racconta Francesco Spampinato – prima da gruppo di ricerca interno al Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna da cui è nato un progetto di tirocinio durato circa tre anni nel quale abbiamo coinvolto diversi studenti e studentesse che hanno poi condotto ricerche e interviste con i fondatori degli spazi. Con tutto il materiale ottenuto abbiamo pensato che l’ideale sarebbe stato pubblicare un libro e per farlo abbiamo partecipato al bando Italian Council risultando tra i vincitori».
Italian Council è un progetto del Ministero della Cultura che ha come obiettivo quello di promuovere la creazione contemporanea italiana a livello internazionale e una sezione del bando è dedicata proprio alle pubblicazioni, motivo per cui il libro verrà poi presentato anche in altre sedi italiane e all’estero.
«Il tentativo – continua Spampinato – è stato quello di individuare delle peculiarità del fenomeno bolognese. È chiaro che gli spazi non profit non siano un’esclusiva cittadina, ma quello che noi vorremmo suggerire è che qui si è sviluppato un modello unico. Provo a spiegare meglio: intanto tutto ha preso forma all’interno di una realtà che in termini politici e culturali è sempre stata considerata e percepita all’estero come una realtà innovativa, in cui delle forme di agitazione politica trovavano una corrispondenza persino nelle amministrazioni locali e nell’università (pensiamo all’arrivo dello stesso DAMS e alla sua carica innovativa nell’ambiente accademico). E poi c’è la dimensione politica, non solo in termini di amministrazione pubblica, ma soprattutto di realtà che nacquero dal basso andando poi a caratterizzare il movimento del 77».
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È il contesto, quindi, che fornisce l’humus per lo sviluppo di un fermento creativo che troverà poi espressione anche in alcune forme di protesta e richieste di cambiamento.
«Ricordiamoci che Bologna era uno dei punti di riferimento dell’ala creativa del movimento del 77. E le ragioni le si scoprono anche andando a vedere quali erano le caratteristiche dei primissimi spazi non profit che sono inseriti nel libro, come ad esempio, la Tregenda, fondata nel 76 da un gruppo di donne per sole donne, o la Traumfabrik, sempre del 76 (qui il ricordo di Bifo su ZERO, ndi). Entrambi hanno contribuito a gettare le basi di questo modello Bologna, perché riuscivano a proporre una partecipazione orizzontale e a includere tutte le forme d’arte in un’ottica di ibridazione e con un approccio interdisciplinare che sarebbe poi diventata un’altra caratteristica fondamentale di questo modello, manifestandosi in tutta la sua potenza nello spazio per noi più importante a livello storico, ovvero il Link, dove succedevano cose inclassificabili secondo i parametri tradizionali. Infine va considerato che, a differenza di ciò che è successo negli altri paesi, questi luoghi si sono autosostenuti e sono riusciti a mettere in piedi un modello indipendente di produzione culturale che gli permettesse di sopravvivere senza un supporto pubblico».
Il volume arriva fino a oggi, individuando come ultimo uno spazio nato nel 2020, attraversando quindi epoche diverse e profondi cambiamenti che si riflettono sulla natura stessa del mondo non-profit.
«Senza banalizzare e parlare di semplice commercializzazione, possiamo però dire che negli anni notiamo una forma di progressiva professionalizzazione. Si è passati dall’idea di mettere in piedi qualcosa senza una programmazione vera e propria, senza un fine determinato a un mondo in cui invece ci sono sempre più obiettivi, sempre più certezze, e spazi che nel momento in cui nascono hanno già un’idea precisa di cosa faranno, tutti molto attenti, per esempio, a rispondere a dei criteri di programmazione che sono quelli tipici dell’industria culturale, su modelli di festival o attività che sono già ben strutturate. E lo si nota anche dal modo in cui gli eventi vengono documentati con foto e video che sono sempre di un certo tipo».
E farne una mostra?
«Sarebbe molto complicato, soprattutto per le prime esperienze. In alcuni casi il nostro è stato un lavoro quasi archeologico, perché a differenza di oggi, in pochi hanno avuto la lungimiranza di creare un archivio di quanto fatto. E poi c’è un’altra questione, non di poco conto, che contribuisce alla frammentazione della ricerca visuale: alcune sono state grandi storie d’amore, e come molte grandi storie d’amore sono finite male. Rimettere insieme i pezzi significa ricostruirle e alcuni non sono ancora pronti».
Skank Bloc Bologna: Alternative Art Spaces Since 1977 – scritto in inglese e italiano – è disponibile nelle librerie, nello shop di Mousse e nelle piattaforme online.
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Didascalie foto dalla preview del libro:
1 – Maggio 1997. Una ragazza tra i capannoni del Livello 57 durante un Rave Party. Foto di Massimo Sciacca.
2 – Sulla pagina a sinistra riproduzione del comunicato stampa Teatro Polivalente Occupato, 1995
3 – Sulla pagina a destra foto di gruppo del collettivo C-Voltaire che fondato Il Campo delle Fragole, 1993
4 – Materiali del Nowall, spazio in Via delle Moline attivo dal 1985 al 1988
5 – Isola Nel Kantiere. Foto di Gianluca Perticoni.
6 – Cassero LGBTI Center
7 – Fotografie che documentano il progetto “Frontiera Party” presso Segreto Pubblico, 1982, a cura di Francesca Alinovi, muri dipinti da Ivo Bonacorsi. Foto di Alessandro Zanini