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Il professore, l’organizzatore, il buffone: intervista a Cesare Pietroiusti

Una riflessione sul concetto di retrospettiva.

Written by MoRE il 18 October 2019

Place of residence

Roma

Attività

Artista, Professore

Qualche giorno fa ha inaugurato al MAMbo la prima mostra antologica di Cesare Pietroiusti in una istituzione museale Un certo numero di cose / A Certain Number of Things a cura di Lorenzo Balbi con l’assistenza curatoriale di Sabrina Samorì visitabile fino al 6 gennaio 2020.
Vincitore della IV edizione del bando Italian Council (2018), concorso ideato dalla Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane (DGAAP) del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, per promuovere l’arte contemporanea italiana nel mondo, Pietroiusti – la cui ricerca artistica fin dal 1977 si è sviluppata fuori dalle logiche di gallerie, musei e mercato (qui una sua breve biografia) – ha immaginato una mostra che prende avvio da una riflessione sul concetto stesso di retrospettiva. Da qui l’idea-provocazione di autonarrarsi non solo attraverso le opere prodotte, ma anche tramite oggetti, suggestioni, episodi, gesti, azioni, comportamenti, ricordi riferiti alla propria vita, a partire dall’anno di nascita, il 1955. Una storia che prende forma anche nel catalogo edito da NERO.
A intervistarlo per Zero sono i curatori di MoRE a museum of refused and unrealised art projects (Elisabetta Modena, Valentina Rossi, Marco Scotti e Anna Zinelli) il museo digitale che nel 2012, proprio con i progetti di Pietroiusti, ha inaugurato la sua attività volta a raccogliere e valorizzare i progetti non realizzati degli artisti contemporanei.

 

Sette anni fa abbiamo inaugurato MoRE con alcuni tuoi progetti non realizzati. Tra essi anche quelli per una mostra retrospettiva e adesso una retrospettiva l’hai fatta davvero. È stato un lungo percorso quello che ti ha portato qui: ne sei soddisfatto? 

È vero, penso alla “retrospettiva” da molto tempo non soltanto perché mi piace l’idea che un museo dedichi una mostra al mio lavoro, nei suoi diversi aspetti, ma anche perché mi diverte pensare alla mostra retrospettiva come un nuovo progetto, come un momento per guardare avanti – quindi una “anterospettiva” – proprio usando, come strumenti, cose (oggetti, opere, documenti, ricordi) che hanno una loro collocazione cronologica nel passato. E sì, ne sono molto soddisfatto, sia perché la mostra mi sembra sia venuta (grazie al sostegno dell’Italian Council, alla professionalità di tutto lo staff del MAMbo, al coraggio gentile di Lorenzo Balbi…) molto bene, sia perché mi sembra che quei ponti temporali, quelle pieghe fra tempi diversi si siano formati e si stiano formando.

Come nasce questa mostra e l'idea di associare ogni anno della tua vita a un oggetto o a una tua opera?

L’ispirazione è stata una mostra di Picasso vista alla Tate Modern un paio di anni fa, a cui peraltro ero andato controvoglia. Una mostra in cui c’era tutto quello che Picasso aveva fatto nel 1932: non solo opere, ma anche documenti, lettere, storie relative a nuovi studi, nuovi amori, aste ecc., in una successione narrativa in cui anche il quadro che, in un’altra occasione, avremmo giudicato mediocre, un Picasso “tardo” o “minore”, diventava interessantissimo.
Così ho pensato a far emergere una visione autobiografica anche precedente a quella più propriamente artistica, e poi a mescolare arte e non-arte, dentro una struttura cronologica molto rigida (ovvero molto elementare: come voi sapete la mia intelligenza è alquanto “elementare”). Una cosa per anno. Semplice, no?

Perché hai scelto di dare alle opere, ai ricordi e agli oggetti veicolo di memoria in mostra “pari dignità”?

