Ad could not be loaded.

L’ex assessore Ronchi su passato e presente, politiche culturali e conformismo

Written by Salvatore Papa il 14 June 2024

Ferrarese doc, fondatore di Ferrara Sotto le Stelle, prima assessore alla Cultura di Ferrara, poi della Regione Emilia-Romagna durante il governo Errani, infine, dal 2011 del Comune di Bologna durante il primo mandato di Virginio Merola, il nome di Alberto Ronchi è legato alla nota vicenda di Atlantide e al suo sgombero, al quale si oppose con forza con la conseguente uscita dalla giunta nel 2015.

Chiusa l’esperienza politica, Ronchi oggi fa l’insegnante di sostegno precario in provincia di Ferrara, ma è tornato a parlare in occasione del concerto dei CCCP in Piazza Maggiore e la relativa discussione sull’utilizzo dello spazio pubblico, poiché già lui, durante il suo mandato, provò ad organizzare il primo concerto a pagamento in quella piazza con i Radiohead, poi spostati al Parco Nord per problemi di sicurezza legati al terremoto del 2012.

«Dopo 25 anni di politica – dice – oggi mi piace osservare».

Conosciuto anche come “assessore rock”, per la sua passione e ampia conoscenza musicale, non è raro incontrarlo a concerti ed eventi in città. Ed è in una di quelle occasioni che è nata questa lunga intervista in cui svela alcuni retroscena e riflette sul ruolo delle politiche culturali in generale e, più in particolare, nella città di oggi.

Ronchi al tavolo dell’incontro del 21 maggio 2024 “Almeno i Clash erano gratis!”

 

Qui partiamo sempre un po' dal principio. Quindi ti chiedo: com'è iniziata la tua esperienza politica?

È iniziata casualmente. Io lavoravo all’Arci come operatore culturale, e mi vennero a prendere due amici che mi chiesero di candidarmi negli allora Verdi-Arcobaleno. Uno di questi era Stefano Tassinari, a cui ero molto legato. Ma era un’altra epoca. Ho fatto per 10 anni il consigliere comunale all’opposizione, poi con il cambio di amministrazione nel 2000  sono stato nominato Assessore alla Cultura in quota Verdi.

E Ferrara Sotto le stelle?

Ferrara Sotto le Stelle è stata ideata durante il mio mandato di consigliere a Ferrara ed era organizzata dall’Arci che in quegli anni aveva una forza politica notevole in città, perché sia io che il presidente dell’associazione sedevamo in consiglio comunale, uno in maggioranza e l’altro all’opposizione. È stata un’esperienza che ho portato avanti per 4 anni, poi quando diventai assessore lasciai l’incarico, come anche Arci, per evitare conflitti di interesse.

Cosa ricordi di quei tempi?

Ci sono state belle soddisfazioni. Una delle cose che mi piace ricordare è quando ingaggiammo, pagandoli davvero molto poco, i musicisti cubani di Buena Vista Social Club. Il concerto ci esplose tra le mani, perché nel frattempo era uscito il film di Wim Wenders che, tra l’altro, è stato appena restaurato. All’epoca non c’erano le prevendite e fuori dall’area del concerto si formò una fila incredibile Ma di episodi da raccontare ce ne sono molti. Ovviamente anche il concerto di Bob Dylan: in quel caso fu il concerto in sé, perché Dylan non lo vedi, non lo senti, non lo tocchi. Ricordo che  si fece portare il dvd di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, che probabilmente non aveva ancora visto.

E dopo ci fu la Regione…

Sì, mi chiamò Errani, poi dopo 5 anni non fui riconfermato per motivi, direi, di natura politica.

E Bologna?

A Bologna feci un bel percorso con un’associazione che si chiamava “Bologna città d’Europa” che certamente contribuì a farmi nominare assessore da Virginio Merola, fino alla nota questione di Atlantide con cui finì la mia esperienza in netto contrasto sia con il Sindaco  che con tutto il PD.

Ti sei mai pentito di Atlantide? Avresti potuto fare di più?

No, francamente no. Di più non potevo fare. Sono stato anche testimone al processo contro alcune attiviste di Atlantide che si è concluso con la loro assoluzione e, come io sostenevo, la conferma che in porta Santo Stefano non vi era mai stata alcuna occupazione. La vicenda di Atlantide ha una spiegazione tutta politica. Poche settimane prima era uscito un articolo molto chiaro sul Carlino in cui un noto esponente del PD dichiarava che io, l’assessora alle politiche sociali, Frascaroli, quello al traffico, Andrea Colombo rappresentavamo un problema politico in vista delle prossime elezioni amministrative. In modo diverso ci fecero fuori tutti e tre. Colombo, addirittura, si presentò nelle liste del PD, prese una valanga di preferenze, ma non fu riconfermato in giunta.

Perché ti opponesti?

Non potevo accettare, da un punto di vista istituzionale, che dopo aver trattato positivamente con una realtà  che aveva dimostrato grande disponibilità, improvvisamente si decidesse di sgomberarla, tra l’altro l’unico sgombero effettuato dal Comune.

Ma perché lo fecero?

Come ti ho già detto, per motivi politici. Volevano sbarazzarsi di un assessore e, magari, accontentare le presidente del quartiere di centro-destra, giusto per dare esempio di moderazione. Sai la solita litania di “guardare al centro”. Peccato, perché la prima giunta Merola fu davvero innovativa, pensa che era composta da più rappresentanti indipendenti o appartenenti ad altre formazioni politiche, che da iscritti al PD. Poi, per tanti motivi, riuscirono ad imbrigliare il sindaco e l’esperienza fini.
Facemmo molte cose interessanti e importanti: creammo la Fondazione Cineteca, aprimmo Salaborsa anche la domenica, il regolamento per i dehors, quello acustico (entrambi archiviati malamente), la T pedonale…

E a vederla oggi cosa pensi della T?

Allora fu un passaggio importante verso la pedonalizzazione del centro. Doveva essere un inizio, verso una nuova mobilità urbana. Il processo si è fermato, come tante altre cose.

Qual era l'idea del progetto culturale per la città?

Il progetto culturale era completamente diverso da quello odierno. Sono convinto che uno dei temi su cui si riflette molto poco a Bologna, come nel resto del paese, è l’influenza che hanno le politiche culturali sullo sviluppo complessivo delle comunità.
Credo, infatti, che l’omologazione e il conformismo culturale che viviamo oggi abbiano una grossa influenza sul populismo e su un certo tipo di individualismo. Perché le pubbliche amministrazioni non dovrebbero essere ossessionate dai numeri, ma proporre ai cittadini modi diversi di vedere il mondo attraverso diverse espressioni artistiche, quindi non inseguire continuamente il mainstream o gli ultimi successi televisivi o provenienti dai social media.
Invece avviene esattamente il contrario. La cultura viene vista come uno strumento per raccogliere consenso, ma il mondo di sinistra, chiamiamolo così, non si rende conto che così facendo fa il gioco della parte opposta. Guardando al passato, in questo senso il momento di svolta è stato l’arrivo di Berlusconi e il suo modo di concepire la cultura, a cui, inesorabilmente, si sono tutti, più o meno, adeguati.
Quando sento parlare di egemonia culturale della sinistra mi scappa da ridere, ormai sono più di trent’anni che subiamo un’egemonia culturale di destra.

Ma non bisognerebbe favorire il pluralismo? Mettere insieme “alto e basso”?

Chi governa deve fare delle scelte, accontentare tutti è impossibile e sbagliato. Quest’idea fasulla della partecipazione e della co-progettazione che si è impossessata anche della cultura deriva direttamente , secondo me, di quell’idea terribile partorita dai 5 stelle, secondo cui “uno vale uno”, ovvero che chiunque si può occupare di qualsiasi cosa. Non funziona così. Non tutti possono fare i registi o i musicisti o i direttori artistici, tanto per fare alcuni esempi.

Le amministrazioni dovrebbero avere e dare indirizzi precisi e sulla base di questi indirizzi costruire e collaborare con una rete di esperienze territoriali coerenti, sempre con l’obiettivo di ampliare lo spettro delle proposte. In generale, comunque, il problema del conformismo culturale e dell’omologazione dei contenuti riguarda tutto il paese e la sinistra, con qualche rara eccezione, non combatte questa degenerazione, ma spesso la cavalca. Se tu vai a vedere le politiche culturali del centro-destra a Ferrara e del centro-sinistra a Bologna non noti tantissime differenze, purtroppo.

Che male c’è a proporre cose popolari?

Nessuno. Purché non siano nazional popolari. Un conto è organizzare una iniziativa come il Cinema Ritrovato, per esempio, dimostrazione pratica di come si possa essere originali ed aperti con una proposta di grande qualità ed avere un seguito decisamente consistente e pure popolare. Diverso è inseguire tutto quello che viene proposto dal mainstream con l’intento di essere nazional popolari e acquisire consensi.

Non tutti però erano d’accordo con le proposte culturali promosse dal tuo assessorato…

Certamente, ma avevamo iniziato a lavorare seguendo un metodo diverso. Prendendoci la responsabilità di fare scelte precise, come quella, per esempio, di individuare nel contemporaneo uno degli assi principali su cui lavorare. Nelle politiche culturali uno degli elementi fondamentali per dare significato alle proprie azioni è il tempo. Se ogni volta che cambia un’amministrazione si ricomincia da capo e si ricomincia ad inseguire i numeri, il successo, il consenso, si lavora semplicemente per ampliare l’omologazione culturale.