Appunto per evidenziare ponti temporali (molto della mia vita infantile o di adolescente si “ritrova” nelle opere successive), e mettere in discussione la categoria stessa di “opera”, ma anche di autorialità individuale.

Perché hai messo in mostra una serie di progetti di cui ti vergogni?

Lavori da vergognarsi è un corpus di sei opere effettivamente realizzate in passato (fra fine anni ’70 e fine anni 2000), ma mai esposte perché, all’ultimo momento le avevo giudicate brutte, incoerenti, simili al lavoro di altri artisti o, in un caso, addirittura “troppo belle”. Fortunatamente non le avevo buttate e nel 2015, in occasione di una mostra presso ZooZone, una piccola galleria di Roma, le misi insieme per costruire, a tutti gli effetti, una “retrospettiva”. Per me questa mostra del 2015 evidenzia che la ricerca artistica non è né “giusta” né “sbagliata”, ma coglie le tensioni che si producono nel campo fra lo sbagliato e il giusto. Inoltre fa capire che il momento “arte” si colloca là dove vibrano i confini tra “elemento di una classe” e “classe di elementi”, cioè quando il pensiero salta da un livello dato a un livello “meta”, che considera il precedente secondo criteri diversi, spesso smontando pregiudizi, ansie, censure ecc.
Credo che Lavori da vergognarsi ovvero il riscatto delle opere neglette sia una delle più “belle” mostre che io abbia mai fatto, e per questo apre la retrospettiva del MAMbo. Sei cose di cui mi vergognavo ne fanno una, di cui sono fiero.

Credi che questa esposizione si possa intendere come un unico progetto artistico?

Per quanto appena detto sì, mi interessa la reversibilità fra singolarità (opera) e insieme (mostra); mi interessa l’indecidibilità fra l’ipotesi che tante cose (arte e non-arte) facciano insieme una specie di “grande opera”, e l’ipotesi che la mostra serva a legittimare, anche attraverso l’uso di oggetti di contorno (storie, suppellettili, arredi), come “opere d’arte” determinate cose che io ho fatto, o cominciato a fare, nel passato.

Per questa mostra hai immaginato una serie di workshop e laboratori. Che ruolo hanno in questa occasione e in generale nella tua pratica artistica?

La pratica laboratoriale mi piace e mi diverte perché offre, in alcuni momenti, la possibilità di pensare con una mente collettiva. Sono piccoli, ma reali momenti di ek-stasis. È la dimensione in cui convergono l’istanza formativa, quella produttiva e quella espositiva. Forse ci ritrovo le mie tre anime: il professore, l’organizzatore, il buffone.
Qui il laboratorio serve per rivedere, ridiscutere, ripensare, rifare, tutto quello che è in mostra. Di nuovo, per cercare di dimostrare che il “fatto” è sempre, ancora, nella dimensione del “facendo”.

Tifi ancora per la Roma?

Non so più neanche un nome di un giocatore della Roma però sono contento se vengo a sapere che ha vinto con la Juventus. Comunque trovo il calcio insopportabile nel suo essere stato totalmente fagocitato dalla televisione.

Dove vai quando sei a Bologna? Hai instaurato con la città e alcune persone un rapporto particolare? 

Bologna, per una certa generazione di artisti, è stata importantissima verso la metà degli anni ’90 – qualche nome: Gino Gianuizzi e Neon; Anteo Radovan e Il Graffio; tantissimi artisti che poi hanno dato vita a Oreste come Sabrina Mezzaqui, Annalisa Cattani, Eva Marisaldi, Fabrizio Rivola, Cuoghi e Corsello, e molti altri… E poi il Link, con Silvia Fanti, Daniele Gasparinetti, Luca Vitone e Andrea Lissoni.
Direi che tuttora, ogni volta che sono a Bologna, l’incontro con Silvia (con cui l’anno scorso abbiamo realizzato un progetto molto divertente per Artefiera) e Daniele, è un momento fondamentale di scambio, confronto, aggiornamento.
Ce ne fossero tante, in giro per l’Italia, di persone come loro…