È sempre stato così, no?

Sì, infatti non c’è nessun elemento di novità. Con alcune eccezioni si è tornati indietro, le politiche culturali di Bologna in passato, almeno quelle dagli anni ‘90 del secolo scorso in poi, erano molto simili a quelle di oggi.

Forse c’era più varietà di esperienze dal basso, oggi molte esperienze di autogestione in città non ci sono più.

Anche in questo caso ci vedo un retaggio storico. L’assessore alla cultura della Regione, Felicori, nell’incontro che abbiamo fatto al Centro della Pace prima del concerto dei CCCP ha affermato che alla fine degli anni ‘70 il PCI riteneva che i gruppi antagonisti che erano in dissenso con il governo della città volessero diventare egemoni e, quindi, dovevano essere considerati come nemici e combattuti. Questa  mentalità in parte della sinistra di governo bolognese, nonostante i tempi siano molto cambiati, è rimasta. Lo sgombero di XM24, anche se si poteva assolutamente evitare, è lì a dimostrarlo.

Occorre anche sottolineare che ogni epoca è portatrice di esperienze diverse. Rispetto al passato, frutto del processo di omologazione, si è persa sicuramente quella che veniva chiamata “controinformazione”. Un tempo – e non parlo solo di Bologna – c’erano tre strade: quella del mainstream, quella della sinistra ufficiale e la controcultura. Rappresentavano uno spettro molto ampio. Dentro questi tre livelli potevi incontrare molte esperienze diverse,  tanti modi di vedere ed interpretare la realtà del mondo. È proprio questo quello che manca oggi.

Ma davvero le politiche culturali hanno così tanto peso?

Certamente ci sono diversi aspetti da tenere in considerazione, ma occorre interrogarsi su cosa e come lavorare per superare l’omologazione culturale.

Posso comprendere quello che mi circonda e posso interpretarlo personalmente soltanto se mi si danno gli strumenti per confrontarmi con diverse visioni e interpretazioni del mondo.

Dicevi dei numeri, ma l’epoca di Berlusconi ci ha anche insegnato che con la cultura non si mangia, un’idea che ancora non riusciamo a scardinare…

Ai miei alunni cito sempre quello che ha scritto Aristotele: la conoscenza non ha nulla a che fare con l’utile. È un principio che si deve sempre tenere in considerazione. E, in ogni modo, tra il non si mangia e il mangiare in continuazione credo ci possa essere una mediazione.

Veniamo invece alle cose più tecniche. I bandi, si usavano anche quando c’eri tu: in quel caso mancava il coraggio di fare delle scelte?

Io penso che i bandi siano una delle foglie di fico per non scegliere. I bandi si dovrebbero fare solo quando sono previsti dalle leggi e non c’è nulla di male se un’amministrazione sceglie di dare un luogo a qualcuno sulla base di un progetto e di un indirizzo. Anzi, dovrebbe fare proprio questo. Ma spesso, fingendo che vi sia una specie di neutralità, si costruiscono bandi con caratteristiche tali per cui soltanto un soggetto può partecipare e vincere. Questo modo di operare crea ovviamente distacco e disillusione nei confronti dell’operato pubblico, molto più che se ci si prendesse la responsabilità di scegliere.

Bologna Estate è il momento in cui la città esplode di eventi e si mette in mostra. Diciamo che fa parte di quell’insieme di attività che cercano di dare un’immagine precisa della città all’esterno. In un contesto in cui le città stesse competono per attrarre persone e investimenti questo potrebbe avere un senso strategico?

A me sembra che la comunicazione sia essenzialmente rivolta al proprio ombelico e poco all’esterno. È tutta indirizzata  alla città per affermare “come siamo bravi”, “come siamo forti”, “quante cose che facciamo”. Ancora una volta, nessun ragionamento sui contenuti e tanti numeri.

La Cineteca però è una cosa su cui si continua a investire moltissimo ed è portata sempre in alto nella comunicazione esterna e di rappresentanza della città…

Esatto, proprio la Cineteca, secondo me è un modello che bisognerebbe imitare. E non è vero, come pensano molti, che occupi troppo spazio. Anzi, ci vorrebbero più realtà e iniziative costruite su quel modello. Perché se c’è una cosa che tra le manifestazioni estive distingue Bologna dalle altre città quella è certamente il cinema in piazza.

E i portici non ci distinguono?

Il festival dei portici, con tutto il rispetto, è il tipico esempio di manifestazione conformista e omologata. Accendi la televisione e in qualsiasi programma del cavolo trovi gli stessi protagonisti. Anche i riconoscimenti Unesco sono decisamente sopravvalutati e omologati. Non c’è un luogo in Italia, ormai, che non ne abbia uno.

Ma mettiamo che la cultura sia pensata per i turisti e per far girare l’economia, è comunque un indirizzo preciso...

Le masse di turisti che oggi invadono Bologna non sanno neanche dell’esistenza del festival dei portici. La cultura nazional popolare la si organizza per creare consenso tra coloro che votano, i cittadini. Abitando a Ferrara sono diventato un esperto di questa modalità.

Ma se il turismo è un problema, che sia per il cibo o per la cultura non è uguale?

È un problema nel momento in cui non cerchi di governarlo e non sei in grado di capire cosa puoi permetterti come città e cosa no. Bologna si può permettere il Cinema Ritrovato perché è un progetto culturale originale e di qualità e il tipo di turisti che attrae sono interessati alla città. Diversamente le mandrie che pascolano alla ricerca di cibi precotti, convinti di assaggiare prelibate specialità, la città la consumano, come dimostrano le esperienze di Venezia, Firenze, Roma e, recentemente, Napoli.

Il Sindaco ha annunciato un festival musicale in Piazza Maggiore.

Non capisco perché, li, come ho detto, si svolge una delle attività più caratterizzanti la città. In quella piazza ci sono già troppe cose, bisognerebbe ragionare piuttosto per sottrazione.

Tu volevi farci i Radiohead, peraltro anche quelli a pagamento.

Ma sarebbe stata un’iniziativa completamente diversa. La band era in un momento molto creativo e sarebbe stato un unico concerto e non un festival. E poi si inseriva in un contesto complessivo di attività ragionate dove c’erano concerti gratuiti e concerti a prezzi molto contenuti. 

E i CCCP?

È il fenomeno italiano musicale dell’anno. Vengono proposti in ogni dove. Nel 2025 verranno sostituiti da qualche altra iniziativa commerciale.

Torniamo al ruolo delle fondazioni, partiamo da Fondazione Carisbo e Genus Bononiae.

Io credo che la loro crisi sia iniziata con la mostra della Ragazza con l’orecchino di perla, per la quale io fui molto critico. Anche quella completamente fuori scala soprattutto per i costi. Da lì non si sono più ripresi.

Bologna Welcome.

Personalmente con Bologna Welcome ho avuto un confronto positivo. Adesso è  stata trasformata in fondazione e c’è un po’ da preoccuparsi. Da soggetto che si occupava di promozione turistica è diventato un soggetto che si occupa anche di cultura, perlomeno quella nazional popolare.

Anche tu hai fatto la Fondazione Cineteca...

Certo. Perché le fondazioni di scopo possono semplificare una serie di procedimenti, mantenendo il controllo pubblico. La Cineteca aveva un potenziale, come ha dimostrato, di livello mondiale, ma per la sua struttura giuridica poteva operare al massimo in ambito provinciale.

E che differenza c’è con Bologna Welcome?

Non è la scatola importante, ma quello che ci metti dentro.  Nel caso di Bologna Welcome può trattarsi di uno spostamento di competenze, per esempio relative alla cultura, fuori dal Comune, con relativo ridimensionamento del personale. Se ne sono accorti anche i sindacati.

Quindi anche su questo bisognerebbe vigilare molto attentamente, o meglio, bisognerebbe decidere da che parte si va e magari discuterne ampiamente e pubblicamente A proposito di “partecipazione fuffa”, questo tipo di operazione, mi pare che non sia in discussione nemmeno in consiglio comunale. Poi, però, ci si confronta a tutti i livelli se mettere la giostrina nel giardinetto, oppure no.

E i musei?

L’accentramento avvenuto con l’accorpamento nel Settore Cultura e la fine dell’Istituzione Bologna Musei ha tolto parte dell’autonomia ai musei stessi e li ha ridimensionati, soprattutto a livello economico. In particolare MAMbo mi sembra molto più marginale rispetto a solo qualche anno fa. In compenso si annuncia continuamente l’apertura di nuovi musei. Quelli esistenti sono senza personale e con scarse risorse economiche, ma, nell’estasi bulimica, si pensa a nuove strutture.

Si dovrebbe ragionare su una nuova organizzazione del sistema museale cittadino, ma questo non produce consenso immediato e allora si fa – o meglio: si annuncia – altro.

La città però è sempre più ricca di stranieri, ha una sua dimensione internazionale.

Ma quelli arrivano grazie soprattutto a Ryanair, come ovunque. Ma questo non significa che la città sia aperta al mondo.

Credi che Bologna si stia chiudendo?

In Italia tutte le realtà si stanno chiudendo. Bologna non fa eccezione. Questo fenomeno , lo ripeto, si può scardinare in parte attraverso le politiche culturali pubbliche, occorre  avere il coraggio di proporre altre visioni  a cui collegare una nuova narrazione, e non cavalcare semplicemente l’esistente.